Roberto Cingolani ministro durerà magari solo giorni: più sfortunatamente per noi anche per mesi, ma il nucleare, purtroppo, è per sempre.
Come a me, anche a lui avranno insegnato, dai licei alla laurea in Fisica, quanto un determinismo presuntuoso possa illuderci di governare potenza ed energia sul pianeta senza darci pena di come esse possano essere dissipate in atmosfera o negli oceani o degradate senza procurare guasti ai cicli naturali. Lo studio delle scienze in Occidente – ora forse ad una inversione decisiva – è stato per secoli orientato entro un quadro di espansione a dismisura del mondo artificiale: un cumulo di protesi, di manufatti e di scarti in continua crescita, che ostacolava la cura del vivente e della natura, mentre il mercato non perdeva occasione per assegnare a quest’ultimi un valore di scambio.
Questo, tranne rare occasioni, era il percorso in cui si assimilava l’educazione e lo studio delle materie scientifiche e l’orizzonte a cui erano – ed ancor oggi spesso sono – indirizzati tecnologi e scienziati, prima che le nuove scienze, dal secolo scorso in poi, provocassero una svolta che ancora stenta ad affermarsi.
Io ho avuto in sorte di intuire – dalle contraddizioni dell’esperienza sindacale, dall’incontro con i protagonisti della primavera ecologica degli anni ‘70 e dalla pacata e straziante determinazione degli allarmi della Laudato Si’ e dell’Ipcc – quanto l’illusione di un’espansione illimitata della “potenza” umana sia incompatibile con la continuità della sua stessa storia sulla Terra. Forse il ministro Cingolani non è passato attraverso sufficienti esperienze partecipative o di crisi del modo di produzione per valorizzare momenti di dialettica e confronto e, quindi, si permette di esibire una cultura manageriale che risulta sviante di fronte ad emergenze epocali che la popolazione tocca con mano, senza che le sia data voce.
Mentre Germania e Spagna su Next Generation procedono con linearità, il nostro Paese manifesta ritardi sui tempi, confusione sulle tecnologie energetiche da abbandonare, carenza di politiche industriali da avviare subito, anche solo per non dover usare le risorse eccezionali del Pnrr per importare impianti solari eolici o di stoccaggio o componenti elettrici prodotti all’estero.
Nell’approccio di questo governo manca totalmente una visione di come il cambiamento possa essere tanto radicale quanto vantaggioso e possibile. Provo a fare qui alcune considerazioni.
1. Il lavoro umano sul Pianeta ha raggiunto una capacità trasformativa delle risorse naturali rigenerabili assolutamente insostenibile nel giro di un massimo di decine di anni, con orari individuali assurdi, precarietà illimitata e salario differito e welfare praticamente inconsistenti per più della metà degli occupati. L’impronta ecologica degli abitanti dei paesi industrializzati non travalica la metà di un anno solare.
L’orario di lavoro e lo spostamento dell’attività umana verso la cura e l’istruzione permanente è quindi indifferibile: un marchio da cambio di civiltà. Eppure, non esiste una organizzazione mondiale, europea, nazionale sindacale che abbia al centro questa straordinaria rivendicazione.
2. Le politiche energetiche continuano a fissare le loro aspettative sui fossili che vanno lasciati sottoterra e la cui reiterazione è solo remunerata dalla speculazione finanziaria e dall’attività militare cui prestano un sostegno indispensabile in tempi di guerra. I bilanci territoriali di emissioni e scarti delle attività di produzione e consumo sono largamente debordanti e antieconomici, se non fossero sostenuti da sussidi impropri e dalla non applicazione delle tasse sulle emissioni di climalteranti.
3. La riconversione ecologica integrale richiede il ridisegno e la riprogettazione radicale di tutti i componenti oggi impiegati in funzione di protesi umane di amplificazione di potenza, velocità e approvvigionamento alimentare sicuramente da contenere. Da dove cominciare, se non dai territori e da forme di educazione permanente che attraversino la scuola e la diffusione di corsi di formazione popolare?
Ma c’è qualcosa ancora più a monte che riguarda – con l’approssimazione dovuta ai limiti dei nostri sensi e della mente – quel che nella normalità rappresentiamo come genere umano, biodiversità, cicli naturali, elementi che ci circondano; una realtà che non è quel che ci appare.
Che ogni particella di materia ed energia, in qualunque forma si presenti o si componga, venga indistinguibilmente da un unico “atto” – il Big Bang – in cui si è formato tempo e spazio più di tredici miliardi di anni addietro e che tutto quanto – energia e materia – sia interconnesso, trovi forme di aggregazione, ripulsa, auto-organizzazione, attraverso continue cosmogenesi in tempi e spazi da allora in espansione, non l’abbiamo ancora metabolizzato.
Che la dinamica dell’Universo non riguardi solo la nostra storia non l’abbiamo per niente introiettato. Soprattutto, non siamo in grado di apprezzare a fondo la comparsa del vivente, solo pochi miliardi di anni fa, con la sua originalità e fragilità. Così, non siamo avvezzi a considerare meccanismi che ci obbligano a considerarci da unici individui intelligenti a genere non dominante sul pianeta, e, perciò, a specie sociale in contatto vitale con una natura dinamica, che ha una propria autonomia e proprie leggi cha vanno “dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande”, l’uno e l’altro sottratti per ora ai nostri sensi e alla normale percezione mentale.
La cultura che interpreta la realtà e le stesse aspettative in cui viviamo e creiamo relazioni va completamente rivista alla luce dell’interrelazione che percorre l’intero universo “dal più piccolo all’infinitamente grande”. Ce lo fanno capire quotidianamente la sindemia e il brusco cambiamento climatico in corso.
Tutta l’interpretazione determinista che ha invaso anche le scienze economiche ed umane andrebbe riconsiderata, ma non è qui il caso di trattarne. Dato che siamo partiti dal ministro per la Transizione energetica, lo inviterei a pensare che nelle esternazioni cui è così sollecito tenga conto che la storia dell’Universo e le particolarità delle particelle elementari ci trasportano immediatamente in un confronto impressionante sulla articolazione estrema della densità energetica della materia che si vorrebbe impiegare per risolvere senza danno la crisi energetica attuale e che è spiegabile con i tempi assai remoti in cui quella particolare densità si è costituita.
Ebbene: con buona approssimazione si può ritenere che, per ottenere pari energia, a fronte di un grammo di fusione tra isotopi di idrogeno occorrerebbe trattare la fissione di 8-10 grammi di uranio, ovvero portare a combustione 5000 tonnellate di carbone o bruciare in centrale 6300 metri cubi di gas, o, ancora far cadere da 1000 metri un terzo di tutta l’acqua del lago d’Iseo. Diverse fonti di energia risalenti nella loro formazione ad ere anche relativamente ben distanti nel tempo.
Si tratta solo di un puro esercizio che ricorre ad eccessive semplificazioni e modelli mentali assai grezzi, ma può subito dare un’idea di come l’energia nucleare e fossile possano avere ordini di grandezza più o meno devastanti sui tempi e l’integrità dell’ambiente e della persona umana. Ho inteso questa nota come una premessa per analizzare in un prossimo post, con un dettaglio meno “immaginoso” e più aderente alle singole tecnologie impiegate, la crisi del nucleare di qualunque “generazione” e in qualunque configurazione.
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