a cura di Mario Agostinelli – Febbraio 2016
SOMMARIO
Se 2 °C vi sembran pochi…
Un esame dell’accordo
Cosa succede in Europa dopo Parigi
Due indicazioni: carbon tax e lotta alla povertà
Oltre Parigi e la Cop21
L’aspettativa con cui è stato a lungo invocato l’Accordo delle Parti (Cop 21) raggiunto a Parigi il 12 dicembre 2015, non metteva certo in conto una sua così rapida scomparsa dall’agenda dei 195 Governi che l’hanno sottoscritto a conclusione dell’anno più caldo della storia. Forse il colpo di teatro di fissare a 1,5°C anziché a 2 °C il limite massimo tollerabile per il riscaldamento del pianeta ha domato l’ansia e convinto che, una volta convenuta all’unanimità la soglia di pericolo, l’urgenza di non oltrepassarla non rimanesse più la questione autentica.
Tra il dire e il fare c’è di mezzo una decarbonizzazione dell’economia che risulta sconvolgente per tutti gli equilibri (o gli squilibri!) geopolitici in divenire e per le fortune del capitalismo a livello globale. Ed è questa la questione che nessun governo si sente di affrontare in tempi immediati, quanto il degrado della natura e il cambiamento climatico richiedono in accordo con tutte le previsioni scientifiche.
Per raggiungere l’obiettivo di 2 °C, con una probabilità di almeno il 66% è necessario che tutte le emissioni di gas serra accumulate nel periodo 1850-2100 restino al di sotto dei 3.670 Gton di CO2 equivalente mentre la sola CO2 di futura emissione dovrebbe essere limitata a un massimo di 3.000 Gton nello stesso periodo. Il bilancio o quota massima di emissione disponibili per il periodo 2015-2100 è a soli 855 Gton, il che significa lasciare almeno due terzi di riserve comprovate di petrolio sottoterra e comunque, contemporaneamente, non emettere al ritmo attuale per oltre 17 anni!
Dobbiamo ammettere che lo scenario qui sopra, fornito come indifferibile dai 17 istituti di ricerca più prestigiosi, guidati dal Max Plank Institute, risulta inconcepibile per chiunque viva nel nostro quotidiano. Questo la dice lunga sull’egemonia ottundente esercitata sui modi di produzione e consumo. L’assoluta incompatibilità tra l’ideologia neoliberista e l’immagine del pianeta e del suo futuro restituita dalla scienza più recente costituisce un fatto nuovo nello svolgimento della modernità. E infatti il turbamento è palpabile: nessuno più osa parlare irridendo ai nostalgici del ritorno al tempo delle candele, ma semmai prende piede l’affannoso e mistico suggerimento di applicare le tecnologie più avanzate (quali?) per procrastinare l’impiego di petrolio, carbone e gas e di mascherarne gli effetti, al fine di sostenere la cosiddetta “rivoluzione industriale 4.0”, in cui robot, intelligenza artificiale e energia a basso prezzo – anche se sporca – dovrebbero risparmiare manodopera e rinnovare una crescita economica fruibile da quote ristrette di abitanti, al riparo dai mutamenti catastrofici. Quindi, niente candele, ma enormi cucine e centrali a gas, navi per container a petrolio e fornaci a carbone sì.
In questa direzione si è concretizzata la risposta che il Club di Davos a gennaio ha contrapposto all’analisi dell’IPCC resa pubblica a dicembre e, almeno formalmente, accettata dai Governi presenti alla Cop 21.
Perché le indicazioni uscite dall’evento nella località svizzera sono emblematiche di quanto il mondo sia politicamente e economicamente lontano dal prendere atto del cambiamento necessario? L’analisi dell’Enciclica Laudato Sì afferma che nella disuguaglianza sociale affondano le radici della crisi ambientale. E dove, meglio che al Club di Davos, si chiude il cerchio tra disuguaglianza e clima, dato che proprio lì si danno rappresentanza 62 persone (nel 2010 erano 388, nel 2014 si erano già ridotte a 80, con un trend di concentrazione impressionante) che possiedono più della ricchezza di 3,6 miliardi di cittadini del mondo (la metà degli abitanti del pianeta)?
Questi decisori, incomparabilmente capaci di accentrare ricchezza, scambiandosi i loro biglietti da visita assistiti da apparati statali, economici e mediatici del massimo livello, puntano a tenere le redini della civiltà della globalizzazione e, quindi, a contrastare anche le già controverse indicazioni della Cop 21 sul clima, continuando a puntare su investimenti in nuovi gasdotti, trivelle in mari cristallini e pozzi di perforazione per gas di scisto in terreni ormai traforati come un gruviera. Profitti e ricchezze crescono in un’ipotesi di futuro prossimo da mantenere e di un futuro remoto da esorcizzare, dislocando ulteriore potere nelle mani di quell’1% assistito dal compiacimento degli accoliti di vario grado del neoliberismo. Non deve quindi stupire se il nostro Renzi, incantato dai twitter, dai CEO, come da tutte le rivoluzioni a 2.0, 3.0, 4.0 e così via, dopo una celebrazione di prammatica dell’intesa di Parigi, si sia subitamente adattato, rilanciando la trivellazione dei nostri mari e piazzando il 17 Aprile lo sgradito referendum NO-TRIV, anche al costo di 360 milioni di euro che usciranno di tasca nostra per il mancato accorpamento con le elezioni amministrative.
Il cambio di direzione richiesto dalla decarbonizzazione comporta una straordinaria visione della riconversione, con capacità di programmazione e di politica industriale che connettono locale e globale e uno spiegamento di risorse per la pace oggi tenute volutamente fuori gioco. Si pensi solo alle armi e agli eserciti che girano per il mondo e che non potrebbero certo fare a meno del petrolio. Sistemi d’arma e apparati bellici continuamente allertati e impiegati e che consumano complessivamente come la somma di 180 Paesi del pianeta, dal cui conteggio sono fuori solo 5 grandi consumatori: USA, Cina, UE, Russia e Giappone. (il Pentagono da solo, considerato come un Paese, risulterebbe il trentaseiesimo emettitore di CO2!).
Una prima vittoria i grandi consumatori l’hanno ottenuta quando hanno ottenuto che la linea di fondo prevalente optasse per l’adattamento agli effetti negativi dei cambiamenti climatici, lasciando sullo sfondo le misure indispensabili subito per invertire l’effetto sul clima di un sistema a cui si lascia tempo per infrangere perfino l’equilibrio metastabile a cui è pervenuto, non mettendo a repentaglio né la fine dei fossili, né la tipologia e la struttura corrente della produzione alimentare.
So di esprimere un giudizio non venato da ottimismo: ma senza una spinta da parte di forze popolari e movimenti organizzati, e senza decisioni pratiche, vincolanti e conseguenti la svolta culturale – che pure si è registrata alla Cop21, com’era d’altra parte prorotta da Rio 92 – fornirà l’alibi per non intaccare l’essenza del capitalismo neoliberista e per farci ricadere nell’ennesima prospettiva caritativa con cui si eludono giustizia climatica e sociale insieme.
Prima di entrare nell’esame più particolareggiato dei paragrafi in cui è strutturato l’accordo del 15 dicembre, riassumo sinteticamente i risultati certi convenuti nei giorni seguenti ai terribili attentati del Bataclan: un aumento della temperatura media della superficie terrestre da 3 °C a 3.5 °C rispetto ai tempi pre-industriali; l’annullamento delle responsabilità delle emissioni accumulate fino ad oggi; la promozione del commercio mondiale dei crediti di carbonio e il respingimento delle sanzioni di ingiustizia intergenerazionale. Attorno a questi perni rigidi si aprono varchi accennati con timidezza, senza cogenza né esigibilità sanzionabile, che a mio giudizio non saranno percorsi dai governi (a parte forse la sola Cina), ma potranno essere forzati da una mobilitazione informata e cosciente, che non rimane inerte e in attesa delle prossime Cop rinunciando all’organizzazione di lotte mirate. Occorre prendere atto che allo stato attuale e per un un tempo indeterminato una minoranza della popolazione mondiale si sta ancora appropriando del più vitale dei beni comuni: la capacità dell’atmosfera di trattenere gas serra.
Il preambolo è una componente dichiarativa, priva di valore giuridico, un elenco delle azioni da intraprendere, un auspicio per realizzare “principi di equità e di responsabilità comuni ma differenziate in base alle rispettive capacità, alla luce delle diverse situazioni nazionali”. Si raccolgono principalmente preoccupazioni identificate dai Paesi in via di sviluppo e dai movimenti sociali in anni di negoziati e poi in gran parte lasciate da parte nel testo finale: “Le parti dovrebbero rispettare, promuovere e tener conto dei loro rispettivi obblighi in materia di diritti umani, il diritto alla salute, i diritti dei popoli indigeni, le comunità locali, i migranti, i bambini, le persone con disabilità e le persone in situazioni vulnerabili e il diritto allo sviluppo e l’uguaglianza di genere, la crescita delle donne e l’equità intergenerazionale”.
Un team specializzato di avvocati e contrattualisti dei paesi industrializzati ha fatto pressione in sede di estensione dell’accordo perché entrassero clausole conformi a dilazionare i tempi. Parole chiave sono state attentamente selezionate per proteggere interessi settoriali e nel caso del virgolettato di sopra le delegazioni degli Stati Uniti, Unione Europea, Giappone e Canada hanno ottenuto di trasformare l’originale “devono” nella sua forma condizionale, con una componente dichiarativa priva di valore giuridico. Nella stessa stesura finale ci si limita a rilevare, anziché “riconoscere” l’importanza della tutela della biodiversità “riconosciuta da alcune culture” e l’importanza “per alcuni” del concetto di giustizia climatica.
148 Paesi hanno sottoposto i loro impegni di riduzione in preparazione della Conferenza, denominati “Intended Nationally Determined Contribution” (INDC). Si tratta di “offerte” volontarie nazionali di contribuzione alla lotta ai cambiamenti climatici nelle sue diverse espressioni (mitigazione, adattamento, scambi tecnologici, finanza). Una copertura tra l’85% ed il 90% delle emissioni globali, che va messa positivamente a confronto con quella del solo 12% dei 35 Paesi del Protocollo di Kyoto. Ma gli INDC fornite dai PVS si basano sulla richiesta di ingenti somme richieste ai Paesi più ricchi e allo stato attuale non coperte da finanziamento.
Viene ribadito il mantenimento dell’impegno a mantenere l’aumento della temperatura media dell’atmosfera entro 1,5 °C per la fine del secolo rispetto al valore relativo pre-industriale. Ma, a differenza dell’IPCC (che vede finalmente e con soddisfazione accolto l’obiettivo spesso negato) non viene definita né la strategia né il percorso per garantirne la realizzazione. Nel caso in cui le forme volontarie di cooperazione (INDC) fossero soddisfatte, l’umanità sarebbe incanalata verso un aumento tra 3 °C e 3,5 °C. La possibilità di evitare un aumento della temperatura sopra 1,5 ° C si riduce ulteriormente quando si prende in considerazione il fatto che l’accordo entra in vigore solo nel 2020 e che la maggior parte degli impegni volontari registrerebbe possibili riduzioni delle emissioni a partire dal 2025/2030. Oltre al resto i paesi industrializzati, il cui sviluppo è stato basato sull’accumulo di gas serra nell’atmosfera, non devono adottare obiettivi di riduzione assoluta delle emissioni future di tutte le loro economie: tale richiesta era sopravvissuta a più di 20 anni di negoziati ed è il principio fondamentale su cui si basa il protocollo di Kyoto, ma anche questa volta si è ricorsi al condizionale “dovrebbero”
L’obiettivo principale della decarbonizzazione dell’economia, così duramente discusso nelle riunioni preparatorie e sottolineato come priorità dall’IPCC, è stato ridotto a un vago riferimento a “le parti intendono realizzare che le emissioni raggiungano un picco al più presto possibile” per poi “rapidamente ridurre le emissioni” al fine di “raggiungere un equilibrio tra emissioni antropiche dalle fonti e dall’assorbimento dei pozzi nella seconda metà del secolo …” Il picco di emissione può essere di qualsiasi grandezza, con un periodo di tempo indefinito perché si realizzi, mentre la portata del saldo tra emissioni e livelli potrebbe essere esteso fino alla fine del secolo.
Non si menziona neanche una volta che i combustibili fossili abbiano termine. Ce se ne fa una ragione quando si considera che, secondo un’analisi congiunta dell’Istituto per lo Sviluppo Internazionale e dell’ODI, solo i paesi del G20, le prime 20 economie, canalizzano ogni anno 450 miliardi di dollari di fondi pubblici sotto forma di sussidi alle compagnie petrolifere. Durante la legislatura 2013-2014, le compagnie petrolifere USA hanno contribuito con 326 milioni di dollari ai membri del Congresso degli Stati Uniti per finanziare le loro campagne elettorali e per influenzarne le decisioni. Tra i favori ricevuti in cambio per lo stesso periodo, il Congresso ha fornito sussidi alle compagnie petrolifere per 34 miliardi di dollari. Naturalmente sono state confermate le esenzioni ormai consolidate: l’accordo esclude le emissioni generate dalla attività militare come l’aviazione e il trasporto marittimo, privilegiando soprattutto gli interessi strategici e commerciali dei paesi industrializzati.
Le trattative sul riscaldamento globale hanno rimandato nel tempo l’impegno dei paesi industrializzati a fornire 100 miliardi di $ ai PVS, in cui vi è l’80% dell’umanità, per sostenere il loro contributo agli obiettivi dell’accordo. Eppure, secondo il SIPRI la spesa militare globale è superiore a 1.700 miliardi $ ogni anno. Solo gli Stati Uniti superano i 650 miliardi e l’Europa i 450 miliardi. Nel suo discorso a Parigi, John Kerry è stato particolarmente generoso nel raddoppiare l’eventuale contributo degli Stati Uniti al Fondo verde per il clima, da 400 a 800 milioni! L’impegno a 100 miliardi non è stato confermato. E’ rimasto solo l’enunciato che “i paesi sviluppati dovrebbero fornire risorse finanziarie alle parti che sono paesi in via di sviluppo ” …” Nel 2025 una nuova configurazione di contributo collettivo dovrà essere di almeno 100 miliardi di dollari l’anno, tenendo conto delle esigenze e delle priorità da stabilire per i paesi in via di sviluppo “. I PVS hanno sottolineato che i paesi sviluppati tendono a spostare la loro cooperazione finanziaria e tecnica alla mitigazione del riscaldamento globale, minimizzando gli investimenti necessari per adattarsi e proteggersi dagli impatti di un cambiamento negativo del clima. Le misure di mitigazione tendono a beneficiare entrambi i gruppi di paesi, mentre solo l’adattamento va principalmente a beneficio dei paesi che ottengono la cooperazione..
Vengono sostenuti e rafforzati i meccanismi di commercializzazione delle emissioni legate al clima (ETS). Le parti, infatti, non si impegnano necessariamente a ridurre le loro emissioni con misure interne, si sforzano di adottare “misure” in questo senso. Mentre i contributi sono determinati a livello nazionale, le misure di mitigazione non devono necessariamente esserlo, aprendo così la possibilità di misure di mitigazione adottate a compensazione in altri paesi, prendendo in considerazione anche “la copertura di spese amministrative per aiutare le Parti che sono in via di sviluppo”
Il principio della responsabilità comune ma differenziata, una componente chiave dell’accordo quadro sui cambiamenti climatici di Rio del 1992, fa riferimento alla necessità per ogni paese di assumersi la responsabilità sia proporzionale al proprio contributo al riscaldamento globale che alle proprie capacità tecnologiche ed economiche. Il contributo di ogni “parte” alla minaccia del riscaldamento globale non dovrebbe essere proporzionale alle sue emissioni annue attuali, ma all’accumulato almeno per le emissioni a partire dal 1900. Ciò vale in particolare nel caso delle emissioni di CO2, perché il loro potenziale di riscaldamento rimane attivo per secoli.
La conversione obbligatoria delle infrastrutture energetiche nei paesi in via di sviluppo per evitare inquinamento e per l’energia rinnovabile, senza un accordo vincolante sul trasferimento di risorse finanziarie e tecnologiche, tende ad approfondire sia la dipendenza economica e tecnologica che rafforzare l’ordine economico internazionale imposto dopo la seconda guerra mondiale. Il superamento di questa situazione dipende soprattutto dal riconoscimento del debito climatico accumulato fino ad oggi. Sulla base di questo principio fondamentale, è evidente che i paesi industrializzati rappresentano la maggior parte della responsabilità delle emissioni accumulate finora. Dei 2.145 milioni di tonnellate di CO2 emessa in atmosfera tra il 1900 e il 2014, il 72% corrisponde ai paesi industrializzati. La responsabilità differenziata è ancora maggiore se si tiene conto sia del potenziale economico e tecnologico che del fatto che la loro popolazione rappresenta solo il 18% della popolazione mondiale. Tuttavia, l’accordo di Parigi ignora tali responsabilità e gli impegni, presentati nel quadro della conferenza, sono solo volontari, non vincolanti. Pertanto, gli obblighi economici e tecnologici accumulati dai paesi industrializzati per presentare la riparazione alle emissioni sono diluiti e non esigibili. Infatti si recita: “Si è convenuto che l’articolo 8 dell’accordo, che si riferisce alle perdite e danni relativi agli impatti dei cambiamenti climatici, non implica né comporta alcuna forma di responsabilità giuridica o compensazione”.
In quanto alle foreste, si fa riferimento a “l’importanza di mantenere e aumentare, a seconda dei casi, pozzi e serbatoi di gas ad effetto serra”. Qui ci si riferisce non solo alle foreste come pozzi e serbatoi di gas ad effetto serra, ma come strumenti per la generazione di crediti di carbonio nei paesi in via di sviluppo.
Gli oceani sono i dimenticati di questa convenzione globale. Attori e vittime del cambiamento climatico, che tuttavia svolgono un ruolo chiave nella regolazione del riscaldamento globale. La massa di acqua salata che copre più di due terzi del pianeta funziona come un clima inclusivo che limita la portata del cambiamento climatico sia perché assorbe sostanzialmente tutto il calore che si accumula nell’atmosfera, che il 28% delle emissioni di anidride carbonica prodotte dalle attività umane.
L’agricoltura ha ricevuto solo la più superficiale delle menzioni alla Cop21. Ci sarebbe da riflettere sulla incomunicabilità che si è creata tra i due eventi del 2015 più propagandati e rapidamente rimossi: Expo di Milano (vetrina dell’alimentazione) e Cop21 di Parigi (compromesso intergovernativo sul clima). Evidentemente, lo sforzo di riflessione dei movimenti viene vieppiù emarginato ed è scomparso anch’esso dai radar…
COSA SUCCEDE IN EUROPA DOPO PARIGI
Che l’andamento per le fonti fossili non sia entusiasmante, lo si può vedere anche dal trend di declino di carbone, nucleare e gas in Europa, se si guarda alle centrali andate in pensione: nel 2015 si sono fermati o dismessi impianti a carbone per oltre 8 GW, a gas per 4,2 GW, a olio combustibile per 3,3 GW e da fonte nucleare per 1,8 GW.
Il nostro Governo, che fa di prammatica la voce grossa a Bruxelles, sulle questioni energetiche va invece completamente a ruota delle lobby continentali che premono su una Commissione ormai smarrita, anche sulla questione climatica. Tutto sembra nascere e decidersi in luoghi ristretti di cui le popolazioni non sono informate.
La Commissione Europea ha varato un piano di importazione di gas naturale liquefatto (GNL) e tutti hanno pensato alla imprevista disponibilità di creare infrastrutture per importare gas da fracking USA, al fine di ridurre la dipendenza dalla Russia. Anche se l’accordo di Parigi era stato salutato come un chiaro segnale al mercato che l’era dei combustibili fossili inquinanti era finita, è la politica che si è messa a rilanciare! Eppure il gas naturale – da fracking in particolare – è anche in gran parte composto di metano, un gas serra che ha 86 volte il potenziale di riscaldamento globale del biossido di carbonio. La produzione di energia elettrica a gas è solo un bene per il clima rispetto alla produzione da carbone, se eventuali perdite di metano nella produzione, raffinazione e trasmissione, è inferiore al 3,2%. Ma i rilevamenti dei tassi di emissione via satellite hanno recentemente dimostrato che le concentrazioni di metano sono aumentate drasticamente in molte delle principali regioni produttrici di shale gas negli Stati Uniti. Tenuto poi conto che il trasporto avverrebbe via nave, il bilancio delle emissioni diventa insostenibile secondo l’accordo di Parigi.
Infine, va ricordato come un rilancio o un ricondizionamento delle centrali nucleari in Europa sia reso improbabile dai costi e dai rischi. Molti a Davos hanno cercato di rilanciare una produzione “pulita da emissioni climalteranti” come nel caso del ciclo dell’uranio. Tuttavia, un documento della Commissione ancora non pubblicato, ma reso noto da Reuters, rivela che l’Europa è in deficit di 118 miliardi di euro per lo smantellamento delle sue centrali nucleari e la gestione dello stoccaggio delle scorie. Infatti, la stima prevista per l’intera operazione è di 268,3 miliardi di € a fronte di riserve nei Paesi per 150,1 miliardi di €. Solo la Germania ha accantonamenti sufficienti, mentre la Francia ha un deficit di 51 miliardi. Quindi, tempi duri, se non impraticabili, per il rilancio dell’atomo in Europa!
La sospensione del programma nucleare in Italia a seguito del referendum risulta oggi una autentica benedizione per una economia in crisi come la nostra.
Ragione in più perché i cittadini non stiano a guardare ma, di fronte a governanti così imprevidenti e senza bussola, vadano davvero tutti a votare il 17 Aprile, a dispetto degli inciampi e della disinformazione che vorrebbero frapporre tra casa nostra e le urne.
DUE INDICAZIONI: CARBON TAX E LOTTA ALLA POVERTA’
Un notevole gruppo di 32 personalità, guidato da Stiglitz e altri tre premi Nobel per l’economia o la fisica, chiede l’introduzione effettiva di tasse per le emissioni di carbonio, sia per coprire i costi ambientali e sociali che sono ora trasferiti alla società, che per ridurre le emissioni e investire in sistemi energetici senza emissioni di carbonio. Una politica di questo tipo offrirebbe le migliori possibilità di combattere il riscaldamento globale ad un minimo di sforzo.
Vengono suggeriti quattro principi per combattere il riscaldamento globale senza compromettere la prosperità economica: le imposte sulle emissioni di carbonio su tutti i combustibili fossili devono essere applicate in proporzione al loro contenuto di carbonio ed a monte nella catena di distribuzione; le tasse devono essere basse nelle prime fasi del processo per permettere sia agli individui e alle istituzioni di adattarsi, poi vanno innalzate in modo sostanziale e rapidamente lungo un percorso predeterminato per stabilizzare le aspettative di investitori, consumatori e governi; parte del ricavato dovrebbe contribuire ad alleviare l’onere per le famiglie a basso reddito; vanno eliminati i sussidi che ora premiano l’estrazione e l’utilizzo di fonti di energia ad alta intensità di carbonio. Questo singolo cambio di politica fiscale, utilizzerebbe i prezzi all’interno dei mercati esistenti per spostare gli investimenti e il comportamento in tutti i settori merceologici e industriali.
Gli obiettivi di sviluppo sostenibile (OSS), che sono stati approvati da più di 160 leader di tutto il mondo nel mese di settembre 2014, comprendono lo sradicamento della fame e della povertà entro il 2030. Tuttavia, l’impatto devastante che i cambiamenti climatici avranno sulle persone più povere del mondo potrebbero vanificare gli obiettivi più ambiziosi, giacché gli impatti delle colture al diminuire delle precipitazioni, l’impennata dei prezzi dei prodotti alimentari a seguito di eventi meteorologici estremi, e una maggiore incidenza di malattie dopo ondate di calore e inondazioni porterebbero a cifre fino a 100 milioni l’aumento dell’indigenza. Secondo un rapporto della BMI, le persone più povere hanno più probabilità rispetto alla media di subire eventi meteorologici estremi e di perdere gran parte del loro patrimonio quando si verificano.
In definitiva “è impossibile porre fine alla povertà, se non prendiamo una forte iniziativa per ridurre la minaccia del cambiamento climatico” ha affermato il presidente della Banca Mondiale Jim Yong Kim.
Se si garantiscono i servizi di base, tra cui acqua potabile e servizi igienici, si aiutano le comunità a recuperare più rapidamente, ma i governi nazionali hanno bisogno di più supporto nella progettazione e nella realizzazione di progetti per contribuire a sradicare la povertà che, a sua volta, genera la resilienza delle comunità ai cambiamenti climatici. Perciò il finanziamento ancora aleatorio dopo la Cop21 deve trovare rapidamente una praticabile realizzazione.
Criticare l’accordo non significa certo non apprezzarne quegli avanzamenti – più sul piano della narrazione che delle decisioni – che torneranno utili per definire il contesto in cui avviare rivendicazioni e reclamare applicazioni. Contro una ipotesi di andare oltre Parigi e di far riprendere protagonismo ai popoli sono state attivate campagne di negazione e di disinformazione guidate da persone di destra, dai media e dai difensori del sistema, tra cui anche gli scienziati al servizio delle compagnie petrolifere che nel nostro Paese hanno un ascolto e una amplificazione particolare. Sono i sostenitori del trionfo del gas naturale in una lunga fase di transizione in cui il sistema energetico rimarrà sostanzialmente lontano dalle trasformazioni che minano il suo accentramento, la sua finanziarizzazione, il suo intreccio con gli attuali equilibri geopolitici. L’accordo raggiunto il 15 Dicembre non dà loro esplicitamente torto, ma tiene aperta una partita in cui tocca ai cittadini, ai movimenti, al mondo scientifico e – se ci fosse – alla sinistra infilarsi nel cuneo che irreversibilmente si va allargando.
E’ toccato al papa criticare il desiderio di ricchezza e sfruttamento insiti nel modello economico dominante, che ha trasformato il mondo in una montagna di spazzatura e a osservare che il pianeta è esaurito, che le risorse finanziarie corrispondono ad un sequestro e che il problema della povertà non è stato risolto.
Naomi Klein sostiene che il cuore del problema si trova nel fatto che “il dominio della logica del mercato sulla vita pubblica vieta politicamente le risposte più dirette ed evidenti al problema della crisi climatica” e che la società non è in grado di investire massicciamente in basse emissioni di carbonio dei servizi pubblici e delle infrastrutture se allo stesso tempo la sfera pubblica è all’asta e viene smantellata. Che dire, ad esempio, della svendita di tutte le municipalizzate dei nostri comuni lombardi e emiliani proprio sotto la responsabilità dei sindaci di centrosinistra (a cominciare dal disattento Pisapia) e con la regia di Renzi?
I movimenti contro la crisi climatica in tutto il mondo sono apparentemente al punto di raggiungere una massa critica necessaria, almeno, per superare la forza delle corporation dei combustibili fossili. Rappresentano ormai una ondata globale che agisce localmente allestendo e formando gruppi e organizzazioni disposti a unirsi in contatto sinergico e duraturo.
Da più parti si incomincia a concepire il dramma e l’occasione del cambiamento climatico come un potente catalizzatore di un massiccio movimento globale che protegge le persone dal caos sociale e ambientale costruito in un’epoca con un presente continuo e un futuro impossibile. Il capitalismo è stato sviluppato quando il pianeta e la sua aria, i suoi fiumi, i suoi oceani e continenti, le sue risorse, apparivano infinite. Non si aveva percezione della terra come un organismo formidabile, ma finito, che con il suo delicato equilibrio sostiene la vita e non ci si preoccupava di meccanismi integrati per proteggere gli interessi delle generazioni presenti e future e il loro diritto ad un ambiente sano in cui riprodursi.
Il problema continua ad essere quello di uscire da un approccio monotematico, di ritrovare tutti i nessi tra questione sociale e ambientale e di dar vita a movimenti di massa in grado di affrontare e battere i difensori dello status quo, soprattutto dopo un’uscita straordinaria come quella di papa Francesco e qualche spiraglio tra le ombre della Conferenza di Parigi. Il cambiamento climatico, invece di diventare un altro caso di “dottrina dello shock”, in cui le crisi sono convertite in ristrutturazioni capitalistiche contro il popolo, può essere lo shock che viene dal popolo, come un colpo da sotto per condividere il potere con molte mani, e radicalmente aumentare il bene comune e pubblico.