Dallo scioglimento dei ghiacci agli eventi metereologici estremi sempre più frequenti, gli effetti del riscaldamento globale si fanno sentire sempre di più. Ma i grandi del mondo pensano solo alla crisi finanziaria, che si sta affrontando immergendosi ancora di più nel gorgo che l’ha creata. Per esempio continuando a puntare sulle fonti fossili.
di Mario Agostinelli – 16 novembre 2012
Anche se se ne parla poco sui media, è bene tenere i riflettori accesi sul global warming. Nel mese di settembre 2012 si è registrato un nuovo inquietante record. La superficie dei ghiacci artici si è ridotta a soli 3,5 milioni di chilometri quadrati, la metà rispetto a 40 anni fa. Parallelamente la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera continua a crescere e ha raggiunto i valori più alti degli ultimi 800.000 anni. Nel 2012 si toccheranno i 394 ppm, 44 in più rispetto alla soglia dei 350 da non superare per evitare conseguenze catastrofiche al Pianeta. Analisi della Nasa confermano come le aree definite “extremely hot”, inesistenti nel trentennio precedente, siano progressivamente cresciute raggiungendo nel 2011 il 12% della superficie non oceanica del nostro emisfero. Ma per i grandi del mondo, già riuniti a Rio a Giugno, la crisi finanziaria assorbe qualsiasi prospettiva di cambiamento a medio-lungo termine e, anzi, si affronta immergendosi ancora di più nel gorgo che l’ha creata.
Significativamente, la questione climatica è rimasta al di fuori della campagna per le elezioni presidenziali negli USA, mentre la UE, al contrario, punta a innalzare al 30% l’obiettivo di riduzione delle emissioni climalteranti al 2020 (ma ne avete sentito parlare tra uno spread e l’altro?). Anche la Cina, contando in modo sempre più incisivo sulle clean technologies (per esempio ha appena quadruplicato gli obiettivi sul fotovoltaico) potrebbe nei prossimi 2-3 anni ribaltare gli equilibri diplomatici consentendo di raggiungere un accordo per il post-Kyoto.
Quindi, i perduranti umori anti-Kyoto USA e il ritorno al petrolio e al gas della strategia energetica nazionale (SEN) proposta da Passera-Monti, non sembrerebbero proprio godere del plauso globale. In compenso, sulle sponde dell’Atlantico e su quelle del Mediterraneo le ascoltate lobbies energetiche propugnano un’ostinata e irresponsabile azione di rimozione del tema del climate change. Alla domanda di un giornalista sul perché nei dibattiti con Romney non si fosse parlato di cambiamenti climatici, Obama ha risposto che “il moderatore non aveva sollevato il problema”! Quando poi l’uragano Sandy ha sovvertito l’agenda della campagna elettorale delle presidenziali, l’attenzione degli americani è stata focalizzata assai più sulla capacità di intervenire a riparare i guasti, che sulla lungimiranza politica di mitigarli prevenendoli.
L’attrazione finanziaria per il petrolio offshore e il gas da scisti bituminosi (shale gas) si concretizza in America in enormi nuovi investimenti delle grandi compagnie, mentre da noi i “tecnici” a Montecitorio guardano con favore a un’Italia futura solcata da tubi, perforata da pozzi, costellata di rigassificatori. Eppure, i costi del rilancio del sistema energetico attuale con l’affinamento di possenti e pirotecniche tecnologie – perforazione dell’Artico, frazionamento delle rocce, giganteschi sistemi fissi e mobili di liquefazione e rigassificazione – sono spaventosi e non possono che aggravare la stessa crisi finanziaria in corso.
In un recente articolo “The social cost of carbon in U.S. regulatory impact analyses: an introduction and critique”, Laurie T. Johnson e Chris Hope, due studiosi americani, affermano che ogni tonnellata di CO2, valutata a 21 dollari dall’agenzia intergovernativa USA, nei fatti pesa sui contribuenti dai 55 fino a 266 dollari, se si tiene conto dei costi sociali, rappresentati non solo dagli effetti del cambiamento climatico su ambiente ed economia, ma anche dai costi delle cure per le malattie polmonari o i giorni di lavoro o di scuola persi per questioni sanitarie dovute all’inquinamento legato ai combustibili fossili.
Il contributo antropico allo scatenarsi dell’uragano che la settimana scorsa ha colpito Haiti, Cuba, la Virginia e New York, viene esorcizzato, tacendo il fatto che in questo autunno Sandy ha incontrato temperature della superficie del mare al largo della costa orientale americana di quasi 3º C più alte del solito. Il che ha comportato un’influenza diretta sull’intensità della tempesta, dato che l’atmosfera sovrastante l’oceano era più carica di energia e conteneva più umidità. Tacere perché? Ma per riprendere i lavori per il gasdotto per portare shale gas dal Canada al Texas. Per approvare che Putin investa con Gazprom 19 miliardi di euro per allacciare la Siberia a Vladivostok e servire i mercati asiatici. E per consentire che il progetto South Stream, sponsorizzato anche dai nostri Governi (da Berlusconi a Monti), eluda gli obblighi in materia di antitrust e ambientale fissati dalla Commissione europea, mantenendo a oggi segreto il percorso di attraversamento del territorio bulgaro dal Mar Nero verso le coste adriatiche.
Ma non si tratta solo delle grandi opere a dimensione geostrategica. Perfino a livello locale sono in corso colpi di mano: le aree dell’hinterland a Est di Milano sono a rischio trivellazioni petrolifere. La Mac Oil spa, una società -con sede legale a Roma- fondata nel 2007 e controllata dall’americana Petrocorp Inc. con esperienze di estrazione di shale gas – sta ricercando idrocarburi in una vasta area, comprendente ben 37 Comuni in 5 diverse province (Bergamo, Cremona, Lodi, Monza Brianza e Milano). La richiesta di prospezione è stata prima accolta, nel febbraio 2009, dalla Commissione per gli idrocarburi e le risorse minerarie (Cirm) del ministero dello Sviluppo economico. Poi un ricorso al Tar del Lazio l’ha bloccata per due anni, fino a che la Regione Lombardia nel marzo del 2012 decide di escludere dalla Valutazione d’impatto ambientale il progetto denominato “Melzo”, firmando nel settembre di quest’anno l’intesa. Nell’area sono compresi il Parco Alto Martesana, il Parco del Rio Vallone, una parte del Parco del Molgora e i Parchi regionali Adda Sud e Nord, aree di importante valenza paesaggistica e naturalistica, con presenza di risorse idriche strategiche, direttamente a contatto con le concessioni di coltivazione. D’altra parte leperforazioni in Lombardia e attorno a Milano non sono una novità. Per il campo di Malossa – il più profondo d’Europa, ubicato tra Cassano d’Adda e Treviglio – spunta addirittura un progetto pilota per lo stoccaggio sotterraneo di CO2, proposto dal gruppo Techint. Eppure, lo scorso 3 Novembre si è riunito vicino a Cremona il “Coordinamento nazionale no triv” e il “Coordinamento comitati ambientalisti Lombardia” per denunciare nove stoccaggi attivi e in progetto in un convegno dal titolo significativo: “La Pianura Padana sotto la ‘canna del gas’”. Ma di giornali e Tv nemmeno l’ombra.
In questi giorni Leonardo Boff, filosofo, teologo e scrittore ha inviato una “lettera agli intellettuali del mondo” invitandoli a un sapere “fatto di esperienza, che dia valore a quello che dice il popolo, che non sono parole, ma drammi e gridi. Un sapere costruito in maniera rigorosa e universale, in modo che tutti possano capire”. E non possiamo che ascoltarlo quando aggiunge che “Ci sono due gruppi di minacce. Una viene dalla macchina di morte che la cultura militarista ha creato disponendo di armi nucleari, e ricorrendo a una tecnologia, che come visto a Chernobyl e Fukushima, non è mai in sicurezza. Il secondo gruppo di minacce deriva da quello che il nostro sviluppo industriale ha fatto negli ultimi 300-400 anni, con la sistematica aggressione alla Terra, ai suoi beni, le sue risorse. Siamo arrivati al punto di avere destabilizzato totalmente il sistema Terra, e l’evidenza di questo è il riscaldamento globale. Queste due minacce incomberanno sull’umanità nei prossimi decenni, e nessuno lo vuol credere, perché va contro il sistema di accumulazione, contro il capitalismo, contro le grandi aziende. Ma gli intellettuali che hanno un senso etico devono parlare di questo”.