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Il governo della grande trivella

di Mario Agostinelli – Il Manifesto 6 ottobre 2012
I cinque punti del “piano Passera” per rigassifigatori e nuovi metanodotti, con una governance centralizzata. Un ritorno al passato che seppellisce le energie rinnovabili

 

Con l’indispensabile premessa di una totale espropriazione della partecipazione popolare a discapito della stessa Costituzione, una conturbante bozza della «nuova» strategia energetica nazionale ha visto la luce a fine Agosto: 100 pagine fitte fitte, che prossimamente verranno sottoposte – si afferma – ad una pubblica consultazione, per cui l’informazione compiacente ha già anticipato mirabolanti effetti . Né più né meno che un ritorno al passato, mascherato con la retorica riproposizione di obiettivi tanto condivisibili quanto vaghi e senza l’onere della verifica – diminuzione del costo del Kwh; riduzione della dipendenza dall’estero; crescita sostenibile; raggiungimento degli obiettivi europei, incremento dell’occupazione. Una retorica supportata dalla complicità della grande stampa e dagli interessi bipartisan presenti in Parlamento. (Basterebbe rileggere le rivelazioni di Wikileaks sulle Banche nazionali, su Enel ed Eni in combutta con Berlusconi ai banchetti dove si tracciavano le reti fossili da Oriente ad Occidente). Proviamo allora a guardare dentro il documento presentato da Passera e a fare qualche conto per sfatare per punti e sullo stesso terreno dei proponenti una propaganda tanto grossolana quanto insidiosa.

1) La promozione dell’Efficienza Energetica rivela buoni propositi: di concreto però c’è soltanto la proposta di estendere nel tempo le detrazioni fiscali del 55%, differenziando la percentuale di spesa detraibile e/o la durata del rimborso in relazione all’effettivo beneficio dell’intervento. Introducendo in più tetti di costo per tipo di intervento ed escludendo dalla detrazione gli impianti già incentivati con altri strumenti.

2) L’autentica priorità è quella di fare del nostro Paese un hub del gas: nel concreto si tratta di costruire rigassificatori e nuovi metanodotti, si dice, per aumentare la sicurezza e la concorrenza e al fine di abbassare i prezzi. Da anni ciclicamente si torna a parlare del nostro paese come di un possibile centro di arrivo e smistamento di gas per l’Europa. Il ministro attuale rispolvera dunque un progetto caro ai suoi predecessori (Bersani) e condiviso anche dall’allora ministro delle infrastrutture, Antonio di Pietro, che nel 2006 parlava della necessità di costruire 11 rigassificatori. Il termine «hub del gas» non rappresenta affatto una formula in grado di abbassare il costo del gas che consumiamo: il discorso è esente da certezze e i rigassificatori non sono impianti pronti a ricevere gas liquefatto (Gnl) bypassando i metanodotti, ovviamente a prezzi concorrenziali. E’ un’illusione pensare che attraverso i rigassificatori ci si rivolga solo al mercato spot (quello alimentato in borsa dal trasporto su nave) senza avere alle spalle contratti di fornitura a lungo termine (quelli siglati con i Paesi grandi produttori che spediscono «via tubo»). Tant’è che nel mondo nel 2011, su una capacità di liquefazione pari a circa 270 milioni di tonnellate, ne sono state contrattate 240 milioni e di queste solo 26,6 sul mercato spot, mentre il resto è stato fornito con contratti a lungo o breve termine. Di fatto, il mercato è talmente instabile che in questi ultimi mesi del 2012 sono intervenuti mutamenti che rischiano di bruciare le ambizioni del governo. A segnalarlo sono proprio le imprese che seguono la bussola della redditività degli investimenti; è di un mese fa la notizia dell’abbandono di Erg del progetto del rigassificatore di Priolo; in ritardo è quello della Olt di Livorno (che doveva già essere pronto); idem per Falconara Marittima; silenzio per Gioia Tauro, mentre l’Enel pare ben poco stimolata ad accelerare su Porto Empedocle. In effetti, nessuno dei grandi produttori di Gnl pensa all’Italia come hub del gas, perché comanda il prezzo e il prezzo dice Asia, non Europa. Quindi, di certo, l’idea non abbasserà il prezzo del gas: in compenso darà la stura a grandi opere e all’introduzione delle cosiddette «essential facilities», infrastrutture da costruire con «garanzia di ricavi» e «iter autorizzativi accelerati». Il che significa che i nuovi impianti saranno costruiti grazie a incentivi che graveranno sulle bollette di tutti.

3) Si capisce allora perché scompaiono i sostegni alle rinnovabili, l’unico settore per cui nella bozza Passera lo sviluppo è previsto compatibilmente con la sostenibilità economica. In realtà, questo governo non considera queste fonti una scelta strategica. Basta notare che si richiamano i due recenti decreti ministeriali, che però sono stati redatti per contenere la spesa e non per raggiungere obiettivi sfidanti. Per le rinnovabili termiche, poi, si parla del fatidico conto energia termico che si attende da un anno e per i trasporti si punta sui biocarburanti di seconda generazione – il prezzo e il consumo del suolo sono sempre in agguato! – verso i quali si sposterebbero gli incentivi tolti al fotovoltaico.

4) Ed eccoci, come corollario obbligato, al rilancio della produzione nazionale di idrocarburi (!), tramite cui, così recita il documento, «è possibile raddoppiare l’attuale produzione, con importanti implicazioni in termini di investimenti, occupazione, riduzione della bolletta energetica ed incremento delle entrate fiscali». Che dire? Già altri hanno sottolineato i problemi ambientali: lasciamo perciò parlare i numeri: nel 2011 in Italia sono stati estratti circa 5,3 milioni di tonnellate di greggio (per la precisione 5.286.041 t.). Il consumo di petrolio è stato invece di 71,2 milioni di tonnellate. Le riserve certe ammontano a 76 milioni di t, quindi poco più del nostro consumo in un anno. Dove sta quindi la «rivoluzione petrolifera» del nostro sistema energetico se si raddoppiasse l’estrazione locale, così poco rilevante per il mix delle fonti, ma così densa di effetti devastanti per l’ambiente?

5) L’ultima priorità annunciata è quella della «modernizzazione del sistema di governance» (concetto ormai magico quanto quello associato allo spread), in cui si propone quanto da tempo richiesto da Confindustria: modificare la Costituzione per far tornare l’energia argomento di competenza dello Stato e non più materia concorrente fra Stato e Regioni. La motivazione è ovvia: accelerare gli iter autorizzativi per i grandi impianti. Verrebbe così ricentralizzata la programmazione energetica nelle mani dei ministeri competenti, al fine di ridurre le autonomie locali sia nelle fasi di programmazione, che di intervento nelle procedure di valutazione ambientale delle infrastrutture energetiche. Bisogna cogliere la filosofia generale di questo assunto: la nuova strategia energetica nazionale individua nell’accentramento il sistema di governance migliore per depotenziare la diffusione delle rinnovabili e salvaguardare il tradizionale oligopolio legato alle fonti convenzionali. Ai territori spetta soltanto un potere consultivo, in modo tale che non intralcino con le proprie autonomie lo sviluppo delle grandi infrastrutture energetiche. A vantaggio, ovviamente, di Eni, Edison, Enel, Snam e delle banche che hanno finanziato le grandi reti trans europee e trans mediterranee, minacciate dalla programmazione territoriale, dal ricorso alle fonti naturali, dalla riduzione degli sprechi, dall’attenzione sempre più consapevole alla questione climatica. Ma se un futuro promettente viene per legge convertito in un torvo ritorno al passato, perché non prendere in considerazione la proposta di un referendum contro il piano del governo Monti avanzata su queste pagine da Nicola Cipolla?

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Ilva, Alcoa, Sulcis e l’energia fossile di Passera

di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano online – 2 ottobre 2012

 

Ilva, Alcoa e Sulcis rimbalzano cupe nelle manifestazioni di piazza, mostrando a dito l’impotenza dei banchieri, dei professori al governo, dei maghi dello spread quando si tratta di affrontare la crisi dal lato delle persone in carne ed ossa. Dietro questi tre simboli del declino di un modello di sviluppo, c’è innanzitutto il dramma del lavoro e della salute. Un nodo intricato che si scioglierebbe, secondo dichiarazioni stampa di ministri e imprenditori, con la riduzione dei costi dell’energia e con una maggiore offerta di fonti fossili a buon mercato. Prendo in considerazione quest’ultimo aspetto, significativo dell’informazione distorta e dell’insensatezza della politica industriale ed energetica dell’attuale governo.

A fine agosto ha visto la luce una bozza della “nuova” strategia energetica nazionale. Un irritante ritorno al passato (gas, petrolio e “carbone pulito”) già anticipato dalle rivelazioni di Wikileaks sulla presenza delle maggiori banche nazionali, di Enel ed ENI ai banchetti russi e turchi. Lì infatti, si stava tracciando il potenziamento delle reti di fonti fossili da Oriente a Occidente. Si tratta di un piano vetusto, mascherato dalla retorica della diminuzione del costo del Kwh, della minore dipendenza dall’estero, dell’incremento dell’occupazione. Niente di più improbabile.

L’idea di fondo è quella di cercare petrolio in casa e di costruire rigassificatori e nuovi metanodotti, al fine – si scrive – di abbassare i prezzi. Ma perforare i nostri fondali corrisponde ad avere un numero irrilevante di barili ad alto costo, mentre fare dell’Italia un “hub del gas” non rappresenta affatto una formula in grado di abbassare il costo del gas che consumiamo. È un’illusione pensare che attraverso i rigassificatori ci si rivolga solo al mercato spot (quello alimentato in borsa dal trasporto su nave) senza avere alle spalle contratti di fornitura a lungo termine (quelli siglati con i Paesi grandi produttori che spediscono “via tubo”).

La proposta quindi non abbasserà il prezzo del gas. In compenso, darà il via a grandi opere e all’introduzione delle cosiddette “essential facilities”, infrastrutture da costruire con “garanzia di ricavi” e “iter autorizzativi accelerati”. Il che significa che i nuovi impianti saranno costruiti grazie a incentivi che graveranno sulle bollette di tutti.

Esattamente quanto è già successo per “invitare” Alcoa in Sardegna. Alcoa è una multinazionale statunitense, leader mondiale nella produzione di alluminio, che sbarca in Italia acquisendo nel 1966 dallo Stato la società ALUMIX (gruppo EFIM). Fino al 2009 la società acquistava energia elettrica a prezzi scontati e per evitare le sanzioni Ue il Governo italiano aveva emanato un decreto legge contenente nuove norme che permettessero all’Alcoa di continuare a rifornirsi di energia elettrica a prezzi scontati. Scontati di quanto? Beh a 30 euro al MWh rispetto ai circa 70 di mercato. Tanto per avere un riferimento, noi consumatori finali in bolletta paghiamo 90 euro al MWh. La differenza fra i 30 euro e il prezzo di mercato viene “ovviamente” coperta da tutte le bollette.

Ora si cerca un nuovo acquirente che garantisca i 702 posti di lavoro. Prima della rottura della trattativa, solo qualche giorno fa, la più gettonata era la svizzera Glencore, multinazionale specializzata in materie prime, dotata di magazzini e di flotte navali. Glencore è il numero uno nel trading di carbone. Esperta in fonti fossili, per fare l’accordo chiede la stessa cosa per cui Alcoa se n’è andata: energia elettrica a basso prezzo, che il governo si è affrettato ad assicurare. Ecco una politica energetica avventurosa, basata sul rilancio dei fossili dal costo imprevedibile.

Anche lo stabilimento Ilva di Taranto, come Alcoa, subisce un passaggio dallo Stato ad una multinazionale privata. Ed anche per esso si parte con uno sconto energetico. Lo stabilimento per tubi saldati di grande diametro, nasce come oggetto di un accordo riservato tra Urss, Eni e Finsider: greggio a basso prezzo dall’Unione sovietica in cambio di tubi saldati. Esaurito col tempo l’accordo sull’energia, si è fatto avanti un tacito accordo sulle emissioni, che Riva, il proprietario attuale, ha rigorosamente reclamato, producendo inquinanti e tralasciando il costo dell’effettivo e necessario risanamento. Lavoro, in questo caso, al prezzo della salute.

Infine il Sulcis. Il passaggio di proprietà in questo caso è anomalo: dall’Eni alla Regione sarda. Con un unico cliente (obbligato), l’Enel, che utilizza la miniera prevalentemente come discarica, mentre estrae un carbone di scarsa qualità. Non per beneficenza, ma per supportare un mix di combustibile solido che tenga aperte le porte alla chimera del “carbone pulito”, producendo nel frattempo quasi alla chetichella grandi quantità di inquinanti.  In questo quadro risulta davvero sbagliata la proposta di investire per creare nella miniera un impianto di cattura e sequestro della CO2. Ha senso investire un miliardo e mezzo di euro per continuare a bruciare carbone? È un futuro a carbone, col trucco del sequestro dei gas serra, che immaginiamo?

Si capisce allora perché scompaiano i sostegni alle rinnovabili, l’unico settore per cui nel progetto di Monti-Passera lo sviluppo è previsto compatibilmente con la sostenibilità economica. In realtà, questo Governo non considera queste fonti una scelta strategica per il settore elettrico e termico. A riprova di ciò il fatto che per i trasporti punti sui biocarburanti di seconda generazione, verso i quali si sposterebbero gli incentivi tolti al fotovoltaico.

E sulla governance l’ultima chicca: la nuova strategia energetica nazionale individua nell’accentramento il sistema migliore per depotenziare la diffusione delle rinnovabili e salvaguardare il tradizionale oligopolio legato alle fonti convenzionali. Meno democrazia e basta con la programmazione territoriale, il ricorso alle fonti naturali, la riduzione degli sprechi, visto che la questione climatica non toccherà gli over 60 che comandano. Loro si stanno svenando per governare i picchi di un tenace quanto irriducibile spread, non per una politica industriale ed energetica che porti salute e buona occupazione.

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Fotoracconto della Conferenza sulla decrescita a Venezia

Ecco alcuni dati sulla Conferenza sulla decrescita tenuta a Venezia dal 19 al 23 settembre: cinque giorni, sessantun workshops, undici activity-workshops, sei parallel forum, tre forum tematici, due assemblee delle reti dei movimenti e una serie nutrita di eventi collaterali. Mille il numero dei partecipanti presenti alle sessioni plenarie.

Un successo oltre ogni aspettativa con confronti molto aperti e rappresentanze internazionali qualificatissime. Le immagini qui fornite ci aiutano ad immetterci in un mondo che la stampa e i media trascurano colpevolmente.

 

 

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Solare Usa e Ue: la Cina è vicina

di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano online – 18 settembre 2012

In questi mesi è stata più volte sottolineata la “rivoluzione” in atto sul mercato dell’energia elettrica. In sintesi, i 13 GW (milioni di kW) di pannelli fotovoltaici installati in Italia producono dalle 9 del mattino alle 18 serali un flusso di energia elettrica sufficiente a modificare la determinazione del prezzo del kWh in borsa, cosicché oggi l’energia elettrica all’ingrosso tocca il suo massimo costo non alle ore 12, come da tradizione, ma alle 22 di sera, realizzandosi così un disaccoppiamento fra prezzi e consumi: il costo non è più massimo quando massima è la domanda. Ad esempio il prezzo delle ore 12 (ora di maggior richiesta quando di questi tempi il picco della domanda sale a 43 GW) contrattato per l’8 giugno 2012 è stato pari a 86,49 euro al MWh, mentre alle ore 22 era a 100,15 (quando la potenza richiesta in rete è intorno ai 38 GW) e 96,85 alle 24 (32 GW di richiesta – dati da Gestore Mercati Energetici).

Tutto questo contribuisce a dimostrare che c’è una nuova speranza per il cambiamento climatico: il 20% dell’energia elettrica mondiale è già prodotto da energie rinnovabili. La Cina ha investito miliardi in energia solare, il che rende questa fonte ormai a buon mercato come i combustibili fossili. Sembrerebbe insensato dal punto di vista della cooperazione ambientale, eppure la Ue e gli Usa sono intenzionati a imporre tariffe per le importazioni di pannelli solari cinesi, finendo con ostacolare questa rivoluzione energetica pulita. Lo denuncia Avaaz, che avanzerà una richiesta formale al Commissario per il commercio della Ue e la International Trade Commission degli Stati Uniti per aprire un dialogo e non ricorrere a dazi odiosi.

Pur avendo la Cina un triste primato in materia di diritti umani e ambientali, sta aprendo con le sue politiche industriali un raggio di speranza. Negli ultimi dieci anni, ha investito miliardi in energia solare e ha avviato strategie ambiziose per sovvenzionare la produzione, il che significava il crollo dei prezzi dei pannelli. Stati Uniti e Ue stanno tornando a concedere sovvenzioni pubbliche alle lobbies del petrolio e del carbone, e ora sono in procinto di aumentare il costo dell’energia solare, imponendo tariffe alla Cina. La partita è aperta: l’Occidente punta ad abbassare sul mercato il prezzo di petrolio e gas ottenuti da nuovi giacimenti di scisti bituminosi ad altissimo costo ambientale. Un prezzo fittizio reso praticabile dalla speculazione sul mercato finanziario e gravoso di debiti ambientali verso le future generazioni.

Alcuni sostengono che il basso costo dei pannelli solari cinesi mette in pericolo i posti di lavoro dei lavoratori locali, ma la maggior parte del lavoro che il settore dell’energia solare procura riguarda l’installazione e l’adattamento dei pannelli, la manutenzione e l’integrazione nelle reti intelligenti, oltre che la loro fabbricazione.

Tornare indietro, per fortuna, non è più possibile. Le fonti rinnovabili hanno mostrato una curva di apprendimento straordinaria e in alcune regioni sono già pronte a far concorrenza a quelle fossili anche senza incentivi. La concorrenza cinese non significa estromissione delle nostre tecnologie e della crescita di competenze locali: più energia “verde” significa più imprese e quindi più lavoro. Nel primo trimestre 2012 sono sorte complessivamente 120.278 imprese ma ne sono morte 146.368, quindi un saldo negativo (-0,43%). Per le imprese energetiche invece il saldo è positivo per 511 unità (+7,6%). Ed è dal 2007 che di trimestre in trimestre ciò accade. Fra il primo trimestre 2012 e quello 2011, le imprese del comparto energetico sono cresciute del 37,1% mentre il totale delle imprese italiane è calato dello 0,3%.

Lavorare a un nuovo sistema energetico non significa quindi rifluire nel protezionismo, ma creare lavoro di qualità, innovare su base territoriale, armonizzare attività umana e natura, fare ricerca per valorizzare risorse naturali che possono integrarsi, ma non essere semplicemente surrogate dalla contabilità del commercio internazionale.

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19 settembre: discussione a Milano

Dopo la decisione del Sol Levante di uscire dall’atomo: europei, non vinciamo alla maniera dei giapponesi! Preveniamo nuovi disastri più che probabili con i 197 reattori funzionanti!

Il lavoro per un network antinucleare europeo.

Mercoledi 19 settembre 2012, ore 18.00 – 20.00

Discussione presso lo Spazio Kronos – via Borsieri, 12 Milano

 

testo a cura di Alfonso Navarra, vice presidente di Energia Felice

La nuova Strategia energetica nazionale-SEN avrebbe deciso che il Giappone chiuderà con il nucleare entro 30 anni, quindi nel 2040 (all’incirca). Possiamo confessare che è un risultato che ha sorpreso molti ecopacifisti “scafati”: non ci aspettavamo tanto presto una simile vittoria del movimento antinucleare e della gente.
Ed è, vogliamo sottolinearlo, una vittoria di tutti coloro che hanno a cuore un mondo più pulito e pacifico.
Una vittoria quindi anche per gli “italiani” in quanto esseri umani in carne ed ossa; e di gran lunga più importante, proprio per noi italiani – si può ritenere – della conservazione di qualche posto di lavoro nel settore carbonifero, per la quale vengono a chiederci “solidarietà” (?).

Il nostro ringraziamento va pertanto agli attivisti giapponesi che, rintuzzando le manovre della lobby atomico-militare e difendendo le ragioni della salute e della sicurezza collettiva, hanno animato ed organizzato le grandi manifestazioni di questi mesi (vedi le massicce, ripetute, continue mobilitazioni locali, vedi i 250.000 che hanno sfilato a Tokyo nello scorso luglio). Il nostro pensiero e la nostra gratitudine vanno anche a Yukari Saito ed al centro “Semi sotto la neve” che, con l’aiuto di Angelo Baracca, ci hanno sollecitato, in Italia, a “non dimenticare Fukushima” e a seguire e sostenere la lotta del popolo giapponese per farla finita con il nucleare.

Il grande disastro di Fukushima, quello che secondo gli “esperti” alla Veronesi e ed alla Ricotti non sarebbe mai potuto accadere, ha quindi fatto “rinsavire”, dal nostro punto di vista, il terzo grande Paese, dopo Germania e Svizzera. Ma, a pensarci bene, possiamo aggiungere anche l’Italia nell’elenco, grazie al referendum del giugno 2011!

(Stiamo invece molto attenti a parlare di ripensamenti da parte della Francia: Hollande, subentrato a Sarkozy, si impegna a chiudere il “catorcio” di Fesseneheim solo nel 2017 (questa centrale solo pochi giorni fa ha subito un incidente di una certa rilevanza) e promette che il peso del nucleare si ridurrà al 50% nel 2050, rispetto al 75% previsto dal suo predecessore!)

Il Giappone è stato il Paese più tragicamente toccato dall’incidente ma anche quello, al contempo, nel quale la lobby atomica, ben rappresentata al governo, aveva dispiegato una strenua resistenza nei confronti di un’opinione pubblica giustamente sempre più arrabbiata. E’ stata molto significativa, in proposito la vicenda della contrastatissima riaccensione dei reattori di Ohi (gli unici attualmente rientrati in funzione dopo lo spegnimento degli altri 52 per verifiche sulla sicurezza).

La stampa riportava e riporta sondaggi per i quali l’80% dei giapponesi sarebbe decisamente contraria al riavvio delle centrali e quello che meraviglia è che siano così pochi dopo le notizie terrificanti che appaiono sui media locali. Ce ne riferisce, ad esempio, il quotidiano della Confindustria italiana del 15 settembre, in un articolo a firma di Marco Magrini (vedi file allegato): «Aiuti internazionali per evitare un incendio al reattore 4», recitava un titolo del Japan Times di una settimana fa. L’articolo racconta della drammatica situazione al reattore numero quattro di Fukushima, l’unico che era spento al momento dello tsunami. «Il combustibile esausto nell’unità 4 è un drago che dorme», sentenzia Arnie Gundersen, un ingegnere nucleare e attivista americano, che due settimana fa ha incontrato membri del Parlamento di Tokyo per levare l’allarme: il reattore è devastato e 1.500 barre di cesio, ricoperte di una lega di zirconio che brucia a contatto dell’aria, rischiano di causare un’esplosione. Finora, la Tepco – la disgraziata società che gestisce la centrale – ha rimosso due barre sole. Dice che comincerà a fare il resto l’anno prossimo, e finirà in tre anni. Non basta questo, a cambiare il vento dell’opinione pubblica?».

L’articolo prosegue: «Chi è favorevole al nucleare, ripete che quella resta l’energia più conveniente che c’è. Ma per favore, non ditelo ai giapponesi. Il premier Noda ha detto che il paese spenderà almeno mille miliardi di yen (10 miliardi di euro) per decontaminare 29 milioni di metri cubi di terreno. Ma quelle sono noccioline. Lo stesso governo calcola che ci vorranno quarant’anni per rammendare lo strappo di Fukushima. E, secondo Tatsuhiko Kodama del’Università di Tokyo, il costo finale si aggirerà sui 50mila miliardi di yen, 503 miliardi di euro. Mai ci fu bolletta più cara.»

Quanti morti farà Fukushima, allo stato attuale, cioè se si riuscirà ad evitare il peggio, che forse, lo ammette lo stesso Sole 24 Ore, deve ancora arrivare? Per quanto riguarda le conseguenze ambientali, citiamo quanto riportato su Wikipedia, e quindi a disposizione anche del più sprovveduto web-surfer: “La natura e pericolosità della contaminazione di Fukushima,  non può propriamente essere comparata a quella del disastro di Chernobyl per due ragioni: in primo luogo, la maggior parte della contaminazione è di natura sotterranea: per prevenire il surriscaldamento di noccioli e piscine di stoccaggio, è necessaria una continua immissione di acqua di raffreddamento che si disperde nel sottosuolo, attraverso le crepe aperte dal terremoto. La seconda differenza critica rispetto a Chernobyl è che questo fu sigillato dentro ad un sarcofago in un limitato lasso di tempo, mentre a Fukushima questa soluzione è impraticabile; la contaminazione sta procedendo ininterrottamente fin dal primo giorno, e durerà ancora per un imprecisato numero di anni, secondo certe stime, e se non avvengono crisi sistemiche nell’economia del Giappone, dai 10 ai 20 anni. E’ ancora incerto quale tipo di percorso possa seguire la massa d’acqua radioattiva attraverso le falde freatiche della regione: di certo un gran parte si riversa continuamente in mare, ed una parte si diffonde nell’entroterra. Della data del 22 agosto 2012 è la notizia che da misurazioni su pesce catturato nella regione, sono stati rilevati elevatissimi tassi di radioattività presenti nelle carni, tali da suggerire il blocco della distribuzione di pesce”.

Per quanto riguarda più specificamente la mortalità nei prossimi decenni (i cancri ci mettono il loro tempo a svilupparsi), teniamo presente che Greenpeace calcolò per Chernobyl 500.000 morti in giro per il mondo (stima esagerata? forse per niente affatto), e qui siamo di fronte a qualcosa di molto più grave, con – come si è detto – nuovi, possibili, sviluppi catastrofici.

Ma torniamo ai festeggiamenti per la vittoria. Non tutto è limpido, nelle “flessibili” dichiarazioni del premier Noda. Ma il tabù è stato finalmente infranto: sarà pure elettoralismo, sarà pure un calendario “a passo di lumaca”, ma il governo giapponese dice, nero su bianco, che “deve essere chiaro che il nostro obiettivo è l’uscita”. Prima del disastro di Fukushima, si puntava addirittura a soddisfare con l’atomo oltre metà del fabbisogno elettrico, scusate se è poco! Le centrali oggi ferme si tenterà, ovviamente, di riaprirle (previ test sulla sicurezza). Addirittura non si fermerà la messa in pratica dei progetti già approvati!

Aggiungiamo, ad esempio di quanto sostenuto, questa interessante notizia, del 15 settembre, che riportiamo per intero, tratta da www.lastampa.it : “Il governo giapponese, che aveva annunciato ieri la progressiva fine della produzione nucleare entro i prossimi 30 anni, ha fatto sapere oggi che non ha intenzione di revocare la licenza per la costruzione di tre nuovi reattori già in cantiere. “Non pensiamo di ritirare il permesso già accordato dal ministero”, ha dichiarato il ministro dell’Economia, del Commercio e dell’Industria, Yukio Edano. Due dei tre reattori in questione sono in costruzione ad Aomori, nel nord del paese, dove il ministro è stato ieri in visita. Edano ha comunque precisato che, una volta costruiti, l’attività dei tre reattori sarà sottoposta all’approvazione di un’apposita Commissione creata dal governo per il controllo dell’industria nucleare”.

L’obiettivo del Giappone ora è quello di triplicare il suo utilizzo di energie rinnovabili, arrivando al 30% del totale. Ma bisogna anche continuare il percorso di razionalizzazione del consumo di energia, e, nell’immediato, altra faccia della medaglia, anche aumentare le importazioni di petrolio, carbone e gas naturale.
Secondo i calcoli (finti, si ha l’impressione) del governo giapponese, l’addio al nucleare aumenterà di circa 40 miliardi di dollari Usa la spesa per importare petrolio e carbone. Intanto, per portare la produzione nucleare a zero nel 2034, il Paese seguirà tre principi: no a nuovi reattori (ma, a quanto pare, si salvano le nuove licenze già concesse), smantellamento di quelli con più di 40 anni di vita, non accettare il riavvio di impianti sospesi se non dopo esami sulla loro sicurezza condotti da “autorità ad hoc”.

Siamo intervenuti, a nome dell’Associazione Energia Felice, al Seminario, svoltosi a Milano nei giorni scorsi (13-14-15 settembre), per preparare il Forum Sociale Europeo di novembre a Firenze, rivolgendo un invito ai movimenti partecipanti: diamoci da fare, in Europa, per non finire vincitori alla maniera dei giapponesi!
L’esposizione al rischio atomico continua in Giappone ma continua anche in Europa, dove sono attivi ben 197 reattori “civili”. Cosa ci rende così sicuri del fatto che noi siamo al riparo da catastrofi tipo Chernobyl o Fukushima? Il fatto forse che noi europei occidentali siamo più tecnologici e scrupolosi nelle misure di salvaguardia e sicurezza dei russi e degli orientali in genere? Ma siamo seri!

Ricordiamo il detto: prevenire è meglio che curare. Agire ex ante è più saggio che pentirsi ex post. Maglio attivi oggi che radioattivi domani. Se lasciamo il fuoco atomico acceso in casa questa prima o poi si incendierà, possiamo scommetterci! La nostra prima preoccupazione deve essere di spegnerlo al più presto, questo fuoco.
E dobbiamo dimostrare la sensatezza di non chiamare menagramo chi ci esorta alla ragionevole e doverosa prudenza! Perché quando avremo la nostra inevitabile Chernobyl o Fukushima europea avremo poi voglia di recriminare: perché non mi ero dato da fare prima?

Anche noi italiani, vediamo di non credere tutto risolto con il risultato referendario del 2011!
Mi è saltata una centrale francese o svizzera a poche decine di Km dal confine: non sarò mica scemo, io valdostano, io piemontese, io lombardo, a restarmene ancora a casa credendo di poter vivere e lavorare in tranquillità (magari per il futuro dei miei figli!) e a non emigrare lasciando in loco tutte le masserizie contaminate?  Perché mi sono accalorato, agitato  e sbracciato per ogni accenno di nuova, futura, discarica di rifiuti tradizionali solo proposta mentre, che so, per la discarica radioattiva già funzionante (si fa per dire) da anni a Saluggia, e che ora, alluvionata come era logico che accadesse, ha reso radioattiva tutta l’acqua del Po e con essa l’intero Mediterraneo, ho continuato a fare orecchie da mercante, come se la cosa riguardasse solo i vercellesi di provincia? Forse che lo stesso Nobel Carlo Rubbia non aveva parlato in proposito di catastrofe annunciata?

No, allora non ho dato retto ai “grilli parlanti” come Rubbia. Per questo mi ritrovo adesso con una moglie più lunatica del solito, con mio figlio che ha strani sintomi… e, osservando le strane chiazze che mi si diffondono sul petto, a dover disperatamente credere ad un governo che mi assicura che è tutto sotto controllo…

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