È nato il coordinamento Rifiuti Zero

Venerdì 15 marzo si è tenuta la riunione regionale organizzata dal Comitato Beni Comuni Monza e Brianza presso l’Urban Center di Monza cui hanno partecipato cinquantotto persone in rappresentanza di varie realtà associative, comitati e movimenti della Lombardia, che ha sancito all’unanimità la costituzione del Coordinamento Regionale a sostegno della proposta di Legge rifiuti zero.

Durante la riunione sono state espresse le adesioni all’iniziativa che rientra nelle azioni di concretizzazione della Strategia Rifiuti Zero e che rispecchia affinità, obiettivi e attività volte a preservare i beni comuni e a riportare l’attenzione dei cittadini in una mobilitazione per la legalità e la trasparenza.

La serata si è anche caratterizzata per la ricchezza d’interventi succedutesi, attraverso i quali è emersa una forte volontà di costruire in Lombardia una fitta rete di collaborazioni tra i movimenti e comitati che operano in Lombardia al fine di realizzare un progetto globale di sviluppo sostenibile e contestualmente avere la capacità di vertenzialità nei confronti delle istituzioni locali dai comuni, province e regione.

Tale collaborazione e progettualità devono avere le seguenti articolazioni:

 

A) Modifica radicale della legge regionale 26 del 2003;

 

B) Incontro con i gruppi eletti in consiglio regionale per abbattere tutte le barriere che ostacolano l’aumento della raccolta differenziata nella regione e contestualmente chiedere l’elaborazione del piano energetico regionale, e incoraggiare il patto dei sindaci per ottemperare alle direttive CE;

 

C) Intessere una fitta rete di contatti in tutti comuni per indurre le amministrazioni comunali ad aderire all’Associazione dei Comuni Virtuosi, e far approvare negli stessi delibere sulla falsa riga del comune di Oristano;

 

Il Coordinamento nelle prossime settimane organizzerà degli incontri itineranti e workshop formativi allo scopo di informare e sensibilizzare i cittadini, di diffondere la cultura sui beni comuni e la partecipazione, di allargare l’adesione al coordinamento di altre realtà presenti sul territorio.

 

Seguiranno degli incontri per comporre i gruppi di lavoro, la comunicazione e l’organizzazione del coordinamento sul territorio con referenti locali per l’operatività della campagna di raccolte firme appena sarà depositata la proposta di legge.

 

 

In fine sono stati definiti e votati all’unanimità i seguenti referenti: Biagio Catena Cardillo del Comitato Beni Comuni Monza, Patrizia Pappalardo di Zero Waste Italy e Maurizio Bertinelli del Comitato Beni Comuni Monza.

 

Coordinamento Rifiuti Zero Lombardia                                                     Monza 16 marzo 2013

 

Il nuovo documento di Strategia Energetica Nazionale

Riduzione dei costi energetici, pieno raggiungimento e superamento di tutti gli obiettivi europei in materia ambientale, maggiore sicurezza di approvvigionamento e sviluppo industriale del settore energia. Questi sarebbero i quattro obiettivi principali indicati nel nuovo documento di Strategia Energetica Nazionale – SEN (pdf) di 139 pagine che i ministri Corrado Passera e Corrado Clini hanno approvato con un Decreto Interministeriale. Nei giorni scorsi si sono sprecate le critiche da parte di ambientalistiassociazioni e operatori del settore energetico che reputano questo atto illegale, perché emanato da ministri di un Governo in esercizio solo per l’ordinaria amministrazione. Un documento di programmazione sull’energia del paese, sebbene in forma di decreto, che ha una chiara valenza politica e di certo si identifica come un atto di carattere straordinario.

Il comunicato del Ministero dello Sviluppo Economico ci tiene a precisare che sono stati recepiti diversi contributi e, rispetto al documento posto in consultazione ad ottobre, quelli più rilevanti vengono elencati tra i seguenti:

  • Una maggiore esplicitazione delle strategie di lunghissimo periodo (fino al 2050), in coerenza con la Roadmap di decarbonizzazione europea, e delle scelte di fondo per la Ricerca e Sviluppo
  • Una quantificazione dei costi e benefici economici della strategia per il Sistema, in particolare per i settori elettrico e gas
  • Una definizione più precisa delle Infrastrutture Strategiche gas, con particolare riferimento al dimensionamento di nuovi impianti di stoccaggio e dirigassificazione, con garanzia di copertura costi in tariffa, necessari per garantire l’allineamento strutturale dei prezzi gas a quelli UE e a fare fronte alle accresciute esigenze di sicurezza delle forniture (in uno scenario geopolitico sempre più complesso)
  • Una più precisa descrizione delle misure di accompagnamento alla cosiddettagrid parity delle Rinnovabili elettriche (segnatamente del Fotovoltaico), una volta terminato il sistema incentivante attuale
  • Una migliore definizione degli strumenti previsti per accelerare i miglioramenti nel campo dell’efficienza energetica (es. certificati bianchi, PA, standard obbligatori, certificazione)
  • Una più chiara definizione dei possibili miglioramenti della governance del settore.

Ma il senso della SEN non cambia molto rispetto alla versione di ottobre. Leggendo lapresentazione sintetica della nuova SEN (pdf) e il comunicato stampa ministeriale percipiamo un approccio di ‘un colpo al cerchio e una alla botte’. Una strategia che continua a ritenere che la sostenibilità sia solo una questione economica e che pensa solo ad “una graduale integrazione della produzione rinnovabile“.

La potremmo leggere allora come il classico tentativo di controllare l’impetuosa crescita delle fonti di energia pulita in un sistema che punterà, secondo gli estensori del documento, ad essere caratterizzato da uno “sviluppo sostenibile della produzione nazionale di idrocarburi” e a diventare “il principale hub sud-europeo del gas”. Una classica tattica dilatoria nei confronti del cambiamento in atto nel sistema energetico e verso quella vera transizione energetica per la quale si richiedono ora altre mentalità e visioni.

Fukushima, due anni dopo

Sono passati due anni da quando in Giappone, sulla costa Nord Est del paese, si sono abbattute le prove generali della fine del mondo. Erano le 14:46 (ora locale) dell’ 11 marzo 2011 quando la terra ha cominciato a tremare e non ha smesso per sei lunghissimi minuti. A questo spaventoso terremoto di magnitudo 9 è seguito uno tsunami con onde alte anche 15 metri che hanno danneggiato gravemente la centrale nucleare di Fukushima Daiichi causando quello che viene oggi ricordato come il secondo disastro più grave al mondo, dopo quello di Chernobyl del 1986.

Due anni dopo il disastro nucleare sembra ridimensionato, per lo meno lo sono le sue conseguenze dirette sulla salute umana: secondo un rapporto dell’ Organizzazione mondiale per la sanità (Oms) il rischio di sviluppare un cancro è aumentato in maniera molto lieve, e solo nella popolazione delle aree più vicine al disastro. A 24 mesi però i lavori di decontaminazione e ricostruzione sono ancora quasi a zero e gran parte della popolazione evacuata non è mai tornata, soprattutto quella più giovane. E intanto il governo vuole riaprire le centrali nucleari.

Rischi per la salute
Alla fine di febbraio l’Oms ha pubblicato il rapporto in cui stima l’aumento del rischio di cancro come conseguenza diretta dell’incidente nucleare alla centrale di Fukushima Daiichi. L’analisi conferma le previsioni ottimiste che già circolavano un anno fa. Secondo i modelli messi a punto dagli esperti dell’Organizzazione mondiale per sanità, il rischio di sviluppare leucemie più avanti negli anni, è aumentato del 7 per cento per quelli che al momento dell’incidente erano bambini e del 6 per cento per le bambine delle aree entro le miglia dall’impianto. Il rischio di tumori solidi è aumentato invece del 4 per cento. Molto più elevato è invece l’incremento per il cancro alla tiroide, le donne che oggi sono bambine vedranno aumentato il loro rischio di sviluppare un tumore di questo tipo del 70 per cento. Questi numeri apparentemente anche molto alti, spiega l’Oms, indicano l’aumento del rischio e non il rischio assoluto: il rischio base di sviluppare un cancro alla tiroide durante il corso della vita per una donna è di circa lo 0,75 per cento, ed è questo numero che aumenta del 70 per cento, arrivando all’1,25 per cento.

“ Ci sono piccoli incrementi proporzionali, il rischio aggiunto è molto piccolo e verrà nascosto da quello dovuto allo stile di vite e ad altre situazioni. Ha più peso non cominciare a fumare piuttosto che essere stato a Fukushima”, ha spiegato Richard Wakeford dell’ Università di Manchester, coautore del rapporto. Lo studio ha anche preso in considerazione la situazione degli operai dell’impianto che hanno ricevuto la dose più alta di radiazioni durante il meltdown dei reattori. Circa un terzo dei lavoratori vedrà un incremento, ma anche in questo caso il rischio assoluto rimarrà basso.

Secondo il Time, il peggio è stato evitato sia grazie all’immediata evacuazione della città vicine alla centrale sia al bando al cibo proveniente da queste zone. Dopo Chernobyl circa 6000 bambini esposti alle radiazioni hanno sviluppato un cancro alla tiroide perché molti di loro hanno bevuto latte irradiato che il governo sovietico non ha pensato di proibire. Gli autori del rapporto tuttavia spiegano che le loro valutazioni sono basati su una limitata conoscenza scientifica: la maggior parte dei dati relativi agli effetti delle radiazioni disponibili riguarda l’esposizione acuta, come quella che ha seguito le esplosioni di Hiroshima Nagasaki e non un’esposizione cronica a bassi livelli di radiazioni come quella che invece subiranno le popolazioni che abitano vicino alla centrale giapponese.

Poco soddisfatta delle conclusioni dell’Oms è Greenpeace, che ha rilasciato anch’essa il suo rapportopoche settimane fa “ Il rapporto dell’Oms riduce vergognosamente gli effetti dell’immediato rilascio di radiazioni dal disastro di Fukushima sulle persone che si trovavano entro 20 chilometri dalla centrale e che non sono stati in grado di lasciare tempestivamente l’area”, commenta in un comunicato stampa. “Il rapporto è chiaramente un documento politico mirato a proteggere l’industria nucleare e non un paper scientifico redatto con tenendo a mente la salute umana”.

Sempre secondo il Time invece, l’Oms starebbe addirittura sovrastimando i rischi. “ Fukushima, nonostante tutto, non è stata nulla in confronto a Chernobyl. La Tepco ha riportato che gli impianti hanno rilasciato 900mila terabequerel di radiazioni nell’aria nel momento di massimo picco, mentre furono 5,2 milioni di tb rilasciati durante l’incidente di Chernobyl che ha anche coinvolto un’area di estensione molto maggiore”.

Ritorno al nucleare
Anche secondo il governo giapponese il rapporto dell’Oms sovrastimerebbe i rischi e potrebbe inutilmente alimentare le già forti paure dei cittadini proprio quando il Primo Ministro, Shinzo Abe, ha annunciato la sua intenzione di riaprire e riattivare gli impianti nucleari che erano stati fermati all’indomani del disastro. Come racconta il New York Times infatti, in un discorso tenuto davanti al parlamento a fine febbraio, Abe ha promesso di riaprire le centrali che soddisferanno le nuove stringenti linee guida messe a punto tra la fine del 2012 e gennaio di quest’anno e che saranno adottate da una nuova agenzia regolatrice indipendente, la Nuclear Regulation Autority, entro luglio.

Le nuove misure di sicurezza includono muri di protezione contro gli tsunami più alti (a Fukushima erano di 5 metri e mezzo, facilmente superati dalle onde) ,un aumento delle fonti di energia di emergenza per i sistemi di raffreddamento e la costruzione di centri di comando a prova diterremoto. A oggi nessuno dei 16 impianti nucleari non danneggiati soddisfa questi nuovi standard che, ha dichiarato Abe, dovranno essere adottati “senza compromessi”, ma sempre secondo il Nytimes, molti sono convinti che i sostenitori dell’industria nucleare tra le fila del governo troveranno il modo per aggirarle.

Lenta ricostruzione
Mentre si pensa già a riaprire gli impianti, poco è stato fatto per decontaminare l’area intorno alle centrali danneggiate. Quando fu annunciato, quattro mesi dopo il disastro, il piano del governo per la pulizia della zona, aveva suscitato grandi speranze, racconta ancora il New York Times: sosteneva che il Giappone avrebbe messo in campo le tecnologie più avanzate a disposizione. Già nel Novembre 2011l’Agenzia nazionale per l’energia atomica aveva ne aveva già individuato 25 tecnologie efficaci per rimuovere il cesio radioattivo dall’ambiente e le aziende in grado di metterle in atto.

Molte di queste imprese tuttavia non sono mai state interpellate: le amministrazioni nazionali e locali hanno preferito, spiega il quotidiano statunitense, affidare i lavori alla Kajima Corporation, la più grande impresa di costruzioni giapponese, la stessa che ha realizzato gli edifici dei sei reattori della centrale di Fukushima. Finora la Kajima ha inviato sul posto 1500 uomini che ogni giorno annaffiano le strade e il suolo contaminato con tonnellate d’ acqua e che si dedicano a raccogliere fogliame e suolo contaminato in grandi sacchi della spazzatura che poi rimangono ai margini delle strade o sulle spiagge (questo materiale potrebbe raggiungere i 29 milioni di metri cubi e per il suo smaltimento non vi è ancora nessun tipo di piano). Queste procedure, secondo gli esperti, invece che eliminare i contaminanti potrebbero facilitarne l’ingresso nel suolo, nell’atmosfera o nel ciclo dell’acqua. “ Questa non è decontaminazione, è spazzar via sporcizia e fogliame, ed è irresponsabile”, ha dichiarato Tomoya Yamauchi, un esperto in misura delle radiazioni all’ Università di Kobe che ha collaborato alle valutazioni di efficacia dei diversi sistemi di decontaminazione.

Tutto questo sta provocando una perdita di fiducia nella popolazione che porta le persone che sono state costrette ad allontanarsi a non tornare più. Secondo il quotidiano giapponese Asahi Shimbun sono oltre 72 mile le persone che mancano all’appello nelle 42 municipalità costiere delle tre prefetture (Fukushima, Miyagi e Iwate) colpite più duramente dal terremoto e dallo tsunami. Il 65 per cento degli assenti ha meno di 40 anni: molte giovani famiglie sono emigrate altrove per paura delle radiazioni, per la mancanza di lavoro, di servizi e infrastrutture. L’esodo dei giovani è stato massiccio soprattutto nella prefettura di Fukushima, dove circa 25 mila persone sotto i 40 anni hanno lasciato la zona, portando a una diminuzione della popolazione totale dell’82 per cento.

Questi 72 mila assenti sono quelli che hanno ufficialmente cambiato la loro residenza, ma a mancare all’appello sono molto di più. Dopo il disastro, infatti, sono state evacuate quasi 160mila persone e non tutti quelli che hanno definitivamente lasciato la zone lo hanno dichiarato per non perdere i contributi statali e i risarcimenti. Per esempio Okuma, una delle città più vicine al reattore numero 1 aveva una popolazione di 11.500 persone prima dell’incidente; oggi, sebbene tutti i residenti siano stati evacuati, sulla carta la città ha perso solo 500 abitanti. § 

Fukushima 50
Sono stati soprannominati i Fukushima 50, anche se sono stati almeno una settantina. Sono gli operai della Tepco (l’azienda che gestisce la centrale di Fukushima Daiichi) che sono rimasti al loro posto nei giorni immediatamente conseguenti allo tsunami a lavorare per evitare il meltdown dei reattori e cercare di mettere in sicurezza gli impianti. La stampa internazionale li ha etichettati come kamikaze,suicidieroi, i giapponesi li disprezzano, e loro si sentono responsabili del disastro nucleare e finora erano rimasti in silenzio. Solo dopo il ringraziamento ufficiale da parte del governo giapponese, lo scorso ottobre, qualcuno ha cominciato a raccontare la sua storia, caratterizzata sempre dal senso di colpa.

Come quello che colpisce Atsufumi Yoshizawa, ingegnere della Tepco, uno degli uomini rimasti nella centrale. Sapendo moglie e figlia al sicuro a Yokohama, aveva in testa solo due cose, spiega all’Independent: “ La sicurezza dei miei lavoratori e la completa disattivazione della centrale”. E con lui altre decine di operai condividevano queste priorità. “ Può sembrare strano da fuori, ma è naturale per noi mettere l’azienda al primo posto, non abbiamo mai pensato di abbandonare i l nostro posto”.

Nelle settimane successive, racconta, lui e questi uomini hanno lavorato in condizioni disperate, esponendosi alle radiazioni, ai rischi di crolli e gestendo la situazione fino a quando i vigili del fuoconon sono riusciti a raffreddare nuovamente i reattori. Molti di questi operai tuttavia continuano a rimanere in silenzio e possibilmente nell’anonimato: non c’è gratitudine da parte dei giapponesi per loro. Molti sono ancora sul libro paga di una delle aziende più odiate del Paese, con la quale sono identificati e con la quale si identificano, e per questo motivo sono vittime di ritorsioni e discriminazioni: diversi per esempio, racconta Bbc News, si sono visti rifiutare appartamenti in affitto.

2 anni dopo FUKUSHIMA

In occasione del secondo anniversario della tragedia di Fukushima, riprendiamo un vecchio articolo di Barbara Spinelli “Il dovere della paura”.

CI SONO momenti così, nella storia degli uomini: dove si reagisce con l’emozione oltre che con la razionalità, perché l’emozione sveglia, incita a stare all’erta. Già in Eschilo, la passione e il patire sono fonti d’apprendimento. È il caso del Giappone da quando, venerdì, lo tsunami s’è aggiunto al terremoto e non solo ha spazzato case, vite, villaggi, ma ha causato l’esplosione di quattro reattori nucleari a Fukushima.All’orrore spuntato dal sottosuolo e dal mare s’aggiunge ora una pioggia radioattiva che spinge chi abita presso le centrali a fuggire o barricarsi in casa. Ci sono momenti in cui si apre una fessura nel mondo, e non solo in quello fisico ma in quello mentale, sicché occorre ricorrere ai più diversi espedienti: all’intelligenza razionale, alla discussione pubblica, ma anche alla paura, questa passione giudicata troppo triste per servire da rimedio.

Non a caso, quando sollecita la responsabilità per il futuro della terra, il filosofo Hans Jonas parla di paura euristica: non la paura che paralizza l’azione o è usata dai dittatori, ma quella che cerca di capire, di scoprire (questo significa euristica ). Che è generatrice di curiosità, prevede il male con apprensione, fa domande, sprona a rettificare quanto pensato e fatto sinora. Jonas evoca addirittura il dovere della paura: «Diventa necessario il “fiuto” di un’euristica della paura che non si limiti a scoprire e raffigurare il nuovo oggetto, ma renda noto il particolare interesse etico che ne risulta»( Il principio di responsabilità, Einaudi ’90).

Alla luce del principio di responsabilità appaiono completamente inani i governi – come l’italiano, il francese – che screditano questa paura, e in tal modo negano la gravità del momento e l’urgenza di correggere i piani nucleari.

Obama e Angela Merkel dicono ben altro: «Non si può fare come se nulla fosse». Non così il ministro dell’energia Eric Besson, o il ministro per lo sviluppo economico Paolo Romani.

Per Besson nulla cambia, neanche le centrali invecchiate come quelle giapponesi: nella conferenza stampa di sabato ha evitato il termine «catastrofe», preferendo il meno allarmante «incidente grave». Stesso atteggiamento in Romani, che ha invitato l’altro ieri a «non farsi prendere dalla paura», senza sapere di che parlava. Non sono i soli: anche i governanti giapponesi hanno a lungo minimizzato, prendendo per buone le assicurazioni dei gestori delle centrali (Tepco, Tokyo Electric Power Corporation). La stessa Tepco che più volte è stata indagata (specie nel 2002-3) per il non rispetto delle norme anti-sismiche.

Apocalisse è vocabolo che s’espande come un virus, dall’inizio del cataclisma. Ma apocalisse è altra cosa, ha legami con la religione: è rivelazione di un piano divino, è l’omega che si ricongiunge all’alfa, è il cerchio terrestre che chiudendosi si schiude all’oltrevita. I colpiti sono innocenti, ma per qualche motivo Dio vuole che la storia terrestre s’esaurisca così, stroncando il libero arbitrio d’ognuno. Per questo conviene dismettere questa parola molto scabrosa, che sigilla gli occhi a quel che accade qui, ora; in terra, in mare. Eventi simili non sono la fine del mondo, pur preludendo forse a essa. Sono piuttosto la fine di un mondo: di certezze, di assiomi cocciutamente coltivati.

In Giappone, per vie misteriose, suscitano ricordi funesti, che hanno radici profondissime nella sua cultura recente. Il collasso delle centrali nucleari rimanda al trauma mai sopito di Hiroshima e Nagasaki, quando Washington diede a Tokyo questa lezione di inaudita violenza. La terra che ti squassa, la solitudine dell’uomo in tanto scompiglio, la natura maligna, la morte nucleare che incombe: nelle teste nipponiche è incubo magari dissimulato ma è sempre lì, in agguato. Lo dicono i volti che ci fissano in queste ore: impietriti, più che impassibili. Lo vediamo nei corpi che d’un tratto s’immobilizzano, come morissero in piedi.

Non è vero che i giapponesi hanno paure più calme, controllate delle nostre. Il loro urlo non è quello di Munch ma è pur sempre urlo. Sappiamo dalla Bibbia quanto possa esser afono l’agnello, e il grido del Giappone è colmo di interrogativi atterriti: perché le autorità hanno permesso che centrali vecchie quarant’anni sopravvivessero? Perché non hanno previsto che anche dal mare poteva venire il mostro? Perché sono così evasive? Perché proprio Tokyo, che ha già vissuto la sventurae se la porta dentro come assillo, s’è fidata della tecnologia, nonè corsa in tempo ai ripari? Ci sono grandi disastri che hanno quest’effetto: di sconvolgere non solo le vite ma vasti castelli di teorie filosofiche ritenute sicure. L’Europa ha conosciuto ore analoghe: accadde nel terremoto di Lisbona, l’1 novembre 1755, e tutte le teorie si scardinarono. Anche quella fu fenditura d’ un mondo: fondato sull’euforia tecnologica, sull’ottimismo, religioso o no.

La modernità iniziava, e già inciampava. Ventidue anni prima, Alexander Pope aveva scritto un poema intitolatoSaggio sull’Uomo. Il verso ricorrente era: «What ever is, is right»: tutto quel che esiste è bene. Ma ecco che si apre la crepa di Lisbona, sulla liscia pelle del pensare positivo. Voltaire, Kleist, Kant sono turbati e scoprono che non è più possibile consolarsi con Pope e le teodicee di Leibniz. Non è più possibile dire a se stessi, come Pangloss nelCandide di Voltaire: avanziamo «nel migliore dei mondi possibili».

Cadde anche l’illusione, cara alle chiese, sul dolore salvifico: non esiste una felix culpa, ma un male che ti prende di sorpresa, ingiusto. In presenza del disastro o del crimine sono più opportuni la sapienza di Kleist, le ricerche di Kant sulle origini dei terremoti (Kant è il primo a scoprire la «rabbia del mare»), lo sguardo di Voltaire: «Elementi, animali, umani, tutto è in guerra. Occorre confessarlo: il male è sulla terra». Ansioso di conforto, Rousseau scrisse incongruenze, in una lettera a Voltaire del 1756: «Non sempre una morte prematura è un male reale (…). Di tanti uomini schiacciati sotto le rovine di Lisbona, parecchi senza dubbio hanno evitato disgrazie più grandi, e (…) non è detto che uno solo di quegli sventurati abbia sofferto più che se, seguendo il corso naturale delle cose, avesse dovuto attendere in lunghe angosce la morte che lo ha colto invece di sorpresa».

Ma anch’egli pone domande che solo l’emozione accende: non è stata edificata male Lisbona, con le sue case alte 6-7 piani? Non è l’uomo il colpevole, più della natura? Candide soffre il terremoto e conclude: «Bisogna coltivare (meglio) il proprio giardino», dunque la terra, perché questo tocca all’uomo. All’uomo descritto da Kant dopo il 1755: «legno storto», «mai più grande dell’uomo». Il Giappone non ha alle spalle i settecenteschi ottimismi europei. Dopo Hiroshima si è risollevato con non poche rimozioni, ma con traumi indelebili. Cinema e letteratura narrano questi traumi, e una paura niente affatto calma. Su queste ramificazioni del pessimismo s’è rovesciato lo tsunami, e Jonas aiuta più di Voltaire. I giapponesi sapevano già che «il male è sulla terra», e quel che può soccorrerli è la paura che scoperchia, che scopre. La stessa paura che affiora da decenni, sotto forma di fantasmi, nel suo cinema, nella sua letteratura. In questi giorni guardi la tv, e sembra di vedere la città su cui s’abbatte l’indicibile cataclisma raccontato nel film Kairo, di Kiyoshi Kurosawa: strade e autobus vuoti, fughe verso il nulla, e in cielo, a distanza ravvicinata, un immenso aereoavvoltoio (nell’Apocalisse griderebbe: «guai! guai!») che vola verso lo schianto.

Rivedere Kairo fa capire lo squasso mentale nipponico e anche il nostro. Il Giappone ha dietro di sé un’epoca che è stata chiamata Decennio perduto, fra il 1991 e il 2000, e s’è poi prolungata in Decenni perduti. Il film di Kurosawa risale a quegli anni (2001) e non è cinema dell’orrore ma – all’ombra dello tsunami – visione iperrealistica. Kairo vuol dire circuito: ma è un cerchio senza alfa e omega. Il fenomeno narrato da Kurosawa è quello di intere generazioni che si barricano in casa fino a divenire ombre davanti ai computer (le statistiche parlano di almeno un milione di drop-out). Il fenomeno si chiama Hikikomori: è un ritrarsi, confinarsi nella solitudine. Nasce da insicurezze esasperate dalla crisi, dal futuro amputato. Sulle pareti delle case, nel film, si stagliano informi ombre color carbone. Gridano «Aiutami!», nel momento in cui i giovani morenti lasciano in eredità quest’effigie di sé.

È la silhouette annerita dell’uomo accanto alla scala che apparve impressa su un muro di Hiroshima nel ’45. L’incubo si stende sull’uomo, spaventandolo incessantemente. Viene da lontano, va lontano. Solo spaventandoci unisce il passato al presente; e ci tiene svegli, forse.

Stoccaggio dell’energia nelle aree residenziali

Secondo un nuovo rapporto di PikeResearch, nei prossimi anni si assisterà a una massiccia penetrazione dei sistemi di stoccaggio di energia anche nelle piccole comunità o nei complessi residenziali grazie principalmente all’espansione della generazione distribuita da fonti rinnovabili e alla diffusione dei veicoli elettrici

Stoccaggio energia, in arrivo boom per i sistemi residenziali
Nei prossimi anni si assisterà a una massiccia penetrazione dei sistemi di stoccaggio di energia anche nelle piccole comunità o nei complessi residenziali grazie principalmente all’espansione della generazione distribuita da fonti rinnovabili e alla diffusione dei veicoli elettrici: è la conclusione di un nuovo rapporto di PikeResearch dal titolo “Community and Residential Energy Storage”, secondo il quale questo particolare segmento del mercato dei dispositivi per l’immagazzinamento energetico attrarrà investimenti per un totale di 4,2 miliardi di dollari nell’arco dei prossimi dieci anni. La presenza dei CRES (community and residential energy storage) – sostiene lo studio – sarà dunque resa necessaria nei prossimi anni dall’affermarsi di un modello di approvvigionamento energetico diverso da quello attuale, in cui l’energia prodotta da una miriade di impianti a fonti rinnovabili distribuiti sul territorio viene consumata sul punto di produzione e, per la parte eccedente, ceduta in rete. Un modello che però va incontro ad alcuni inconvenienti come l’intermittenza delle fonti rinnovabili più diffuse come il sole e il vento (disponibili in grande abbondanza ma con significative variazioni a seconda dei momenti della giornata) e una gestione più complessa dei picchi di domanda. A questi inconvenienti porranno rimedio sistemi di distribuzione dell’energia ottimizzati come le smart grid, basate sull’interazione con gli utenti, e per l’appunto i sistemi di stoccaggio dell’energia. PikeResearch prevede un boom di quelli residenziali o per le piccole comunità, dove raggiungeranno, stima, una capacità di 780 MW entro il 2022, con un valore di mercato annuale di 872 milioni di dollari. Complessivamente gli investimenti nei sistemi CRES totalizzeranno 4,2 miliardi di dollari entro quella data. “I CRES rappresentano una delle applicazioni più nuove e meno comprese dei dispositivi di stoccaggio dell’energia – spiegaAnissa Dehamna, analista di PikeResearch – “A oggi il mercato è ancora nella fase dimostrativa e ci vorranno ancora un paio di anni prima che si crei una nicchia specifica per i sistemi CRES”.La tecnologia principale in questo segmento nei prossimi dieci anni sarà, secondo PikeResaerch,  quella agli ioni di litio, già leader del resto anche nei progetti dimostrativi “utility scale”. Ma cresce l’interesse anche per le batterie di flusso o piombo-acido avanzate, ma bisogna vedere quali saranno le principali applicazioni per queste tecnologie, se “on grid”, come nel caso dei CRES, od “off grid” per fornire energia a villaggi o a sistemi di telecomunicazione in aree remote o ad attività minerarie. (f.n.)