Fukushima, due anni dopo

Sono passati due anni da quando in Giappone, sulla costa Nord Est del paese, si sono abbattute le prove generali della fine del mondo. Erano le 14:46 (ora locale) dell’ 11 marzo 2011 quando la terra ha cominciato a tremare e non ha smesso per sei lunghissimi minuti. A questo spaventoso terremoto di magnitudo 9 è seguito uno tsunami con onde alte anche 15 metri che hanno danneggiato gravemente la centrale nucleare di Fukushima Daiichi causando quello che viene oggi ricordato come il secondo disastro più grave al mondo, dopo quello di Chernobyl del 1986.

Due anni dopo il disastro nucleare sembra ridimensionato, per lo meno lo sono le sue conseguenze dirette sulla salute umana: secondo un rapporto dell’ Organizzazione mondiale per la sanità (Oms) il rischio di sviluppare un cancro è aumentato in maniera molto lieve, e solo nella popolazione delle aree più vicine al disastro. A 24 mesi però i lavori di decontaminazione e ricostruzione sono ancora quasi a zero e gran parte della popolazione evacuata non è mai tornata, soprattutto quella più giovane. E intanto il governo vuole riaprire le centrali nucleari.

Rischi per la salute
Alla fine di febbraio l’Oms ha pubblicato il rapporto in cui stima l’aumento del rischio di cancro come conseguenza diretta dell’incidente nucleare alla centrale di Fukushima Daiichi. L’analisi conferma le previsioni ottimiste che già circolavano un anno fa. Secondo i modelli messi a punto dagli esperti dell’Organizzazione mondiale per sanità, il rischio di sviluppare leucemie più avanti negli anni, è aumentato del 7 per cento per quelli che al momento dell’incidente erano bambini e del 6 per cento per le bambine delle aree entro le miglia dall’impianto. Il rischio di tumori solidi è aumentato invece del 4 per cento. Molto più elevato è invece l’incremento per il cancro alla tiroide, le donne che oggi sono bambine vedranno aumentato il loro rischio di sviluppare un tumore di questo tipo del 70 per cento. Questi numeri apparentemente anche molto alti, spiega l’Oms, indicano l’aumento del rischio e non il rischio assoluto: il rischio base di sviluppare un cancro alla tiroide durante il corso della vita per una donna è di circa lo 0,75 per cento, ed è questo numero che aumenta del 70 per cento, arrivando all’1,25 per cento.

“ Ci sono piccoli incrementi proporzionali, il rischio aggiunto è molto piccolo e verrà nascosto da quello dovuto allo stile di vite e ad altre situazioni. Ha più peso non cominciare a fumare piuttosto che essere stato a Fukushima”, ha spiegato Richard Wakeford dell’ Università di Manchester, coautore del rapporto. Lo studio ha anche preso in considerazione la situazione degli operai dell’impianto che hanno ricevuto la dose più alta di radiazioni durante il meltdown dei reattori. Circa un terzo dei lavoratori vedrà un incremento, ma anche in questo caso il rischio assoluto rimarrà basso.

Secondo il Time, il peggio è stato evitato sia grazie all’immediata evacuazione della città vicine alla centrale sia al bando al cibo proveniente da queste zone. Dopo Chernobyl circa 6000 bambini esposti alle radiazioni hanno sviluppato un cancro alla tiroide perché molti di loro hanno bevuto latte irradiato che il governo sovietico non ha pensato di proibire. Gli autori del rapporto tuttavia spiegano che le loro valutazioni sono basati su una limitata conoscenza scientifica: la maggior parte dei dati relativi agli effetti delle radiazioni disponibili riguarda l’esposizione acuta, come quella che ha seguito le esplosioni di Hiroshima Nagasaki e non un’esposizione cronica a bassi livelli di radiazioni come quella che invece subiranno le popolazioni che abitano vicino alla centrale giapponese.

Poco soddisfatta delle conclusioni dell’Oms è Greenpeace, che ha rilasciato anch’essa il suo rapportopoche settimane fa “ Il rapporto dell’Oms riduce vergognosamente gli effetti dell’immediato rilascio di radiazioni dal disastro di Fukushima sulle persone che si trovavano entro 20 chilometri dalla centrale e che non sono stati in grado di lasciare tempestivamente l’area”, commenta in un comunicato stampa. “Il rapporto è chiaramente un documento politico mirato a proteggere l’industria nucleare e non un paper scientifico redatto con tenendo a mente la salute umana”.

Sempre secondo il Time invece, l’Oms starebbe addirittura sovrastimando i rischi. “ Fukushima, nonostante tutto, non è stata nulla in confronto a Chernobyl. La Tepco ha riportato che gli impianti hanno rilasciato 900mila terabequerel di radiazioni nell’aria nel momento di massimo picco, mentre furono 5,2 milioni di tb rilasciati durante l’incidente di Chernobyl che ha anche coinvolto un’area di estensione molto maggiore”.

Ritorno al nucleare
Anche secondo il governo giapponese il rapporto dell’Oms sovrastimerebbe i rischi e potrebbe inutilmente alimentare le già forti paure dei cittadini proprio quando il Primo Ministro, Shinzo Abe, ha annunciato la sua intenzione di riaprire e riattivare gli impianti nucleari che erano stati fermati all’indomani del disastro. Come racconta il New York Times infatti, in un discorso tenuto davanti al parlamento a fine febbraio, Abe ha promesso di riaprire le centrali che soddisferanno le nuove stringenti linee guida messe a punto tra la fine del 2012 e gennaio di quest’anno e che saranno adottate da una nuova agenzia regolatrice indipendente, la Nuclear Regulation Autority, entro luglio.

Le nuove misure di sicurezza includono muri di protezione contro gli tsunami più alti (a Fukushima erano di 5 metri e mezzo, facilmente superati dalle onde) ,un aumento delle fonti di energia di emergenza per i sistemi di raffreddamento e la costruzione di centri di comando a prova diterremoto. A oggi nessuno dei 16 impianti nucleari non danneggiati soddisfa questi nuovi standard che, ha dichiarato Abe, dovranno essere adottati “senza compromessi”, ma sempre secondo il Nytimes, molti sono convinti che i sostenitori dell’industria nucleare tra le fila del governo troveranno il modo per aggirarle.

Lenta ricostruzione
Mentre si pensa già a riaprire gli impianti, poco è stato fatto per decontaminare l’area intorno alle centrali danneggiate. Quando fu annunciato, quattro mesi dopo il disastro, il piano del governo per la pulizia della zona, aveva suscitato grandi speranze, racconta ancora il New York Times: sosteneva che il Giappone avrebbe messo in campo le tecnologie più avanzate a disposizione. Già nel Novembre 2011l’Agenzia nazionale per l’energia atomica aveva ne aveva già individuato 25 tecnologie efficaci per rimuovere il cesio radioattivo dall’ambiente e le aziende in grado di metterle in atto.

Molte di queste imprese tuttavia non sono mai state interpellate: le amministrazioni nazionali e locali hanno preferito, spiega il quotidiano statunitense, affidare i lavori alla Kajima Corporation, la più grande impresa di costruzioni giapponese, la stessa che ha realizzato gli edifici dei sei reattori della centrale di Fukushima. Finora la Kajima ha inviato sul posto 1500 uomini che ogni giorno annaffiano le strade e il suolo contaminato con tonnellate d’ acqua e che si dedicano a raccogliere fogliame e suolo contaminato in grandi sacchi della spazzatura che poi rimangono ai margini delle strade o sulle spiagge (questo materiale potrebbe raggiungere i 29 milioni di metri cubi e per il suo smaltimento non vi è ancora nessun tipo di piano). Queste procedure, secondo gli esperti, invece che eliminare i contaminanti potrebbero facilitarne l’ingresso nel suolo, nell’atmosfera o nel ciclo dell’acqua. “ Questa non è decontaminazione, è spazzar via sporcizia e fogliame, ed è irresponsabile”, ha dichiarato Tomoya Yamauchi, un esperto in misura delle radiazioni all’ Università di Kobe che ha collaborato alle valutazioni di efficacia dei diversi sistemi di decontaminazione.

Tutto questo sta provocando una perdita di fiducia nella popolazione che porta le persone che sono state costrette ad allontanarsi a non tornare più. Secondo il quotidiano giapponese Asahi Shimbun sono oltre 72 mile le persone che mancano all’appello nelle 42 municipalità costiere delle tre prefetture (Fukushima, Miyagi e Iwate) colpite più duramente dal terremoto e dallo tsunami. Il 65 per cento degli assenti ha meno di 40 anni: molte giovani famiglie sono emigrate altrove per paura delle radiazioni, per la mancanza di lavoro, di servizi e infrastrutture. L’esodo dei giovani è stato massiccio soprattutto nella prefettura di Fukushima, dove circa 25 mila persone sotto i 40 anni hanno lasciato la zona, portando a una diminuzione della popolazione totale dell’82 per cento.

Questi 72 mila assenti sono quelli che hanno ufficialmente cambiato la loro residenza, ma a mancare all’appello sono molto di più. Dopo il disastro, infatti, sono state evacuate quasi 160mila persone e non tutti quelli che hanno definitivamente lasciato la zone lo hanno dichiarato per non perdere i contributi statali e i risarcimenti. Per esempio Okuma, una delle città più vicine al reattore numero 1 aveva una popolazione di 11.500 persone prima dell’incidente; oggi, sebbene tutti i residenti siano stati evacuati, sulla carta la città ha perso solo 500 abitanti. § 

Fukushima 50
Sono stati soprannominati i Fukushima 50, anche se sono stati almeno una settantina. Sono gli operai della Tepco (l’azienda che gestisce la centrale di Fukushima Daiichi) che sono rimasti al loro posto nei giorni immediatamente conseguenti allo tsunami a lavorare per evitare il meltdown dei reattori e cercare di mettere in sicurezza gli impianti. La stampa internazionale li ha etichettati come kamikaze,suicidieroi, i giapponesi li disprezzano, e loro si sentono responsabili del disastro nucleare e finora erano rimasti in silenzio. Solo dopo il ringraziamento ufficiale da parte del governo giapponese, lo scorso ottobre, qualcuno ha cominciato a raccontare la sua storia, caratterizzata sempre dal senso di colpa.

Come quello che colpisce Atsufumi Yoshizawa, ingegnere della Tepco, uno degli uomini rimasti nella centrale. Sapendo moglie e figlia al sicuro a Yokohama, aveva in testa solo due cose, spiega all’Independent: “ La sicurezza dei miei lavoratori e la completa disattivazione della centrale”. E con lui altre decine di operai condividevano queste priorità. “ Può sembrare strano da fuori, ma è naturale per noi mettere l’azienda al primo posto, non abbiamo mai pensato di abbandonare i l nostro posto”.

Nelle settimane successive, racconta, lui e questi uomini hanno lavorato in condizioni disperate, esponendosi alle radiazioni, ai rischi di crolli e gestendo la situazione fino a quando i vigili del fuoconon sono riusciti a raffreddare nuovamente i reattori. Molti di questi operai tuttavia continuano a rimanere in silenzio e possibilmente nell’anonimato: non c’è gratitudine da parte dei giapponesi per loro. Molti sono ancora sul libro paga di una delle aziende più odiate del Paese, con la quale sono identificati e con la quale si identificano, e per questo motivo sono vittime di ritorsioni e discriminazioni: diversi per esempio, racconta Bbc News, si sono visti rifiutare appartamenti in affitto.

2 anni dopo FUKUSHIMA

In occasione del secondo anniversario della tragedia di Fukushima, riprendiamo un vecchio articolo di Barbara Spinelli “Il dovere della paura”.

CI SONO momenti così, nella storia degli uomini: dove si reagisce con l’emozione oltre che con la razionalità, perché l’emozione sveglia, incita a stare all’erta. Già in Eschilo, la passione e il patire sono fonti d’apprendimento. È il caso del Giappone da quando, venerdì, lo tsunami s’è aggiunto al terremoto e non solo ha spazzato case, vite, villaggi, ma ha causato l’esplosione di quattro reattori nucleari a Fukushima.All’orrore spuntato dal sottosuolo e dal mare s’aggiunge ora una pioggia radioattiva che spinge chi abita presso le centrali a fuggire o barricarsi in casa. Ci sono momenti in cui si apre una fessura nel mondo, e non solo in quello fisico ma in quello mentale, sicché occorre ricorrere ai più diversi espedienti: all’intelligenza razionale, alla discussione pubblica, ma anche alla paura, questa passione giudicata troppo triste per servire da rimedio.

Non a caso, quando sollecita la responsabilità per il futuro della terra, il filosofo Hans Jonas parla di paura euristica: non la paura che paralizza l’azione o è usata dai dittatori, ma quella che cerca di capire, di scoprire (questo significa euristica ). Che è generatrice di curiosità, prevede il male con apprensione, fa domande, sprona a rettificare quanto pensato e fatto sinora. Jonas evoca addirittura il dovere della paura: «Diventa necessario il “fiuto” di un’euristica della paura che non si limiti a scoprire e raffigurare il nuovo oggetto, ma renda noto il particolare interesse etico che ne risulta»( Il principio di responsabilità, Einaudi ’90).

Alla luce del principio di responsabilità appaiono completamente inani i governi – come l’italiano, il francese – che screditano questa paura, e in tal modo negano la gravità del momento e l’urgenza di correggere i piani nucleari.

Obama e Angela Merkel dicono ben altro: «Non si può fare come se nulla fosse». Non così il ministro dell’energia Eric Besson, o il ministro per lo sviluppo economico Paolo Romani.

Per Besson nulla cambia, neanche le centrali invecchiate come quelle giapponesi: nella conferenza stampa di sabato ha evitato il termine «catastrofe», preferendo il meno allarmante «incidente grave». Stesso atteggiamento in Romani, che ha invitato l’altro ieri a «non farsi prendere dalla paura», senza sapere di che parlava. Non sono i soli: anche i governanti giapponesi hanno a lungo minimizzato, prendendo per buone le assicurazioni dei gestori delle centrali (Tepco, Tokyo Electric Power Corporation). La stessa Tepco che più volte è stata indagata (specie nel 2002-3) per il non rispetto delle norme anti-sismiche.

Apocalisse è vocabolo che s’espande come un virus, dall’inizio del cataclisma. Ma apocalisse è altra cosa, ha legami con la religione: è rivelazione di un piano divino, è l’omega che si ricongiunge all’alfa, è il cerchio terrestre che chiudendosi si schiude all’oltrevita. I colpiti sono innocenti, ma per qualche motivo Dio vuole che la storia terrestre s’esaurisca così, stroncando il libero arbitrio d’ognuno. Per questo conviene dismettere questa parola molto scabrosa, che sigilla gli occhi a quel che accade qui, ora; in terra, in mare. Eventi simili non sono la fine del mondo, pur preludendo forse a essa. Sono piuttosto la fine di un mondo: di certezze, di assiomi cocciutamente coltivati.

In Giappone, per vie misteriose, suscitano ricordi funesti, che hanno radici profondissime nella sua cultura recente. Il collasso delle centrali nucleari rimanda al trauma mai sopito di Hiroshima e Nagasaki, quando Washington diede a Tokyo questa lezione di inaudita violenza. La terra che ti squassa, la solitudine dell’uomo in tanto scompiglio, la natura maligna, la morte nucleare che incombe: nelle teste nipponiche è incubo magari dissimulato ma è sempre lì, in agguato. Lo dicono i volti che ci fissano in queste ore: impietriti, più che impassibili. Lo vediamo nei corpi che d’un tratto s’immobilizzano, come morissero in piedi.

Non è vero che i giapponesi hanno paure più calme, controllate delle nostre. Il loro urlo non è quello di Munch ma è pur sempre urlo. Sappiamo dalla Bibbia quanto possa esser afono l’agnello, e il grido del Giappone è colmo di interrogativi atterriti: perché le autorità hanno permesso che centrali vecchie quarant’anni sopravvivessero? Perché non hanno previsto che anche dal mare poteva venire il mostro? Perché sono così evasive? Perché proprio Tokyo, che ha già vissuto la sventurae se la porta dentro come assillo, s’è fidata della tecnologia, nonè corsa in tempo ai ripari? Ci sono grandi disastri che hanno quest’effetto: di sconvolgere non solo le vite ma vasti castelli di teorie filosofiche ritenute sicure. L’Europa ha conosciuto ore analoghe: accadde nel terremoto di Lisbona, l’1 novembre 1755, e tutte le teorie si scardinarono. Anche quella fu fenditura d’ un mondo: fondato sull’euforia tecnologica, sull’ottimismo, religioso o no.

La modernità iniziava, e già inciampava. Ventidue anni prima, Alexander Pope aveva scritto un poema intitolatoSaggio sull’Uomo. Il verso ricorrente era: «What ever is, is right»: tutto quel che esiste è bene. Ma ecco che si apre la crepa di Lisbona, sulla liscia pelle del pensare positivo. Voltaire, Kleist, Kant sono turbati e scoprono che non è più possibile consolarsi con Pope e le teodicee di Leibniz. Non è più possibile dire a se stessi, come Pangloss nelCandide di Voltaire: avanziamo «nel migliore dei mondi possibili».

Cadde anche l’illusione, cara alle chiese, sul dolore salvifico: non esiste una felix culpa, ma un male che ti prende di sorpresa, ingiusto. In presenza del disastro o del crimine sono più opportuni la sapienza di Kleist, le ricerche di Kant sulle origini dei terremoti (Kant è il primo a scoprire la «rabbia del mare»), lo sguardo di Voltaire: «Elementi, animali, umani, tutto è in guerra. Occorre confessarlo: il male è sulla terra». Ansioso di conforto, Rousseau scrisse incongruenze, in una lettera a Voltaire del 1756: «Non sempre una morte prematura è un male reale (…). Di tanti uomini schiacciati sotto le rovine di Lisbona, parecchi senza dubbio hanno evitato disgrazie più grandi, e (…) non è detto che uno solo di quegli sventurati abbia sofferto più che se, seguendo il corso naturale delle cose, avesse dovuto attendere in lunghe angosce la morte che lo ha colto invece di sorpresa».

Ma anch’egli pone domande che solo l’emozione accende: non è stata edificata male Lisbona, con le sue case alte 6-7 piani? Non è l’uomo il colpevole, più della natura? Candide soffre il terremoto e conclude: «Bisogna coltivare (meglio) il proprio giardino», dunque la terra, perché questo tocca all’uomo. All’uomo descritto da Kant dopo il 1755: «legno storto», «mai più grande dell’uomo». Il Giappone non ha alle spalle i settecenteschi ottimismi europei. Dopo Hiroshima si è risollevato con non poche rimozioni, ma con traumi indelebili. Cinema e letteratura narrano questi traumi, e una paura niente affatto calma. Su queste ramificazioni del pessimismo s’è rovesciato lo tsunami, e Jonas aiuta più di Voltaire. I giapponesi sapevano già che «il male è sulla terra», e quel che può soccorrerli è la paura che scoperchia, che scopre. La stessa paura che affiora da decenni, sotto forma di fantasmi, nel suo cinema, nella sua letteratura. In questi giorni guardi la tv, e sembra di vedere la città su cui s’abbatte l’indicibile cataclisma raccontato nel film Kairo, di Kiyoshi Kurosawa: strade e autobus vuoti, fughe verso il nulla, e in cielo, a distanza ravvicinata, un immenso aereoavvoltoio (nell’Apocalisse griderebbe: «guai! guai!») che vola verso lo schianto.

Rivedere Kairo fa capire lo squasso mentale nipponico e anche il nostro. Il Giappone ha dietro di sé un’epoca che è stata chiamata Decennio perduto, fra il 1991 e il 2000, e s’è poi prolungata in Decenni perduti. Il film di Kurosawa risale a quegli anni (2001) e non è cinema dell’orrore ma – all’ombra dello tsunami – visione iperrealistica. Kairo vuol dire circuito: ma è un cerchio senza alfa e omega. Il fenomeno narrato da Kurosawa è quello di intere generazioni che si barricano in casa fino a divenire ombre davanti ai computer (le statistiche parlano di almeno un milione di drop-out). Il fenomeno si chiama Hikikomori: è un ritrarsi, confinarsi nella solitudine. Nasce da insicurezze esasperate dalla crisi, dal futuro amputato. Sulle pareti delle case, nel film, si stagliano informi ombre color carbone. Gridano «Aiutami!», nel momento in cui i giovani morenti lasciano in eredità quest’effigie di sé.

È la silhouette annerita dell’uomo accanto alla scala che apparve impressa su un muro di Hiroshima nel ’45. L’incubo si stende sull’uomo, spaventandolo incessantemente. Viene da lontano, va lontano. Solo spaventandoci unisce il passato al presente; e ci tiene svegli, forse.

Stoccaggio dell’energia nelle aree residenziali

Secondo un nuovo rapporto di PikeResearch, nei prossimi anni si assisterà a una massiccia penetrazione dei sistemi di stoccaggio di energia anche nelle piccole comunità o nei complessi residenziali grazie principalmente all’espansione della generazione distribuita da fonti rinnovabili e alla diffusione dei veicoli elettrici

Stoccaggio energia, in arrivo boom per i sistemi residenziali
Nei prossimi anni si assisterà a una massiccia penetrazione dei sistemi di stoccaggio di energia anche nelle piccole comunità o nei complessi residenziali grazie principalmente all’espansione della generazione distribuita da fonti rinnovabili e alla diffusione dei veicoli elettrici: è la conclusione di un nuovo rapporto di PikeResearch dal titolo “Community and Residential Energy Storage”, secondo il quale questo particolare segmento del mercato dei dispositivi per l’immagazzinamento energetico attrarrà investimenti per un totale di 4,2 miliardi di dollari nell’arco dei prossimi dieci anni. La presenza dei CRES (community and residential energy storage) – sostiene lo studio – sarà dunque resa necessaria nei prossimi anni dall’affermarsi di un modello di approvvigionamento energetico diverso da quello attuale, in cui l’energia prodotta da una miriade di impianti a fonti rinnovabili distribuiti sul territorio viene consumata sul punto di produzione e, per la parte eccedente, ceduta in rete. Un modello che però va incontro ad alcuni inconvenienti come l’intermittenza delle fonti rinnovabili più diffuse come il sole e il vento (disponibili in grande abbondanza ma con significative variazioni a seconda dei momenti della giornata) e una gestione più complessa dei picchi di domanda. A questi inconvenienti porranno rimedio sistemi di distribuzione dell’energia ottimizzati come le smart grid, basate sull’interazione con gli utenti, e per l’appunto i sistemi di stoccaggio dell’energia. PikeResearch prevede un boom di quelli residenziali o per le piccole comunità, dove raggiungeranno, stima, una capacità di 780 MW entro il 2022, con un valore di mercato annuale di 872 milioni di dollari. Complessivamente gli investimenti nei sistemi CRES totalizzeranno 4,2 miliardi di dollari entro quella data. “I CRES rappresentano una delle applicazioni più nuove e meno comprese dei dispositivi di stoccaggio dell’energia – spiegaAnissa Dehamna, analista di PikeResearch – “A oggi il mercato è ancora nella fase dimostrativa e ci vorranno ancora un paio di anni prima che si crei una nicchia specifica per i sistemi CRES”.La tecnologia principale in questo segmento nei prossimi dieci anni sarà, secondo PikeResaerch,  quella agli ioni di litio, già leader del resto anche nei progetti dimostrativi “utility scale”. Ma cresce l’interesse anche per le batterie di flusso o piombo-acido avanzate, ma bisogna vedere quali saranno le principali applicazioni per queste tecnologie, se “on grid”, come nel caso dei CRES, od “off grid” per fornire energia a villaggi o a sistemi di telecomunicazione in aree remote o ad attività minerarie. (f.n.)

Italia produttore di petrolio?

da aspoitalia.it

Nel mese di Novembre è apparso su The Guardian un articolo di John Hooperdal titolo “L’Italia cerca di aumentare la produzione di greggio del 150% nel corso della riorganizzazione della sua politica energetica”, che affronta l’aspetto petrolifero del piano energetico che il governo italiano sta predisponendo. Scrive Hooper:

La veduta dalla terrazza dietro il municipio di Corleto Perticara è ampia come qualsiasi altra in Toscana, passando per la maestosa valle del fiume Sauro e per una linea di colline alte che conducono il fiume verso il mare. Ma dove un visitatore potrebbe sognare di costruire una seconda casa idilliaca, Rosaria Vicino, il sindaco della città, sta immaginando una la linea di pompe petrolifere che presto punteggeranno le pendici ondulate al di là del Sauro.

In maggio, il governo apartitico di Mario Monti a Roma, ha dato il via libera per lo sviluppo del cosiddetto campo di Tempa Rossa, i cui 200 milioni di barili di petrolio pesante e solforoso si trovano nel raggio del comune del sindaco Rosaria Vicino.

“Il petrolio è fondamentale per il nostro sistema di sviluppo”, ha detto Vicino con fervore. “E’ l’elemento attorno al quale ruotano tutte le nostre speranze.”

Il petrolio onshore e la produzione di gas sono altrettanti fondamentali per l’ambizioso piano del governo italiano che fissa entro il 2020 il taglio 14 miliardi di euro dai 62 pagati ogni anno a livello nazionale per l’import di energia. L’obiettivo si trova in una proposta di piano energetico nazionale che sarebbe il primo ad essere adottato in Italia da più di 20 anni.

[…]

Il governo stima che l’incremento della produzione sia in grado di fornire in Italia il 7% del fabbisogno totale di energia e di creare 25 mila nuovi posti di lavoro. La produzione di greggio in Italia ha raggiunto un picco nel 2005 a 115.000 barili al giorno, e da allora è crollata al di sotto dei 100.000 – non a causa della mancanza di riserve (in Italia i depositi provati onshore sono i più grandi in Europa), ma a causa di un drastico calo nell’esplorazione e sviluppo, che il governo è pronto a invertire.

Successivamente l’autore esprime indirettamente delle preoccupazioni che si limitano però alle possibili negative conseguenze sul paesaggio, ai contrasti tra amministrazioni locali, alla corruzione e alla disonestà di alcuni degli attori.

Nulla dal punto di vista energetico, tanto che in questo caso un lettore poco informato può aver l’impressione che quanto propone il governo rivesta un ruolo decisivo nel futuro energetico nazionale.

Purtroppo non è così, basti considerare che le riserve di greggio in territorio italiano, definite al 31.12.2011 “certe” dal MSE ammontano a 76,3 Mt, cioè a circa 8-10 volte il petrolio che estraiamo ogni anno da qualche tempo. E visto che quest’ultimo rappresenta il 7-8 percento del consumo totali, a meno di un anno di consumo nazionale.

Aggiungendo anche tutte le riserve che il MSE definisce “probabili” calcolate in 110,6 Mt (solo in parte individuabili ed estraibili), si arriva a un quantitativo pari a circa due volte e mezza il consumo medio annuo nazionale.

Questo se si verificasse per tutti i giacimenti la condizione che le riserve risultino tecnicamente ed economicamente estraibili.

Si discute quindi attorno a quantitativi molti limitati che non è possibile immaginare in grado di garantire a lungo una maggiore indipendenza energetica.

Il nostro paese deve necessariamente affrontare più velocemente degli altri e del passato una non facile transizione a un sistema che dipenda sempre meno dai combustibili fossili e possa avvantaggiarsi dell’energia fornita dalle fonti rinnovabili.

È allarme sussidi… ma per le energie fossili!

Discrasie post-elettorali. La corazzata giornalistico-economica nostrana, il Sole24Ore, titola oggi che «La prima fonte di energia sarà il gas o il fotovoltaico. Un rapporto Shell delinea due future alternative» ma è «Allarme sussidi. L’Earth Policy Institute sottolinea che i combustibili fossili godono di aiuti pubblici tre volte superiori alle energie alternative». Poche pagine dopo, un pezzo dal tono assai perplesso annuncia «Rinnovabili, 10 miliardi di incentivi»: ossia, quelli conteggiati dal Gse (in un anno) e investiti per lo diffusione delle fonti energetiche rinnovabili nel nostro Paese. «Allarme sussidi» in che senso, dunque? Qualcosa non torna.

Inoltrandosi nel rapporto «New Lens Scenarios» della multinazionale petrolifera Shell, Stefano Carrer illustra le «due le prospettive principali» contenute nello studio. Secondo Shell, se prevarranno le «politiche governative del delineare il futuro dell’intera società: sarà un mondo con una crescita economica più moderata, dove i trasporti e la stessa organizzazione delle città saranno orientate sul rispetto dell’ambiente, mentre le tecnologie per catturare le emissioni di CO2 verranno ampiamente promosse, assieme all’energia nucleare» Se invece il ruolo principale verrà “affidato” alle «forze di mercato e della società civile rispetto a un dirigismo pubblico: la crescita economica sarà più forte anche se più “volatile” e, paradossalmente, spingerà il fotovoltaico a divenire entro la fine degli anni ’60 la principale fonte primaria di energia. Come? Vanno considerate le resistenze dell’opinione pubblica all’espansione dell’energia nucleare, alla crescita del gas (specie nel settore “shale”) fuori dal Nord America e all’energia eolica (molti non gradiscono l’installazione di grandi turbine a vento)».

Preso atto della posizione di Shell, che sembra non tener in considerazione come la stessa politica debba render conto all’opinione pubblica (e il progressivo abbandono in Europa dell’energia nucleare deriva proprio da questo connubio), la lettura dell’articolo si fa ancor più interessante quando Carrer rilancia l’allarme «dell’Earth Policy Institute, secondo cui – in base a prudenti stime della Global Subsidies Initiative – i governi hanno aumentato nel 2011 del 20% i sussidi pubblici ai combustibili fossili a 623 miliardi di dollari, di cui 100 alla produzione e 523 al consumo (in testa Iran, Arabia Saudita, Russia, India e Cina). Le fonti di energia che provocano i cambiamenti climatici, insomma, sono molto più sussidiate delle energie alternative (88 miliardi)».

Anche in Italia siamo di fronte ad un simile paradosso. Mentre i profeti dell’idrocarburo si stracciano le vesti dinnanzi ai 10 miliardi di euro (10,67, per la precisione) di incentivi alle energie rinnovabili sperperati nel Bel Paese, pochissimi ergono barricate di fronte ai circa 9 miliardi di euro ancora concessi ai combustibili fossili (per un mercato ormai più vicino alla fase di declino che a quella di lancio). Per l’Italia Legambiente ha infatti calcolato che nel 2011 i principali sussidi diretti siano stati oltre 4,52 miliardi di euro (distribuiti agli autotrasportatori, alle centrali da fonti fossili e alle imprese energivore) e 4,59 miliardi di euro quelli indiretti (finanziamenti per nuove strade e autostrade, trivellazioni, etc).

C’è poi da tener di conto dei vantaggi e degli svantaggi dei due diversi incentivi. Per le rinnovabili, l’Aper – Associazione produttori energia rinnovabile sottolinea che «Le stime più prudenti (cfr. Althesys) indicano in almeno 30 miliardi di euro il saldo tra benefici e costi delle politiche già varate (altre stime più ottimistiche arrivano fino a 76 miliardi). Vale a dire che a fronte dei 220 miliardi di euro che gli italiani avranno investito nel periodo 2008-2030, il Paese avrà benefici per quasi 300 miliardi».

In compenso, soltanto per i costi legati all’inquinamento autostradale (ovviamente dominato da motori a scoppio, alimentati con combustibili fossili), secondo l’Agenzia europea dell’ambiente l’Italia paga ogni anno in termini di salute 15,5 miliardi di euro complessivi, di cui 7,2 miliardi a carico dei mezzi pesanti. Come riporta l’Ansa, «L’Aea stima che nel complesso l’inquinamento atmosferico causi 3 milioni di giorni di assenza per malattia e 350.000 morti premature in Europa ogni anno, con relativo impatto economico». Conviene dunque di più incentivare le energie rinnovabili, e cercare di costruire in Italia un’industria manifatturiera che possa garantirne lo sviluppo (un punto sui cui siamo ancora molto carenti) o, ancora, i combustibili fossili? Alla luce di questi pochi numeri, la risposta sembra scontata.

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