di Mario Agostinelli – Il Manifesto 6 ottobre 2012
I cinque punti del “piano Passera” per rigassifigatori e nuovi metanodotti, con una governance centralizzata. Un ritorno al passato che seppellisce le energie rinnovabili
Con l’indispensabile premessa di una totale espropriazione della partecipazione popolare a discapito della stessa Costituzione, una conturbante bozza della «nuova» strategia energetica nazionale ha visto la luce a fine Agosto: 100 pagine fitte fitte, che prossimamente verranno sottoposte – si afferma – ad una pubblica consultazione, per cui l’informazione compiacente ha già anticipato mirabolanti effetti . Né più né meno che un ritorno al passato, mascherato con la retorica riproposizione di obiettivi tanto condivisibili quanto vaghi e senza l’onere della verifica – diminuzione del costo del Kwh; riduzione della dipendenza dall’estero; crescita sostenibile; raggiungimento degli obiettivi europei, incremento dell’occupazione. Una retorica supportata dalla complicità della grande stampa e dagli interessi bipartisan presenti in Parlamento. (Basterebbe rileggere le rivelazioni di Wikileaks sulle Banche nazionali, su Enel ed Eni in combutta con Berlusconi ai banchetti dove si tracciavano le reti fossili da Oriente ad Occidente). Proviamo allora a guardare dentro il documento presentato da Passera e a fare qualche conto per sfatare per punti e sullo stesso terreno dei proponenti una propaganda tanto grossolana quanto insidiosa.
1) La promozione dell’Efficienza Energetica rivela buoni propositi: di concreto però c’è soltanto la proposta di estendere nel tempo le detrazioni fiscali del 55%, differenziando la percentuale di spesa detraibile e/o la durata del rimborso in relazione all’effettivo beneficio dell’intervento. Introducendo in più tetti di costo per tipo di intervento ed escludendo dalla detrazione gli impianti già incentivati con altri strumenti.
2) L’autentica priorità è quella di fare del nostro Paese un hub del gas: nel concreto si tratta di costruire rigassificatori e nuovi metanodotti, si dice, per aumentare la sicurezza e la concorrenza e al fine di abbassare i prezzi. Da anni ciclicamente si torna a parlare del nostro paese come di un possibile centro di arrivo e smistamento di gas per l’Europa. Il ministro attuale rispolvera dunque un progetto caro ai suoi predecessori (Bersani) e condiviso anche dall’allora ministro delle infrastrutture, Antonio di Pietro, che nel 2006 parlava della necessità di costruire 11 rigassificatori. Il termine «hub del gas» non rappresenta affatto una formula in grado di abbassare il costo del gas che consumiamo: il discorso è esente da certezze e i rigassificatori non sono impianti pronti a ricevere gas liquefatto (Gnl) bypassando i metanodotti, ovviamente a prezzi concorrenziali. E’ un’illusione pensare che attraverso i rigassificatori ci si rivolga solo al mercato spot (quello alimentato in borsa dal trasporto su nave) senza avere alle spalle contratti di fornitura a lungo termine (quelli siglati con i Paesi grandi produttori che spediscono «via tubo»). Tant’è che nel mondo nel 2011, su una capacità di liquefazione pari a circa 270 milioni di tonnellate, ne sono state contrattate 240 milioni e di queste solo 26,6 sul mercato spot, mentre il resto è stato fornito con contratti a lungo o breve termine. Di fatto, il mercato è talmente instabile che in questi ultimi mesi del 2012 sono intervenuti mutamenti che rischiano di bruciare le ambizioni del governo. A segnalarlo sono proprio le imprese che seguono la bussola della redditività degli investimenti; è di un mese fa la notizia dell’abbandono di Erg del progetto del rigassificatore di Priolo; in ritardo è quello della Olt di Livorno (che doveva già essere pronto); idem per Falconara Marittima; silenzio per Gioia Tauro, mentre l’Enel pare ben poco stimolata ad accelerare su Porto Empedocle. In effetti, nessuno dei grandi produttori di Gnl pensa all’Italia come hub del gas, perché comanda il prezzo e il prezzo dice Asia, non Europa. Quindi, di certo, l’idea non abbasserà il prezzo del gas: in compenso darà la stura a grandi opere e all’introduzione delle cosiddette «essential facilities», infrastrutture da costruire con «garanzia di ricavi» e «iter autorizzativi accelerati». Il che significa che i nuovi impianti saranno costruiti grazie a incentivi che graveranno sulle bollette di tutti.
3) Si capisce allora perché scompaiono i sostegni alle rinnovabili, l’unico settore per cui nella bozza Passera lo sviluppo è previsto compatibilmente con la sostenibilità economica. In realtà, questo governo non considera queste fonti una scelta strategica. Basta notare che si richiamano i due recenti decreti ministeriali, che però sono stati redatti per contenere la spesa e non per raggiungere obiettivi sfidanti. Per le rinnovabili termiche, poi, si parla del fatidico conto energia termico che si attende da un anno e per i trasporti si punta sui biocarburanti di seconda generazione – il prezzo e il consumo del suolo sono sempre in agguato! – verso i quali si sposterebbero gli incentivi tolti al fotovoltaico.
4) Ed eccoci, come corollario obbligato, al rilancio della produzione nazionale di idrocarburi (!), tramite cui, così recita il documento, «è possibile raddoppiare l’attuale produzione, con importanti implicazioni in termini di investimenti, occupazione, riduzione della bolletta energetica ed incremento delle entrate fiscali». Che dire? Già altri hanno sottolineato i problemi ambientali: lasciamo perciò parlare i numeri: nel 2011 in Italia sono stati estratti circa 5,3 milioni di tonnellate di greggio (per la precisione 5.286.041 t.). Il consumo di petrolio è stato invece di 71,2 milioni di tonnellate. Le riserve certe ammontano a 76 milioni di t, quindi poco più del nostro consumo in un anno. Dove sta quindi la «rivoluzione petrolifera» del nostro sistema energetico se si raddoppiasse l’estrazione locale, così poco rilevante per il mix delle fonti, ma così densa di effetti devastanti per l’ambiente?
5) L’ultima priorità annunciata è quella della «modernizzazione del sistema di governance» (concetto ormai magico quanto quello associato allo spread), in cui si propone quanto da tempo richiesto da Confindustria: modificare la Costituzione per far tornare l’energia argomento di competenza dello Stato e non più materia concorrente fra Stato e Regioni. La motivazione è ovvia: accelerare gli iter autorizzativi per i grandi impianti. Verrebbe così ricentralizzata la programmazione energetica nelle mani dei ministeri competenti, al fine di ridurre le autonomie locali sia nelle fasi di programmazione, che di intervento nelle procedure di valutazione ambientale delle infrastrutture energetiche. Bisogna cogliere la filosofia generale di questo assunto: la nuova strategia energetica nazionale individua nell’accentramento il sistema di governance migliore per depotenziare la diffusione delle rinnovabili e salvaguardare il tradizionale oligopolio legato alle fonti convenzionali. Ai territori spetta soltanto un potere consultivo, in modo tale che non intralcino con le proprie autonomie lo sviluppo delle grandi infrastrutture energetiche. A vantaggio, ovviamente, di Eni, Edison, Enel, Snam e delle banche che hanno finanziato le grandi reti trans europee e trans mediterranee, minacciate dalla programmazione territoriale, dal ricorso alle fonti naturali, dalla riduzione degli sprechi, dall’attenzione sempre più consapevole alla questione climatica. Ma se un futuro promettente viene per legge convertito in un torvo ritorno al passato, perché non prendere in considerazione la proposta di un referendum contro il piano del governo Monti avanzata su queste pagine da Nicola Cipolla?