La sostenibilità è il nuovo paradigma

di Guido Viale – Il Manifesto 27 marzo 2013

L’esito delle elezioni ha creato una irreversibile instabilità del sistema politico italiano, ma sta anche facendo prendere coscienza a molti che siamo ormai alla vigilia di un “cambio di paradigma”. Il sistema politico che ha retto le sorti del Paese negli ultimi vent’anni, ma soprattutto l’assetto economico che lo ha forgiato e foraggiato, non reggono più. Il successo di Grillo non ne è che un segnale. Questo assetto, espressione e referente del cosiddetto “pensiero unico”, è il combinato disposto di vari fattori.

Globalizzazione, delocalizzazione delle produzioni, precarizzazione del lavoro, diseguaglianze crescenti, finanziarizzazione del comando capitalistico, debito pubblico e privato come strumento di imbrigliamento della società, della politica e del lavoro, guerre, crisi e insicurezza come condizione umana permanente. È il paradigma che si è andato affermando nell’ultimo quarto del secolo scorso a spese di quello che era stato in vigore prima, nei cosiddetti “trent’anni gloriosi” (1945-75) senza che per molto tempo quel passaggio venisse avvertito in tutta la sua portata. Perché fino a quarant’anni fa i meccanismi portanti dell’accumulazione del capitale erano stati il mito dello sviluppo economico (sia nei paesi già “sviluppati” che in quelli “in via di sviluppo”) e la crescita di salari, consumi e welfare: una sintesi di fordismo e politiche keynesiane governata con la continua espansione della spesa pubblica e l’intervento dello Stato nell’economia. Anche quel paradigma aveva comunque concluso il suo corso perché non reggeva più: a metterlo alle strette erano state le aspettative di uguaglianza, di autonomia, di democrazia, di libertà delle nuove generazioni (non a caso si era parlato allora addirittura dei “giovani come classe”): i movimenti studenteschi del ’68, la rivolta antimilitarista contro la guerra in Vietnam, la discesa in campo, in molti paesi, di una classe operaia giovane, spesso immigrata, ancora in gran parte concentrata in grandi stabilimenti industriali; e poi, al loro seguito, una pletora di “categorie” sociali – dai ricercatori ai giornalisti e agli insegnanti, dai poliziotti ai magistrati, dai disoccupati “organizzati” ai baraccati – che aveva messo in moto, senza portarla a termine, quella «lunga marcia attraverso le istituzioni» preconizzata da Rudi Dutschke.

Adesso un nuovo cambio di paradigma, e ben più radicale e traumatico, è di nuovo all’ordine del giorno; non è ancora il contenuto esplicito di un conflitto aperto, ma cova sotto traccia da parecchi anni. C’è chi sostiene che la soluzione alla crisi in corso sia il ritorno al paradigma di un tempo: più Stato e meno mercato, più spesa pubblica per rilanciare redditi e consumi, più Grandi Opere e incentivi alle imprese per creare occupazione. Ma bastano ricette del genere per far fronte alla crisi?

No. Le condizioni che presiedevano al modello dei “trenta gloriosi” non ci sono più. Il mondo si è “globalizzato”: lo hanno reso tale non solo la “libera circolazione” dei capitali (che certamente va bloccata) e l’enorme viavai di merci generato da una divisione del lavoro estesa su scala planetaria (che va drasticamente ridotto). Ma anche internet – una grande risorsa per tutti – la diffusione dell’istruzione, e l’accesso all’informazione, in tutti i paesi e i giganteschi flussi migratori che attraversano il mondo intero, che sono invece fenomeni irreversibili. Tuttavia l’orizzonte esistenziale della nostra epoca è ormai occupato – la si voglia vedere o no – dalla crisi ambientale che incombe tanto su tutto il pianeta quanto, in forme specifiche e differenti, su ogni sua singola porzione. Crescita e sviluppo – pur con tutte le qualificazioni del caso – sono ormai ritornelli ricorrenti ma privi di senso perché la crisi ambientale sbarra la strada a ogni espansione economica che non sia anche e soprattutto devastazione.

Bisogna allora rivedere alle radici gli assetti che ci hanno portato sull’orlo della catastrofe. La finanziarizzazione, da tutti individuata come causa principale della crisi (anche se i più affidano ad essa anche la ricerca delle soluzioni per uscirne) non è che il compimento parossistico di un processo iniziato oltre due secoli fa con quella che Karl Polanyi aveva chiamato «la grande trasformazione»: la riduzione a merci di tre cose che merci non possono essere, pena la distruzione della vita associata (e, oggi possiamo dirlo, anche del nostro rapporto con Madre Terra). Quelle tre “cose” che continuano a rivoltarsi contro la loro riduzione a merci (Polanyi le chiamava «merci fittizie») sono il lavoro, la terra e il denaro. La lotta dei lavoratori contro la propria mercificazione non ha bisogno di illustrazioni, perché è la storia stessa del movimento operaio nelle sue più diverse espressioni. L’appropriazione delle terre (enclosure, ai tempi di Elisabetta I e landgrabbing oggi) è stata ed è la base di quell’«accumulazione primitiva» che per il capitale non è un processo iniziale, ma permanente. Però oggi è tutta la Terra, intesa come ambiente (aria, acqua, suolo ed energia), a essere oggetto di compravendita sotto forma di green-economy: un valido motivo per contrastarla nei suoi presupposti, perché è l’esatto opposto di una vera conversione ecologica. Quanto al denaro, delle sue tre funzioni fondamentali – misura del valore, mezzo di scambio e oggetto di accumulazione – la finanziarizzazione non è che il definitivo sopravvento della terza funzione sulle altre due: il prezzo delle merci è ormai determinato dalle speculazioni su di esse più che dal valore o dal contributo degli input produttivi e gli scambi – il nostro accesso ai beni e ai servizi in commercio – sono sempre più mediati da qualche forma di debito, che è lo strumento fondamentale della finanziarizzazione. La crisi in corso non è altro che questo. Perciò, anche se non abbiamo un modello preciso a cui ispirarci, sappiamo che l’uscita dalla crisi dovrà necessariamente incorporare forme nuove di controllo sociale sul lavoro, sui beni comuni e sul credito (l’attività delle banche; perché denaro e credito sono in gran parte la stessa cosa). Non sarà una passeggiata, ma un conflitto lungo e aspro, che solo una profonda consapevolezza che «ritirarsi è peggio» potrà alimentare. Sapendo però che il nuovo paradigma dovrà convivere ancora a lungo con forme, ancorché depotenziate, di economia del debito; così come la democrazia partecipativa non potrà – né dovrà – fare a meno di quella rappresentativa, e di quel sistema politico degradato che la sorregge ormai in tutto il mondo.

Il nuovo paradigma che può e deve prendere il posto di quello fallimentare imposto dal pensiero unico liberista è la sostenibilità ambientale. La si chiami decrescita, conversione ecologica, giustizia sociale e ambientale o economia dei beni comuni (senza pretendere di annullare le differenze tra questi approcci) è l’unica soluzione che può garantire equità nella distribuzione delle risorse, salvaguardia degli equilibri ecologici e recupero del know-how, del patrimonio impiantistico e dell’occupazione che il sistema economico attuale sta mandando in malora: una fabbrica dopo l’altra, un paese dopo l’altro.

La transizione a questo nuovo paradigma non può essere governata dall’alto o da un “centro” – come è il caso, invece, nella maggior parte delle politiche neokeynesiane – perché si fonda su diffusione, ridimensionamento, differenziazione e interconnessione orizzontale sia degli impianti produttivi che degli interventi: si pensi alla vera vocazione delle fonti rinnovabili (per essere efficienti devono essere piccole, differenziate e distribuite e non concentrate come si fa ancora troppo spesso), all’efficienza energetica, all’agricoltura multifunzionale e a km0, alla gestione dei rifiuti, alla mobilità flessibile, alla salvaguardia degli assetti idrogeologici, ecc. Quel nuovo paradigma è intrinsecamente democratico e indissolubilmente legato a uno sviluppo della partecipazione, perché non può affermarsi senza il concorso dei saperi diffusi presenti sul territorio e l’iniziativa dei lavoratori e delle comunità interessate; il che impone agli asset sottoposti alla transizione il connotato di “beni comuni” .

L’altro requisito irrinunciabile del nuovo paradigma è la ri-territorializzazione (o ri-localizzazione) di molte attività produttive. Gli effetti nefasti della globalizzazione non si combattono con il protezionismo (fermare le merci ai confini preclude la possibilità di esportarne altre: quelle necessarie a pagare ciò che un singolo Paese o anche un singolo continente non potrà mai produrre); e meno che mai con il ritorno alle valute nazionali. Non è l’euro – che è “solo” una moneta – la causa degli squilibri crescenti che investono l’Europa; bensì il modo in cui l’euro è governato: cioè i limiti, che le altre valute mondiali non conoscono, imposti alla sua gestione per trasferire meglio all’alta finanza il comando sulle politiche economiche nazionali e per portare avanti l’attacco a occupazione, salari e welfare. La ri-territorializzazione si realizza invece promuovendo controllo sociale sui processi produttivi; e innanzitutto sui servizi pubblici locali (energia, ristorazione pubblica, gestione dei rifiuti, mobilità, servizi idrici, ecc.) e combattendone la privatizzazione. Convertiti in “beni comuni” gestiti in forma partecipata, i servizi pubblici locali possono diventare il punto di raccordo tra la promozione di una domanda finale ecologicamente sostenibile e l’offerta di impianti, materiali, attrezzature e know-how necessari per soddisfarla. Per esempio, raccordo tra diffusione delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica e imprese riconvertite alla produzione degli impianti e dei materiali corrispondenti. O tra approvvigionamento di cibi sani e a km0 per le mense pubbliche e per tutti coloro che lo desiderino e un’agricoltura ecologica di prossimità; e così per la mobilità, l’edilizia, la gestione dei rifiuti, ecc. Certo garantire l’incontro tra domanda e offerta richiede accordi di programma di cui possono farsi carico solo i governi locali che assumono su di sé la responsabilità della transizione. Accordi che certo limitano la concorrenza – ma non il funzionamento dei mercati – nelle forme propugnate dal pensiero unico e dall’establishment. Ma sono accordi fattibili, persino compatibili, in nome della salvaguardia dell’ambiente, con la normativa dell’Ue; e che in alcuni casi vengono già praticati. E’ la strada che occorre percorrere.

E’ uscito il nuovo report Comuni Rinnovabili 2013

In 7.970 Comuni italiani si trova almeno un im­pianto alimentato a fonte rinnovabile, cioè pari al 98% di tutti i Comuni italiani. Erano 3.190 nel 2008. Oggi in Italia sono in funzione oltre 600mila impianti da fonti rinnovabili di grande e piccola taglia, termici ed elettrici compongono un sistema di generazione sempre più distribuita che nel 2012 ha garantito il28,2% dei consumi elettrici e il 13% di quelli com­plessivi del nostro Paese.

I dati sono riportati nelle 122 pagine del nuovo rapporto Comuni Rinnovabili 2013(pdf) di Legambiente, realizzato con il contributo di GSE e Sorgenia e presentato oggi a Roma nella sede del GSE.

I numeri, per quanto ne dicano gli oppositori delle rinnovabili, sono importanti, in crescita e rilevanti anche per i tempi di incremento che si sono registrati: dal 2000 ad oggi 47,4 TWh da fonti rinnovabili si sono aggiunti al contributo dei “vecchi” impianti idroelettrici e geotermici: dal solare fotovoltaico a quello termico, dall’idroelettrico alla geotermia ad alta e bassa entalpia, agli impianti a biomasse e biogas. Importante anche la crescita della nuova potenza di rinnovabili elettriche installata nel 2012: quasi 7 GW (3.662 MW di fotovoltaico, 1.791 MW di eolico, 32 MW di mini idro, 1.400 MW di impianti a biomassa, 28 MW di geotermia).

Ma ancora più interessante è l’incremento della produzione elettrica da rinnovabili che nel 2012 è stata pari a 94,8 TWh malgrado il contributo dell’idroelettrico sia sceso. Nel 2012, come detto, si è raggiunto il 28,2% dei consumi elettrici complessivi italiani (Produzione lorda da fonti rinnovabili rispetto al Consumo interno lordo (CIL) = Produzione lorda + saldo estero – produzione da pompaggi, ndr). Questa quota era al 24,5% nel 2011. Sul totale dei consumi energetici finali la quota è invece del 13% (obiettivo per l’Italia lal 2020 è il 17%) dei consumi energetici finali. Era del 5,3% nel 2005.

Come stia cambiando il parco elettrico italiano lo dimostra questo grafico che confronta la produzione elettrica per fonte nel 2000 e quella del 2011.

Come ha spiegato Legambiente nel suo report la crescita della produzione rinnovabile ha permesso di sostituire quella da impianti termoelettrici, calata di 61 TWh tra il 2007 e il 2012, anche a causa della crisi. Sono diminuite le importazioni di petrolio e di gas da usare nelle centrali e di conseguenza anche le emissioni di CO2. Va anche considerato che prima dei decreti Passera del luglio 2012 il numero degli occupati nel settore delle rinnovabili era stimato in 120mila unità.

ALCUNI NUMERI DEL RAPPORTO:

Sono 27 i Comuni 100% rinnova­bili, quelli che rappresentano oggi il miglior esempio di innovazione energetica e ambientale (pag.34 del rapporto). In queste realtà, un mix di impianti diversi da rinnovabili e impianti a biomasse allacciati a reti di teleriscaldamento coprono interamente (e superano) i fab­bisogni elettrici e termici dei cittadini residenti. La classifica premia proprio la capacità di sviluppare il mix più efficace delle diverse fonti (senza considerare geotermia e grande idro), e non la produzione assoluta, perché la prospettiva più lungimirante e vantaggiosa per i territori è rispondere alla domanda di energia valorizzando le risorse rinnovabili presenti.

Sono 2400 i Comuni 100% rinnovabili per l’energia elettrica, ossia quelli dove si produce più energia di quanta ne consumino le famiglie residenti.

Comuni del solare in Italia sono 7.937, un numero in crescita che evidenzia come con il sole si produca oggi energia nel 97% dei Comuni. Spetta a Casaletto di Sopra (Cremona) e a Don (Trento) il record di impianti per abitante, rispettivamente per il fotovoltaico e per il solare termico.

Comuni dell’eolico sono 571. La potenza installata (8.703 MW) è in crescita, con 1.791 MW in più rispetto al 2011. Questi impianti hanno consentito di produrre 13,1 TWh nel 2012, pari al fabbisogno elettrico di oltre 5,2 milioni di famiglie. Sono 296 i Comuni che si possono considerare autonomi dal punto di vista elettrico grazie all’eolico, poiché si produce più energia di quanta se ne consu­ma.

Comuni del mini idroelettrico sono 1.053. Il Rapporto prende in conside­razione gli impianti fino a 3 MW. La potenza totale installata nei Comuni italiani è di 1.179 MW ed è in grado di produrre ogni anno oltre 4,7 TWh, pari al fabbisogno di energia elettrica di oltre 1,8 milioni di famiglie.

Comuni della geotermia sono 369, per una potenza installata pari a 915 MW elettrici, 160 termici e 1,4 frigoriferi. Grazie a questi impianti nel 2012 sono stati prodotti circa 5,5 TWh di energia elettrica in grado di soddisfare il fabbisogno di oltre 2 milioni di famiglie.

Comuni delle bioenergie sono 1.494 per una potenza installata complessiva di 2.824 MW elettrici e 1.195 MW termici. Gli impianti utilizzano biomasse solide, gassose e liquide. In particolare quelli a biogas sono in forte crescita e hanno raggiunto complessivamente 1.133 MWe installati e 135 MWt e 50 kw frigoriferi termici. Gli impianti a biomasse, nel loro complesso, hanno consentito nel 2012 di produrre 13,3 TWh pari al fabbisogno elettrico di oltre 5,2 milioni di famiglie.

Sono 343 i Comuni in cui gli impianti di teleriscaldamento utilizzano fonti rin­novabili, come biomasse “vere” (di origine organica animale o vegetale provenienti da filiere terri­toriali) o fonti geotermiche, attraverso cui riescono a soddisfare larga parte del fabbisogno di riscaldamento e di acqua calda sanitaria.

Municipalizzate: buchi o risorse comunali?

di Mario Agostinelli

Decrescita è ormai il miglior termine per definire il mondo dell’energia in Italia. Nel 2013 il consumo interno lordo di gas metano è sceso del 6,8% nel mese di gennaio; ancor di più quello di prodotti petroliferi: -10,4%. Rispetto al febbraio 2012, in diminuzione netta la produzione termoelettrica (-23,9%): un settore ormai in crisi dichiarata. In confronto ad un anno fa, segnano invece un segno positivo l’idroelettrico (+43%), la produzione del vento (+19,1%) e del sole (+11,2%): tutta energia prodotta senza import.

Il cambiamento di scenario, non previsto dagli amministratori delegati delle aziende elettriche, appare ormai irreversibile. Nessuno pensa più che i consumi possano risalire ai livelli pre-crisi, anche per effetto dei miglioramenti in efficienza energetica e per il diffondersi di impianti decentrati di autoproduzione a rendimento migliorato. Se si fa un’analisi degli ultimi quattro anni è impressionante la crescita nella produzione di elettricità “verde”: +81% dalle bioenergie, +103% dal vento, mentre per il sole l’elettricità prodotta si è centuplicata e la produzione del 2012 è più che doppia rispetto alla produzione del nucleare italiano nel suo massimo anno di splendore (fu il 1986 con 8.750 GWh generati).

Se non si accetta il cambiamento, nascono serissimi problemi occupazionali: per questo occorre capire la direzione della svolta nella produzione e nel consumo di energia elettrica e termica. Ma né il governo né le amministrazioni comunali sembrano accorgersene. Da tempo, in Enel si parla di una eccedenza del 10% del personale in Italia, mentre A2A/Edipower ha annunciato la fermata con cassa integrazione a rotazione in quattro centrali, la chiusura della sede di Mestre e 400 esuberi di personale. Nei fatti, il parco termoelettrico è eccessivo e ammonta a 70mila MW a fronte di una domanda massima di 56mila MW.

La verità è che servirebbero idee per riconvertire le nostre utility – Acea, A2A, Iren, Hera – sennonché gli amministratori comunali si sono affidati completamente al mondo della finanza. Che, evocando mirabolanti effetti con le quotazioni in borsa e mettendo in ombra il grande patrimonio tecnico-professionale e di conoscenza del territorio, di fatto priva i sindaci e i consigli comunali di uno straordinario strumento di intervento per la qualità della vita dei cittadini e il risanamento dell’economia delle città.

In fondo, le municipalizzate erano nate per assicurare e distribuire l’energia come il nuovo “bene comune” che il progresso offriva. La società pubblica di Milano (Aem) nacque per referendum tra i cittadini per convogliare verso la metropoli la ricchezza d’acqua delle valli alpine sotto forma di elettricità. Nessuno avrebbe osato trascurare il buon servizio per avventurarsi in speculazioni di dubbio ritorno. Invece, oggi in tutta Italia ci troviamo di fronte ad una rincorsa verso sistemi multiutility extraterritoriali, governati da manager affrancati dal controllo dei cittadini e delle loro rappresentanze.

Nel nuovo quadro energetico-climatico, servirebbero urgenti misure per affiancare ai piani regolatori autentici piani energetici territoriali, di risparmio e di produzione pulita, per cambiare il mix delle fonti nelle aree urbane e quindi ottenere benefici risultati per ridurre le emissioni e l’inquinamento. Una spinta verso le rinnovabili e l’efficienza dovrebbe essere la “mission” rivalutata delle municipalizzate: diventerebbero così il cuore per una politica industriale locale, per buona occupazione e per tariffe sociali calmierate. Altro che mirabolanti operazioni che aumentano il debito della proprietà pubblica e spingono alla privatizzazione!

In fondo, per far continuare lo sviluppo ed evitare i licenziamenti nel solare fotovoltaico e nell’eolico, non servono nuovi incentivi ma bastano strutture innovative di rete, informazioni adeguate per allacciamenti e impianti al minor costo, detrazioni fiscali decise dal governo (come quella del 55%) e possibilità di finanziamenti a interessi bassi decise a livello cittadino. Questo magari tramite un fondo della cassa depositi e prestiti, per permettere alle famiglie e a gruppi di acquirenti in cooperativa diauto produrre e ridurre i costi della bolletta, con un analogo meccanismo per le rinnovabili termiche. Compiti che spetterebbero alle municipalizzate, riconsegnate ai cittadini.

I soldi sono sempre più nelle tasche di pochi e la disuguaglianza dei redditi in Italia è superiore alla media dei Paesi Ocse. Così non si fa nulla perché il risparmio non finisca sempre di più nelle grinfie della finanza, anziché in investimenti diffusi e remunerativi per le famiglie e le imprese, come succede con il ricorso al solare, all’eolico, alle biomasse. Come non si fa nulla perché cessi l’abusivismo (oltre 15 abitazioni abusive ogni cento costruite legalmente) e perché crolli l’inquinamento (oltre metà delle 30 città europee più inquinate si trovano da noi, che viviamo in mezzo a 5.000 siti contaminati da bonificare).

A partire da queste considerazioni, risultano importanti indicazioni per la riconversione delle funzioni e la piena ripubblicizzazione delle municipalizzate e per tornare a renderle, come una volta, luoghi di partecipazione delle amministrazioni. Altro che installare, come hanno fatto le “super municipalizzate” che si quotano in borsa, 24.000 Mw fossili negli ultimi 15 anni, con un colossale errore industriale che ora fanno pagare ai lavoratori, ai cittadini e ai programmi nazionali a favore delle rinnovabili decentrate.

Il nucleare francese disoccupa i lavoratori A2A

Turbigo, Cassano, Sermide e Tusciano sono le centrali idroelettriche in capo ad A2A che rischiano la chiusura (vedi articolo stampa de “Il Giorno sotto riportato): l’energia elettrica comprata dalla Francia (nucleare) è, truffaldinamente, meno cara (non si calcolano le esternalità ambientali e sociali). Circa 400 posti di lavoro sono in gioco, a quanto riporta il giornalista Nicola Palma.

La Francia è costretta a svendere il suo surplus di notte e noi  – italiani furbastri, non furbi – approfittiamo contribuendo al rischio nucleare che non ci risparmierebbe. Un sistema basato sul nucleare è, infatti, molto rigido, le centrali nucleari non sono molto modulabili, la Francia deve quindi avere una potenza di base capace di coprire i picchi delle variazioni giornaliere della domanda, per cui quando questa è minima produce energia elettrica in eccesso, che è costretta, appunto, a vendere a prezzi stracciati (ma per picchi eccezionali della domanda deve comprare energia, molto cara: per affrontare le ondate di freddo in inverno, ad esempio, importa energia dalla Germania).

In questo momento però esiste – se guardiamo la questione con un approccio più generale – una crisi di sovraproduzione di tutto il settore elettrico e qui si parla di 4.000 posti in esubero, secondo quanto riferisce, ad esempio, Luca Pagni su Repubblica – come si riporta sotto.

In merito alla vicenda occupazionale A2A il sindacato di base USB – che denuncia l’importazione elettrica dalla Francia (“con ogni probabilità nucleare visto che questo Paese produce la sua elettricità all’80% da fonte nucleare”) sta partecipando ai Tavoli di trattativa con l’azienda ed ha in programma l’organizzazione di una conferenza stampa, probabilmente giovedi prossimo (ma ancora la decisione definitiva non è stata presa).

Ieri c’è stato in incontro A2A-Sindacati ed un comunicato della UGL, riportato oggi dalla Reuters, lamenta che l’azienda non starebbe recedendo dal suo piano di esuberi.

Purtroppo, nel nuovo incontro con A2A sul piano di riorganizzazione della rete, non è stato fatto nessun passo indietro sui 200 esuberi annunciati dall’azienda, a cui si sommano altri 150 per il progetto di integrazione con Edipower, di cui discuteremo invece la prossima settimana. Confermata anche la cig ordinaria per altri circa 300 dipendenti delle 4 centrali di Cassano d’Adda, Sermide, Turbigo e Chivasso“, commenta nella nota Luigi Ulgiati, segretario nazionale di Ugl chimici.

Per quanto riguarda le posizioni del C.A.V.R.A., che ribadisco, è noto che noi condividiamo la linea della ripubblicizazione di A2A per lanciare il modello “rinnovabile” che dovrebbe non solo garantire, ma sicuramente moltiplicare l’occupazione.

Questa linea dovrebbe passare per lo scorporo di A2A nelle originarie AEM di Milano e ASM di Brescia: le municipalizzate locali sono il veicolo indispensabile per una politica partecipata che ci traghetterà nella “rivoluzione energetica”, quella che, scusate il gergo usato per ragioni di brevità, necessita alla “rivoluzione economica” della conversione ecologica post-crescita.

 di Alfonso Navarra – vicepresidente Associazione Energia Felice – Comitato attuare la volontà del referendum antinucleare 

 

Lombardia – Il colosso A2A annuncia 400 esuberi. I sindacati: tagli anche per i manager

di Nicola Palma da il Giorno del 09/03

LA CRISI non risparmia neanche un colosso come A2A. L’altro giorno, i vertici del gruppo leader nel settore energetico hanno annunciato ai sindacati confederali la necessità di procedere a tagli del personale: circa 400 esuberi, in parte derivanti dall’integrazione tra A2A ed Edipower, in parte da processi di efficientamento sulla gestione delle reti elettriche e del gas. Esuberi un po’ inattesi, a dir la verità: basti ricordare che non più tardi dello scorso 3 novembre, in occasione della presentazione del piano industriale, il presidente del Consiglio di gestione, Graziano Tarantini, aveva promesso che A2A non avrebbe licenziato «un solo dipendente». Non sarà così. Anzi. Sì, perché l’azienda — che ha come principali azionisti i Comuni di Milano e Brescia col 27,456% di quote a testa — intende far ricorso pure alla cassa integrazione ordinaria a rotazione per gli impianti termoelettrici di Cassano, Turbigo, Sermide e Chivasso: si prevede una fermata di 40 settimane a impianto nel corso nel biennio 2013-2014 a causa del calo dei consumi di energia e delle vendite. Misure che, nelle intenzioni della dirigenza della società nata il primo gennaio di 5 anni fa, contribuiranno a ottenere un risparmio di 70 milioni di euro entro il 2015. Mobilità, prepensionamenti e incentivi all’esodo, le tre formule indicate da A2A per ridurre il numero di dipendenti.

UNA DECISIONE giustificata con «la profonda crisi dei settori industriali in cui opera», pur confermando investimenti da 1,2 miliardi di euro nei prossimi 3 anni. Obiettivo dichiarato del gruppo è comunque quello di arrivare in tempi brevi a un comune accordo con i rappresentanti dei lavoratori, in modo da «ridurre al minimo l’impatto di tali iniziative». E la risposta dei sindacati non si è fatta attendere. Ecco in breve le richieste avanzate da Giacomo Berni, segretario nazionale Filctem Cgil, e Carlo Meazzi, segretario nazionale Fleai-Cisl: innanzitutto, nessun licenziamento e sostegno al reddito di chi verrà accompagnato alla pensione. E ancora, sacrifici economici estesi a tutti, a cominciare dai top manager dell’ex municipalizzata, e drastica riduzione del numero di consulenze esterne per ridurre ulteriormente i costi. In ogni caso, chiariscono i delegati sindacali, l’auspicio è che A2A si impegni a minimizzare l’impatto sociale dei provvedimenti: «Siamo contrari ai licenziamenti — chiarisce Berni — all’azienda abbiamo chiesto che nessuno venga lasciato a piedi: del piano di risparmi non possono farsi carico solo i dipendenti ma i sacrifici devono essere distribuiti anche tra i dirigenti».
Nicola Palma
nicola.palma@ilgiorno.net

Energia in crisi, le centrali si fermano. Da Enel ad A2a, utility costrette a ridurre il personale

Luca Pagni da la Repubblica del 12 marzo 2013MILANO — Centrali elettriche chiuse, o almeno, “in stato di conservazione”. Non sono spente del tutto, ma di fatto gli impianti per la produzione di energia vengono fermati. Per risparmiare sulla materia prima. E limitando l’attività, anche sul personale. Tanto che con i sindacati sono già partire le trattative per oltre 4mila esuberi in tutto il settore, di cui la maggior parte riguardano Enel. E tutto fa pensare che sia solo l’inizio. Hanno retto fino a quando hanno potuto. Ma ora, anche le utility, le aziende che producono e vendono sul mercato energia elettrica, sentono tutto il peso della recessione. Sia i grandi gruppi italiani e stranieri presenti nelle penisola, così come le ex municipalizzate. Risentono del crollo della domanda di energia a causa del calo della produzione industriale, nonché della concorrenza delle rinnovabili. Non è esagerato parlare di crollo: a febbraio, la domanda di energia è calata del 5% rispetto al 2012 e nell’ultimo anno e mezzo ci sono stati solo quattro mesi in positivo. Tanto che Assoelettrica, la Confindustria di settore ha parlato di «recessione cronica» e di situazione «intollerabile e drammatica».

Così, come non va sottovalutato il fenomeno rinnovabili: nelle regioni del Sud ci sono già stati giorni in cui l’intera produzione è a carico di eolico e fotovoltaico e in certe ore del giorno il costo dell’energia è arrivato a quota zero. Due fenomeni che stanno erodendo i margini dei produttori, in particolare di chi opera con le centrali alimentate a olio combustibile e a gas. E il protrarsi della recessione, ormai prevista anche per il 2013, ha costretto i manager a scelte non più rinviabili. Nei giorni scorsi, ha cominciato l’utility lombarda A2a (controllata alla pari dai comuni di Milano e Brescia) a comunicare ai sindacati un esubero di 400 persone. Non solo: ci sarà la fermata a rotazione di 4 centrali (Chivasso, Sermide, Turbigo e Cassano), nonché il ricorso alla cassa integrazione a rotazione per il personale. La messa in “conservazione” di tre centrali riguarda anche Edison, il secondo gruppo italiano del settore, con gli impianti di Sarmato, Porto Vito e Jesi.

Gli esuberi nel caso della società passata sotto il controllo del colosso francese Edf riguarda non più di una quarantina di persone. E meno di 200 dipendenti sui 1250 totali, il personale in eccesso della filiale italiana dei tedeschi di E.On, di cui 120 alla centrale di Fiume Santo in Sardegna. Ma tutto il settore aspetta quanto verrà comunicato domani da Enel, alla presentazione dei conti del 2012. Si saprà, nel dettaglio, quante centrali potrebbero essere fermate, nonché tempi e modi degli esuberi del gruppo. Enel deve confermare i 3.500 già annunciati (tra uscite volontarie e prepensionamenti) a fine 2012 al sindacato. Ma anche se vuole procedere con i contratti di solidarietà, che potrebbero riguardare 15mila dipendenti sui 35mila totali, tutti non operativi.

 

Energia in crisi, anche a Turbigo la centrale si ferma

Vanessa Valvo su il Giorno del 14 marzo 2013

Turbigo, 14 marzo 2013 – La mancata produzione di energia elettrica delle ultime due settimane sembra già il preludio alla riduzione del lavoro e alla cassa integrazione per il personale di A2A, prevista all’interno delle sue numerose attività, tra le quali anche la Centrale di Turbigo con i suoi 97 dipendenti. Qui da giorni manca pure l’acqua del Naviglio per raffreddare i motori, ufficialmente per lavori di manutenzione lungo il canale. «Le macchine sono comunque pronte in caso di richiesta di energia, noi siamo sugli impianti tutti i giorni, ma senza acqua non possiamo produrre – spiega Valentino Gritta, sindacalista Usb -. Non è la prima volta che succede, ma l’ultima è stata per una vera emergenza, quando il lago Maggiore è andato in secca. Sull’utilizzo idrico del Naviglio c’è, in realtà, anche un contenzioso ancora aperto con la Regione Lombardia, che attualmente sta facendo pagare ad A2A il 200% del canone previsto per l’uso dell’acqua – rivela Gritta – L’azienda vorrebbe pagare per l’utilizzo effettivo dell’acqua, dato che la stessa quantità viene prelevata e rimessa nel corso, chiedendo la riduzione al 50% della tassa consueta. Ma in attesa che il Consiglio di Stato deliberi sul caso, la Regione ha raddoppiato il canone, a garanzia del mantenimento dello stesso introito».

In queste ore i dirigenti di A2A sono impegnati ancor più seriamente sul fronte occupazione. «Dal primo aprile dovrebbe iniziare la cassa alla centrale di Cassano – annuncia il sindacalista Cisl Federenergia Paolo Paolini -, mentre per i prossimi due anni e mezzo è previsto un periodo di riduzione del lavoro dalle 40 alle 52 settimane, compatibilmente con la necessità in rete e di manutenzione degli impianti. Se il mercato migliora, è evidente che le predisposizioni non si allenteranno e non saranno così rigide».

Nello stesso modo è previsto un taglio di 300 lavoratori, pari al 5% tra tutti i settori di cui A2A ed Edipower sono proprietarie, ma questo non significa che verrà depennato particolarmente il personale di una centrale piuttosto che di un’altra. Insieme alle misure di contenimento delle spese che riguarderanno i servizi, dai contratti di telefonia, per esempio, ai fornitori, anche la cassa, quindi, servirà per far risparmiare i 70 milioni di euro che A2A vorrebbe investire, insieme ad un altro miliardo e 230 milioni di euro, nel piano industriale appena deciso. «Siamo stati “comprati” con soldi pubblici e ora da lavoratori ce li vogliono togliere – dichiara Gritta -. Questi 70 milioni di euro, per i quali noi rischiamo il posto di lavoro, si potrebbero recuperare in altro modo, dato che l’anno scorso l’Azienda ha comunque effettuato dei dividendi tra i soci, tra cui ci sono anche i Comuni visto che si tratta di una municipalizzata, pur essendo in passivo. Per cui perché non decurtare i guadagni dall’alto invece che dal basso?».La Usb incontrerà le autorità proprio oggi per parlare in dettaglio del futuro dei dipendenti di Turbigo. «Già a novembre con il fermo di due gruppi su quattro sono state lasciate a casa 42 persone e da 1.770 kilowatt la produzione che ora potremo mettere in rete è scesa a 1.100 kw. La riduzione del personale in realtà è andata in crescendo da quando Enel ha dovuto cedere un terzo della potenza installata e siamo andati sotto Eurogen ed Edipower, quindi circa dal 2000: da 320 dipendenti di allora, ora ci siamo ridotti a 97. Eppure – afferma Gritta – non si produce meno con la crisi economica, perché di contro è cresciuto molto il consumo energetico casalingo. Nel 2003 abbiamo toccato il consumo minimo, ma ora siamo ai livelli di 7-8 anni fa. Di certo ci stanno per chiedere un sacrificio troppo grande: siamo veramente preoccupati».

Ecco i primi effetti del “fotovoltaico armato”

In una zona compresa tra i comuni di San Francesco al Campo, San Carlo Canavese e Lombardore si sta valutando un progetto per la creazione di una centrale costituita da pannelli fotovoltaici, che dovrebbe coprire una  superficie di 72 ettari, oltre alla costruzione di una linea che porti l’energia fino alla centrale di Leinì.

La zona interessata è in parte nella riserva naturale della Vauda, splendida area selvaggia del Canavese, e in parte su terreni del demanio militare, che da anni vengono dati agli agricoltori della zona, che fino ad ora li hanno curati e resi produttivi.

Vincitrice della gara d’appalto l’azienda tedesca Beelectric, appoggiata dal Ministero della DifesaE’ bene far notare che i comuni interessati hanno una forte vocazione agricola, con numerose aziende presenti, di cui alcune con terreni solo nella zona  oggetto del futuro impianto, quindi tale opera avrebbe non solo risvolti negativi per l’ambiente, ma anche per l’economia agricola della zona.

È sconcertante apprendere che, per far posto a centinaia di pannelli fotovoltaici, un’azienda straniera voglia strappare terreni produttivi agli agricoltori, e ridurre una riserva naturale, riconosciuta anche come SIC (Sito di Interesse Comunitario) dall’Unione Europea, visto che al suo interno vivono moltissime specie di uccelli e animali, altrove non presenti o molto rari.

Siamo a favore dell’energia fotovoltaica, ma non capiamo perché, con tutte le alternative esistenti (tetti di capannoni, parcheggi, aree compromesse quali discariche di rifiuti, svincoli autostradali, ecc.) sia proprio necessario distruggere quel poco di ambiente che ancora è rimasto intatto!

Per questo chiediamo a tutti i nostri lettori di inviare una mail agli Enti coinvolti e ai giornali locali, per ribadire la propria contrarietà a quest’opera devastante, affinchè si possano trovare altre soluzioni.

Se il pulsante non funziona puoi inviare la mail seguendo le istruzioni qui di seguito:

Destinatari della mail (inserire tutti gli indirizzi nel campo “destinatario”, separati da virgola):

sindaco@comune.lombardore.to.it
comune.sancarlo@icip.com
comune@comune.sanfrancescoalcampo.to.it
urp@minambiente.it
valutazioni.ambientali@regione.piemonte.it
rischigeologici.to-cn-no-vb@regione.piemonte.it
Proprietaforestali_vivai@regione.piemonte.it
presidenza@regione.piemonte.it
agricoltura@regione.piemonte.it
antonio.saitta@provincia.torino.it
marco.balagna@provincia.torino.it
roberto.ronco@provincia.torino.it
sportamb@provincia.torino.it
redazione@ilrisveglio-mail.it
ilcanavese@netweek.it
torino@pro-natura.it
direttore.pp@regione.piemonte.it
piemonte.parchi@regione.piemonte.it

Oggetto: NO ALL’IMPIANTO FOTOVOLTAICO NEL PARCO DELLA VAUDA!

Testo del messaggio:

Esprimo tutta la mia contrarietà alla realizzazione di un mega impianto fotovoltaico di oltre 70 ettari in parte su terreni agricoli e in parte nella riserva naturale della Vauda (riconosciuta anche come SIC – Sito di Interesse Comunitario – dall’Unione Europea).

Pur essendo favorevole alle energie rinnovabili ritengo assurdo che, con tutte le alternative esistenti (tetti di capannoni, parcheggi, aree compromesse quali discariche di rifiuti, svincoli autostradali, ecc.) sia proprio necessario distruggere quel poco di ambiente che ancora è rimasto intatto!

È sconcertante apprendere che, per far posto a centinaia di pannelli fotovoltaici, un’azienda straniera voglia strappare terreni produttivi agli agricoltori, con risvolti negativi non solo per l’ambiente, ma anche per l’economia della zona.

Rivolgo un accorato appello a tutti gli Enti coinvolti, affinché il progetto non sia approvato e si possano trovare altre soluzioni.

Cordiali saluti,

Firma ….

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La nostra protesta ha già avuto i primi effetti positivi: ecco il comunicato stampa del presidente della provincia di Torino, Antonio Saitta

Torino, 5 marzo 2013

Saitta: “No all’impianto fotovoltaico del ministero della Difesa: consumerà 70 ettari di suolo libero in zona protetta, usino i tetti delle caserme”

“Comprendo le necessità del Ministero della Difesa di valorizzare e far rendere al massimo le sue proprietà in tutta Italia, ma pretendere di realizzare un grandissimo parco fotovoltaico consumando 70 ettari di terreno libero tra Lombardore e San Francesco al Campo ai bordi del parco della Vauda è inaccettabile. Mi chiedo e chiederò formalmente al Demanio perché non coprono di pannelli fotovoltaici i tetti delle centinaia e centinaia di caserme invece di occupare suolo libero. Sono fermamente contrario a questa operazione che devasta una delle ultime zone naturali libere del territorio”: lo dice il presidente della Provincia di Torino Antonio Saitta che questa mattina ha esaminato il progetto durante la seduta della Giunta.

L’iter della vicenda, sintetizzato dall’assessore provinciale all’Ambiente Roberto Ronco, comincia mesi fa quando il Demanio mette a gara in tutta Italia lotti di sua proprietà ed affida ad impernditori privati la realizzazione di impanti fotovoltaici.

Nel territorio della provincia torinese individua 70 ettari del poligono di Lombardore, prima in zona SIC (sito di interesse comunitario), poi dopo i primi pareri contrari in un azona limitrofa, ai confini tra i territorio di Lombardore San Francesco al Campo, “vicino alle case, dove c’è un’ampia fruizione a piedi, a cavallo, in bici” spiega l’assessore Ronco preeoccupato perché dice “la Provincia è favorevole all’energia pulita, ma non sfruttando terreni liberi”.

Saitta non ha dubbi: “è gravissimo – dice – che sia lo Stato attraverso il Demanio militare a monetizzare 70 ettari di suolo ancora libero con un’operazione commerciale che se pur legittima condiziona l’ambiente in modo così pesante. Scriverò anche al ministro Clini per capire se ne sia informato e cosa ne pensi come tecnico dell’ambiente”.

Conclude Saitta: “gli abitanti della zona si stanno mobilitando e fanno molto bene: la Provincia di Torino è politicamente contraria a questa operazione, che si può fare con altre modalità su tetti dicaserme e capannoni militari; non vogliamo assumere il ruolo di passacarte tra il Ministero della Difesa e la Regione Piemonte, ci faremo sentire”.

Antonio Saitta
Presidente della Provincia di Torino 

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Il presidente Saitta ha inoltre inviato una lettera ai Ministri della Difesa, dell’Ambiente e delle Politiche Agricole, per ribadire la sua contrarietà al progetto:
Leggi la lettera (formato pdf, 61 kb) > 

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Riportiamo per ulteriori informazioni un articolo di Piero Belletti (pubblicato su “Obiettivo Ambiente”, novembre 2012):

Lo affermiamo da sempre: non siamo contrari alla produzione di energia fotovoltaica. Anzi, la riteniamo una più che valida alternativa al tradizionale uso di combustibili fossili. Per non parlare poi dell’energia nucleare…. Ci sono però delle situazioni nelle quali anche il ricorso all’energia fotovoltaica non è ecologicamente sostenibile e rappresenta una inaccettabile fonte di dissesto ambientale.

È il caso del progetto che riguarda la realizzazione di un gigantesco campo fotovoltaico all’interno della riserva naturale della Vauda, nel comune di Lombardore.

Come detto, si tratta di un area protetta, caratterizzata da un’ampia zona pianeggiante, in gran parte ricoperta da brughiera e ricca di stagni e laghetti. Parte della zona appartiene al demanio militare, che l’ha spesso utilizzata, soprattutto in passato, come poligono per le esercitazioni con mezzi blindati. Paradossalmente, proprio la presenza dei militari ha impedito speculazioni e usi sconsiderati del territorio, consentendo la conservazione di un ambiente, benché di origine in parte antropica, naturalisticamente interessante e ricco di specie, sia vegetali che animali, di grande pregio.

Alcuni mesi or sono le autorità militari hanno deciso di concedere l’area ad una società privata, affinché vi realizzi una serie di campi fotovoltaici, per una superficie complessiva di oltre 70 ettari.

Una iniziativa inaccettabile, che comporterebbe di fatto la distruzione dell’ultimo residuo di brughiera delle alte pianure della provincia di Torino, tra l’altro riconosciuta anche come SIC (Sito di Interesse Comunitario) dall’Unione Europea. Al suo interno è infatti possibile reperire numerose specie, altrove non presenti o molto rare.

In particolare, nella Vauda sono state censite oltre 200 specie di uccelli, in parte nidificanti ed in parte di passo: tra le presenze di maggior rilievo spiccano allodole, quaglie, gruccioni, averle piccole, succiacapre, cappellacce, strillozzi e ortolani, nonché alcune specie di rapaci come poiane, falchi, nibbi bruni, gufi e civette. Di grande interesse anche la fauna cosiddetta minore, che comprende rare specie di rettili, anfibi e almeno 60 specie di Lepidotteri, alcune delle quali si trovano in serio pericolo di estinzione.

Anche dal punto di vista giuridico il progetto non regge: siamo in un’area protetta a livello regionale, all’interno della quale interventi di così elevato impatto ambientale non sono permessi, mentre anche il Piano Regolatore del Comune di Lombardore riconosce all’area una elevata valenza naturalistica.

La stessa Regione Piemonte, con una deliberazione del 2010, ha riconosciuto le aree protette regionali ed i SIC quali siti non idonei all’installazione di impianti fotovoltaici a terra. Infine, anche il Ministero dello Sviluppo Economico, ha recentemente stabilito che lo sviluppo del solare fotovoltaico debba essere orientato verso applicazioni che riducono il consumo del territorio, stimolano l’innovazione tecnologica e le ricadute economiche, maincoraggiando in particolare l’utilizzo di coperture edilizie esistenti, anche dismesse. Purtroppo, pare che tutto ciò non valga per i militari, che ritengono, sulle aree di loro proprietà, di poter fare tutto ciò che vogliono.

Le Associazioni ambientaliste del Piemonte, tra cui Pro Natura Piemonte, hanno presentato un corposo ed articolato documento alla Provincia di Torino, in cui contestano in modo puntuale il Piano di Incidenza Ambientale che è allegato al progetto, chiedendo pertanto il ritiro di quest’ultimo.

Ribadiamo ancora una volta come la nostra non sia una posizione pregiudiziale contro l’utilizzazione dell’energia fotovoltaica. Semplicemente, con tutte le alternative esistenti (coperture degli insediamenti industriali e di altre strutture edilizie, parcheggi, aree compromesse quali discariche di rifiuti, svincoli autostradali, massicciate autostradali e ferroviarie, ecc.) non si capisce perché si debba andare a distruggere quel poco di ambiente che ancora è rimasto più o meno intatto.

Scarica il documento con le osservazioni delle associazioni ambientaliste(file pdf, 146 kb) >