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Macron chiuderà 14 reattori nucleari entro il 2035

Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano

Il cambiamento climatico è il tipo di minaccia di cui le nostre menti non sono in grado di preoccuparsi. Sembra distante e che possa accadere nel futuro e ad altre persone: è invece tempo che il pubblico si convinca della rilevanza e dell’urgenza del problema. Arrivare a occuparsene a tempo scaduto e con una situazione irrimediabile e pericolosa ci ridurrebbe a subire limitazioni e imposizioni d’emergenza, con danno della libertà e della democrazia. Lo ripetono i climatologi di tutto il mondo, ma non è un problema per il trio ConteSalviniDi Maio, tutto intento a respingere migranti. Eppure se ne è accorto Emmanuel Macron e se ne sta capacitando la Francia, dove è andato in scena il primo atto di una rappresentazione in cui finale e repliche sono imprevedibili.

Ridurre le emissioni richiede che le persone confidino in autorità competenti, oneste e giuste e che tengano conto, quando decidono, di tutte le opinioni. Le barricate dei “gilet gialli” contro il caro gasolio, calato da un governo assai poco credibile dopo che aveva imposto duri colpi sul versante sociale (Macron era sceso al 25% di gradimento quando sono scoppiati i disordini), hanno indotto il presidente a fare un tentativo un po’ maldestro di recuperare un’immagine di ingiustizia sociale con un po’ più di giustizia climatica. La questione energetica giocata di fronte alla piazza è così balzata all’onore delle cronache, pur con un carico di ambiguità che analizziamo prima di trarne qualche insegnamento.

L’aumento del gasolio alla pompa era stato presentato ai francesi come misura per ridurre le emissioni climalteranti e l’inquinamento. Dopo giorni di proteste a volte violente per i prezzi elevati dell’energia, Macron ha proposto un meccanismo per rivedere la tassa sul carburante nel caso di aumento dei prezzi del petrolio sul mercato globale. Barcamenandosi tra condanna dei “facinorosi” e comprensione dei “concittadini”, ha anche avanzato l’offerta di tre mesi di consultazione con i gruppi di attivisti e associazioni, sia per scoraggiare le manifestazioni sia per “trovare il modo migliore per gestire i crescenti costi energetici”.

Ma da dove vengono i costi più alti dell’energia fossile e nucleare se non dalle crescenti preoccupazioni per la tutela dell’ambiente, del clima e della salubrità della popolazione? Il 27 novembre Macron ha fatto, più o meno coscientemente, un passo di grande rilievo, forse non voluto, ma altamente significativo: ha disegnato la transizione energetica dal vecchio sistema centralizzato fossile e nucleare verso il decentramento della rete elettrica, alimentata in gran parte da sole, acqua e vento. L’annuncio ha invaso i media di tutto il mondo: “Entro il 2035 chiuderanno 14 reattori nucleari”. Un botto, visto che la Francia dipende dall’energia nucleare più di qualsiasi altro Paese, ricavando circa tre quarti della sua elettricità da 58 reattori distribuiti in 19 centrali atomiche. Un botto subito messo in relazione alla necessità di stoppare la vicenda dei “giubbetti gialli”. Tuttavia la cronaca e le reazioni, sotto una pluralità di punti di vista, mentre ridimensionano l’annuncio lo arricchiscono di molte varianti interessanti, anche se contraddittorie.

François Hollande aveva già dichiarato che la quota di nucleare nel mix energetico del Paese sarebbe scesa dal 71% circa al 50% entro il 2025. Lo afferma Emiliano Bellini, che descrive l’iter dei governanti francesi rispetto al moloch del nucleare. Il successivo ministero per la transizione ecologica e inclusiva (macroniano) ha previsto la chiusura di sole sei centrali nucleari entro il 2028, mentre altri sei reattori nucleari verrebbero chiusi entro il 2035. In questo progetto l’obiettivo del 50% verrebbe raggiunto più tardi del previsto e, in teoria, la quota di energia nucleare potrebbe rimanere invariata fino al 2028. Si tratta dello scenario più ottimistico per lo sviluppo di energia pulita, perché invece il ministero delle Finanze (anch’esso macroniano) prevede la chiusura di nove reattori entro il 2035 e la costruzione di quattro nuovi entro il 2040. L’obiettivo del 50% sarebbe raggiunto solo entro il 2040 con un contemporaneo svecchiamento e rilancio.

Macron si è mosso tra i due ministeri, trovando una posizione di mezzo: la Francia chiuderà 14 dei 58 reattori (il 50% della potenza totale) attualmente in funzione nel Paese entro il 2035 (tra quattro e sei entro il 2030), oltre ai due della centrale di Fessenheim – la più vecchia del Paese – che cesseranno di funzionare nell’estate del 2020. L’eredità di Hollande, sposata in campagna elettorale dal nuovo presidente, viene – quatta quatta – spostata di dieci anni in avanti. Le affermazioni di contorno poi, vanno lette con cura: “Ridurre il ruolo dell’energia nucleare non significa rinunciarvi”, anche se non verrà adottata nessuna decisione immediata sulla costruzione di nuovi reattori di ultima generazione. Tuttavia le chiusure previste avranno come condizioni che “la sicurezza degli approvvigionamenti sia assicurata” e che “i vicini europei accelerino la loro transizione energetica”. Macron ritarda la riduzione della quota nucleare di un decennio, ma, altro botto, annuncia un obiettivo solare di 45 GW entro il 2030.

Bisogna riconoscere subito un’importante novità: le fonti rinnovabili previste sono sostitutive di fossili e nucleare, anche se la Francia manterrà una quota di nucleare al centro del suo sistema elettrico. Tanti sono gli spunti su cui riflettere, mentre molto del nuovo strombazzato sulla piazza ha ancora un tratto aleatorio. Su tre questioni mi voglio comunque soffermare:

1. Il nucleare che conosciamo è finito anche in Francia. I reattori invecchiano, i costi di dismissione e stoccaggio sono incomputabili, mentre il costo del kWh rinnovabile è ormai definitivamente inferiore.

2. La questione climatica comincia ad assumere contorni che pesano sul quotidiano, non solo per i danni e il degrado naturali, ma anche per i costi da sopportare nell’immediato e nel lungo periodo. Il mondo rurale che usa l’auto a caro prezzo e gli indigenti che reclamano salari e pensioni più equi sono scesi in piazza reclamando maggiore potere d’acquisto e occupazione dignitosa. Gli uni e gli altri non credono che l’odierno modello di sviluppo inalterato li porti lontano.

3. Il settore nucleare francese dispone oggi di 220mila posti di lavoro. Da qui al 2035 la metà di essi verrà riconvertita con un saldo occupazionale aggiuntivo se saranno sostituiti da efficienza e rinnovabili. Lo stesso non si può automaticamente dire dei rami manifatturieri che saranno falcidiati dai sistemi 4.0.

Arnaud Gosseement, un noto avvocato specializzato in legislazione ambientale, dopo aver apprezzato la chiusura certa di Fessenheim ai confini tedeschi, ha affermato che l’importanza degli annunci del 27 novembre è relativa, in quanto forniscono solo linee guida generali su una bozza di strategia energetica. Può darsi, ma io segnalo una discriminante rispetto al passato, dovuta ai fatti e alle novità del tempo assai più che alle furbizie politiche.

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Macron chiuderà 14 reattori nucleari entro il 2035. Una mossa d’immagine o molto di più?

Il cambiamento climatico è il tipo di minaccia di cui le nostre menti non sono in grado di preoccuparsi. Sembra distante e che possa accadere nel futuro e ad altre persone: è invece tempo che il pubblico si convinca della rilevanza e dell’urgenza del problema. Arrivare a occuparsene a tempo scaduto e con una situazione irrimediabile e pericolosa ci ridurrebbe a subire limitazioni e imposizioni d’emergenza, con danno della libertà e della democrazia. Lo ripetono i climatologi di tutto il mondo, ma non è un problema per il trio ConteSalviniDi Maio, tutto intento a respingere migranti. Eppure se ne è accorto Emmanuel Macron e se ne sta capacitando la Francia, dove è andato in scena il primo atto di una rappresentazione in cui finale e repliche sono imprevedibili.

Ridurre le emissioni richiede che le persone confidino in autorità competenti, oneste e giuste e che tengano conto, quando decidono, di tutte le opinioni. Le barricate dei “gilet gialli” contro il caro gasolio, calato da un governo assai poco credibile dopo che aveva imposto duri colpi sul versante sociale (Macron era sceso al 25% di gradimento quando sono scoppiati i disordini), hanno indotto il presidente a fare un tentativo un po’ maldestro di recuperare un’immagine di ingiustizia sociale con un po’ più di giustizia climatica. La questione energetica giocata di fronte alla piazza è così balzata all’onore delle cronache, pur con un carico di ambiguità che analizziamo prima di trarne qualche insegnamento.

L’aumento del gasolio alla pompa era stato presentato ai francesi come misura per ridurre le emissioni climalteranti e l’inquinamento. Dopo giorni di proteste a volte violente per i prezzi elevati dell’energia, Macron ha proposto un meccanismo per rivedere la tassa sul carburante nel caso di aumento dei prezzi del petrolio sul mercato globale. Barcamenandosi tra condanna dei “facinorosi” e comprensione dei “concittadini”, ha anche avanzato l’offerta di tre mesi di consultazione con i gruppi di attivisti e associazioni, sia per scoraggiare le manifestazioni sia per “trovare il modo migliore per gestire i crescenti costi energetici”.

Ma da dove vengono i costi più alti dell’energia fossile e nucleare se non dalle crescenti preoccupazioni per la tutela dell’ambiente, del clima e della salubrità della popolazione? Il 27 novembre Macron ha fatto, più o meno coscientemente, un passo di grande rilievo, forse non voluto, ma altamente significativo: ha disegnato la transizione energetica dal vecchio sistema centralizzato fossile e nucleare verso il decentramento della rete elettrica, alimentata in gran parte da sole, acqua e vento. L’annuncio ha invaso i media di tutto il mondo: “Entro il 2035 chiuderanno 14 reattori nucleari”. Un botto, visto che la Francia dipende dall’energia nucleare più di qualsiasi altro Paese, ricavando circa tre quarti della sua elettricità da 58 reattori distribuiti in 19 centrali atomiche. Un botto subito messo in relazione alla necessità di stoppare la vicenda dei “giubbetti gialli”. Tuttavia la cronaca e le reazioni, sotto una pluralità di punti di vista, mentre ridimensionano l’annuncio lo arricchiscono di molte varianti interessanti, anche se contraddittorie.

François Hollande aveva già dichiarato che la quota di nucleare nel mix energetico del Paese sarebbe scesa dal 71% circa al 50% entro il 2025. Lo afferma Emiliano Bellini, che descrive l’iter dei governanti francesi rispetto al moloch del nucleare. Il successivo ministero per la transizione ecologica e inclusiva (macroniano) ha previsto la chiusura di sole sei centrali nucleari entro il 2028, mentre altri sei reattori nucleari verrebbero chiusi entro il 2035. In questo progetto l’obiettivo del 50% verrebbe raggiunto più tardi del previsto e, in teoria, la quota di energia nucleare potrebbe rimanere invariata fino al 2028. Si tratta dello scenario più ottimistico per lo sviluppo di energia pulita, perché invece il ministero delle Finanze (anch’esso macroniano) prevede la chiusura di nove reattori entro il 2035 e la costruzione di quattro nuovi entro il 2040. L’obiettivo del 50% sarebbe raggiunto solo entro il 2040 con un contemporaneo svecchiamento e rilancio.

Macron si è mosso tra i due ministeri, trovando una posizione di mezzo: la Francia chiuderà 14 dei 58 reattori (il 50% della potenza totale) attualmente in funzione nel Paese entro il 2035 (tra quattro e sei entro il 2030), oltre ai due della centrale di Fessenheim – la più vecchia del Paese – che cesseranno di funzionare nell’estate del 2020. L’eredità di Hollande, sposata in campagna elettorale dal nuovo presidente, viene – quatta quatta – spostata di dieci anni in avanti. Le affermazioni di contorno poi, vanno lette con cura: “Ridurre il ruolo dell’energia nucleare non significa rinunciarvi”, anche se non verrà adottata nessuna decisione immediata sulla costruzione di nuovi reattori di ultima generazione. Tuttavia le chiusure previste avranno come condizioni che “la sicurezza degli approvvigionamenti sia assicurata” e che “i vicini europei accelerino la loro transizione energetica”. Macron ritarda la riduzione della quota nucleare di un decennio, ma, altro botto, annuncia un obiettivo solare di 45 GW entro il 2030.

Bisogna riconoscere subito un’importante novità: le fonti rinnovabili previste sono sostitutive di fossili e nucleare, anche se la Francia manterrà una quota di nucleare al centro del suo sistema elettrico. Tanti sono gli spunti su cui riflettere, mentre molto del nuovo strombazzato sulla piazza ha ancora un tratto aleatorio. Su tre questioni mi voglio comunque soffermare:

1. Il nucleare che conosciamo è finito anche in Francia. I reattori invecchiano, i costi di dismissione e stoccaggio sono incomputabili, mentre il costo del kWh rinnovabile è ormai definitivamente inferiore.

2. La questione climatica comincia ad assumere contorni che pesano sul quotidiano, non solo per i danni e il degrado naturali, ma anche per i costi da sopportare nell’immediato e nel lungo periodo. Il mondo rurale che usa l’auto a caro prezzo e gli indigenti che reclamano salari e pensioni più equi sono scesi in piazza reclamando maggiore potere d’acquisto e occupazione dignitosa. Gli uni e gli altri non credono che l’odierno modello di sviluppo inalterato li porti lontano.

3. Il settore nucleare francese dispone oggi di 220mila posti di lavoro. Da qui al 2035 la metà di essi verrà riconvertita con un saldo occupazionale aggiuntivo se saranno sostituiti da efficienza e rinnovabili. Lo stesso non si può automaticamente dire dei rami manifatturieri che saranno falcidiati dai sistemi 4.0.

Arnaud Gosseement, un noto avvocato specializzato in legislazione ambientale, dopo aver apprezzato la chiusura certa di Fessenheim ai confini tedeschi, ha affermato che l’importanza degli annunci del 27 novembre è relativa, in quanto forniscono solo linee guida generali su una bozza di strategia energetica. Può darsi, ma io segnalo una discriminante rispetto al passato, dovuta ai fatti e alle novità del tempo assai più che alle furbizie politiche.

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Contributo sull’avvio del congresso della Cgil

Come iscritti e militanti della Cgil, di diverse categorie* avanziamo le riflessioni che seguono, prendendo spunto dall’avvio del congresso della Cgil, ed in relazione alle attività di associazioni, nelle quali siamo impegnati, che si occupano della transizione/decarbonizzazione del modello energetico e di sviluppo (come l’approfondimento riportato in appendice); temi sui quali già abbiamo avuto e abbiamo occasioni di collaborazione con la Cgil e le sue categorie.

Il congresso dovrebbe essere…

Il metodo nuovo, deciso dalla Cgil per avviare il 18° congresso, con la “Traccia di discussione per Assemblee Generali” sulla quale raccogliere suggerimenti e indicazioni per poi arrivare al documento congressuale vero è proprio, è molto utile.

E’ certamente giusto sottolineare come in questi anni la Cgil, nonostante la situazione e il clima sfavorevole, abbia retto bene. Ma l’affermazione “Non ci siamo limitati al conflitto e alla difesa, abbiamo scelto la strada della creazione di un’altra proposta di sistema come il piano del lavoro, elaborando la nostra proposta di legge di iniziativa popolare: la carta dei diritti universali del lavoro”, è troppo ottimistica. Ci siamo difesi abbastanza bene, ma di qui in avanti questo non basta.

“Un’altra proposta di sistema” è una indicazione strategica assolutamente condivisibile e necessaria, ma non possiamo dire di averla già creata. “Il piano del lavoro” è stata una buona intuizione, anche simbolica, importante, ma non è sufficiente; come non lo è ripetere semplicemente che siamo per “un modello alternativo, sostenibile, di crescita, sviluppo e giustizia sociale”. La stessa confusione tra i termini di crescita e sviluppo, che non sono – a proposito di “sostenibilità ambientale, economica, sociale e territoriale” – la stessa cosa, dimostra che nonostante l’avvio di alcune importanti elaborazioni (come “la piattaforma integrata per lo sviluppo sostenibile”) tutta l’organizzazione non ha ancora assimilato, soprattutto nella sua pratica contrattuale, la consapevolezza delle grandi emergenze globali, ambientali , energetiche, climatiche che abbiamo di fronte e, di conseguenza, le grandi trasformazioni sull’idea di sviluppo, che sarebbero necessarie.

A questo proposito, sono molto più precise le affermazioni contenute nel contributo dello Spi “Verso il congresso nazionale Spi 2018”: “Di fronte a questo scenario, obiettivo dello Spi Cgil, in coerenza con le priorità dell’Onu e per l’Italia dell’Asvis, è quello di battersi insieme alla comunità scientifica e ai movimenti ambientalisti affinché si avvii un ambizioso processo di transizione che dall’economia globale conduca verso un’economia ecologica e circolare. È sempre più necessario, infatti, limitare i cambiamenti climatici, liberarsi dalla dipendenza dai combustibili fossili, affermare nuovi modelli di consumo, raggiungere l’obiettivo dei rifiuti zero, e garantire a tutti, oltre che la sicurezza alimentare, anche l’accesso a uno dei beni più preziosi: l’acqua potabile. Ma la diffusione di una cultura della sostenibilità deve anche partire dall’assunzione di responsabilità dei singoli individui. Basare i nostri comportamenti quotidiani sul consumo consapevole delle risorse naturali, sul risparmio energetico, sul rispetto dell’ambiente rappresenta il primo passo verso un mondo più giusto ed equo”.

Sono affermazioni importanti che non hanno implicazioni solo per le scelte individuali, o per i “consumatori consapevoli”, ma pongono, soprattutto, la necessità della transizione del modello produttivo, e quindi di come conquistare un modello di sviluppo alternativo.

Nel secolo scorso, i movimenti sociali, ed in particolare quello sindacale, potevano svolgere il loro ruolo di mobilitazione e rivendicazione per la tutela dei diritti, delle condizioni di lavoro e di vita, per obiettivi di giustizia sociale e poi trovare una “sponda politica”, tra forze politiche che avevano una “idea complessiva di società”, a cui delegare la necessaria mediazione e realizzazione di questi obiettivi.

Oggi, per il movimento sindacale, ed in particolare per la Cgil, è molto più problematico trovare “una sponda” nell’attuale quadro politico; infatti si sostiene di avere “letto prima…il prepararsi della rottura tra il mondo del lavoro e la rappresentanza politica”. A maggior ragione, questa realtà, dovrebbe implicare la necessità di un cambio nel ruolo e nelle responsabilità del sindacato.

Certamente il sindacato deve fondare in primo luogo la sua rappresentatività partendo dalle condizioni concrete di tutto il mondo del lavoro, anche nei settori più marginali ed esclusi (spesso anche per noi ai margini), ma deve allargare il concetto di coalizione a tutti quei settori sociali che possono oggettivamente convergere su obiettivi coerenti. Per questo il sindacato deve avanzare in proprio una sua idea di società e di modello di sviluppo, cercando di farlo vivere e avanzare, non solo nelle elaborazioni generali, ma anche, e soprattutto, nella propria iniziativa corrente e nella pratica contrattuale a tutti i livelli.

Come si legge nel contributo della Fiom “Il congresso dell’uguaglianza”: “consolidare la strada intrapresa… di autonomia e indipendenza dal sistema dei partiti e dalle logiche che oggi dominano la politica”. E, conclude: “Non si può quindi prescindere dalla necessità di stringere i legami della coalizione delle lavoratrici e dei lavoratori e allargare le alleanze oltre il lavoro dipendente”.

Per il sindacato, porre la necessità di “un nuovo modello di sviluppo” e operare direttamente per essere protagonista di questa progressiva transizione, significa saper intrecciare l’attenzione all’occupazione, alla riduzione degli orari, ai diritti, alle condizioni, alla retribuzione, con una riflessione sulle finalità del lavoro stesso (“cosa, come, per chi produrre”, si sosteneva una volta) e della sua redistribuzione.

La transizione nei settori energetici, dell’economia circolare, della mobilità, dell’organizzazione delle città, dell’edilizia, dei servizi, ecc. – con l’accelerazione indotta dalla digitalizzazione – è già in atto, magari a volte in modo distorto e contradditorio, ma proseguirà. L’unico modo perché “non sia pagata dai lavoratori” è che il sindacato, e i lavoratori, svolgano un ruolo attivo, ponendo le proprie priorità, con una “contrattazione d’anticipo”. Disinteressarsene, pensando solo ad un ruolo sindacale “tradizionale”, o tentare semplicemente di frenare questo processo (come a volte è successo e succede) produrrebbe danni ben peggiori.

Per andare in questa direzione servono strategie e normative precise, politiche industriali e investimenti pubblici e privati adeguati (vale per le grandi scelte nazionali, ma anche per quelle locali e territoriali) che devono essere rivendicati con forza, ma non possiamo semplicemente delegare, o fare lobby, verso i decisori politici.

Una transizione “giusta” non si può realizzare senza un coinvolgimento attivo dei soggetti sociali interessati a questi cambiamenti (i lavoratori, i consumatori, i cittadini, ecc.) o addirittura contro di loro. Per questo, superando tendenze alla frammentazione e al settorialismo, è necessario aggregare un “fronte sociale più ampio” (che coinvolga oltre al sindacato, associazioni sociali, ambientali, dei consumatori, comitati dei cittadini, competenze scientifiche e tecniche) per intervenire e contrattare questi cambiamenti, a partire dalle aziende più innovative, dagli amministratori locali più sensibili, ecc., per investire poi il sistema delle imprese di tutti i settori.

Si parla tanto di Industria 4.0, ma in genere si affrontano solo aspetti tecnologici, digitalizzazione (internet delle cose, additive manufacturing…). “Affermiamo di voler contrattare la digitalizzazione”, che è un ottimo proponimento, ma “l’algoritmo” non controlla solo le condizioni di lavoro, ma l’intero ciclo della produzione, dei servizi, dei consumi. L’innovazione che dovremmo contrattare non interessa solo le tecnologie, ma anche gli aspetti organizzativi, ambientali, sociali e le stesse finalità del lavoro e delle produzioni. Per svolgere questo ruolo, il sindacato, ha la necessità di costruire un punto di vista autonomo, proprio e dei lavoratori che rappresenta, anche in relazione a soggetti esterni, oltre il lavoro dipendente.

Le trasformazioni in atto necessitano di più sapere e di più intelligenza nell’uso di tutte le risorse, servirebbe uno straordinario sforzo di educazione e di formazione a tutti i livelli, non solo nei luoghi tradizionali della ricerca e della formazione, ma anche nei luoghi di lavoro e nella società.

In queste trasformazioni vi saranno settori che andranno a ridursi e altri invece che dovrebbero crescere, e il sindacato ne dovrebbe essere protagonista attivo, facciamo sommariamente solo alcuni esempi:

– Per i settori dell’automotive e della mobilità, pensiamo all’enorme impatto che avrà la progressiva sostituzione di mezzi a combustione interna con quella elettrica o ad altre propulsioni; o la progressiva riduzione dell’uso dei combustibili fossili, con la fine dell’uso del carbone, il restringimento dei settori delle estrazioni e della raffinazione e quindi le ricadute in quelli dell’oil & gas.

– Viceversa, pensiamo al possibile grande sviluppo di tutte le fonti rinnovabili, la stessa Strategia Energetica Nazionale (che può essere criticabile per taluni aspetti) ne prevede un aumento tale che non sarebbe raggiungibile con i trend attuali, a partire dal solare e dall’eolico (per il quale sarebbe necessario puntare su quello offshore); oppure le grandi opportunità per l’autoproduzione, e soprattutto per l’efficienza energetica in tutti i settori, a partire da Interventi radicali di efficientamento energetico per la riqualificazione spinta di interi edifici e quartieri (deep renovation).

Ma in modo più trasversale, anche solamente partire da iniziative diffuse per generalizzare le diagnosi energetiche e poi l’efficientamento dei cicli produttivi (es. l’Avviso comune Cgil Cisl Uil Confindustria del 2011, sull’efficienza energetica) oltre a dare vantaggi immediati, può fornire indicazioni per intervenire, non solo sui cicli attuali, ma anche sulle materie prime, sulla logistica, sugli scarti, sui rifiuti, ecc., ripensando cicli di vita e tipologia dei prodotti e dei servizi. Tematiche queste, applicabili non solo ai settori produttivi e industriali, ma in modo trasversale in ogni comparto. Incluso anche il ruolo che può svolgere una categoria come lo SPI, nella contrattazione sociale e nel promuovere comportamenti e stili di vita e di consumo più sostenibili.

A proposito di un ruolo più determinato del sindacato nella realizzazione di queste trasformazioni, pur non essendo citato nei documenti preparatori, si torna a parlare di “codeterminazione”. Certo, l’esperienza tedesca, fatte le dovute differenze, può avere un qualche interesse anche in Italia, che non ha mai avuto procedure di questo tipo, se si esclude Il caso del “protocollo IRI” (che risale agli anni ’80) o, da ultimo, il “timido” capitolo sulla “Partecipazione” del recente accordo con Confindustria sulle “relazioni industriali e la contrattazione“, ma essenziale in tutto questo è appunto avere punto di vista autonomo del sindacato.

*Mario Agostinelli
Vittorio Bardi
Paolo Bartolomei
Oscar Mancini
Gianni Naggi
Ettore Torregiani

APPROFONDIMENTO DI SCALIA E MATTIOLI (PDF 984 Kb) >>>

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Per un mondo libero dalle armi nucleari e dall’inquinamento

Contro ilsuicidio dell’Umanità” (Papa Francesco)
Per una coscienza planetaria proattiva

Interveniamo alla COP 23 sui pericoli che incombono più urgentemente sul nostro presente e sul nostro futuro: quello nucleare e quello climatico. E sul loro intreccio.

Lanciamo, da Bonn, l’appello dei Disarmisti esigenti (www.disarmistiesigenti.org), attivi nei movimenti per il disarmo e per la giustizia climatica e sociale, alla mobilitazione globale unitaria della società civile.

La nonviolenza è il cammino che dobbiamo imparare a percorrere (Stéphane Hessel)

La nostra missione a Bonn

Siamo venuti dall’Italia, da gruppi diversi ma uniti in coalizione, con i seguenti obiettivi, condivisi nella loro essenza dalla nostra delegazione:

perorare la causa del Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari (secondo alcuni di noi essa può essere rafforzata con il lancio dell’ipotesi di un referendum mondiale antinucleare (da discutere a Milano nel maggio 2018)

sensibilizzare sull’intreccio tra minaccia nucleare e minaccia climatica e sulla necessità di contrastarle con un salto di qualità del diritto internazionale

vigilare sui tentativi della lobby filonucleare di inserire la tecnologia “atomica” tra le energie pulite

promuovere la ricerca sulle LENR come ipotesi di soluzione del problema delle scorie radiooattive

rafforzare i collegamenti tra i movimenti disarmisti e i movimenti per la giustizia climatica valorizzando il protagonismo femminile

ribadire la nostra faccia propositiva di alternativi impegnati nella conversione energetica ed ecologica

 

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La nuova SEN vista con gli occhi di Parigi e di Bonn

a cura di Giuseppe Farinella (Energia Felice – Il Sole di Parigi) e Alfonso Navarra (Disarmisti esigenti – AK) – 14 novembre 2017

Il governo Gentiloni ha presentato il suo deludente piano energetico “a tutto gas”

Ma l’eliminazione dell’energia fossile è una “conversione logica” più che “ecologica” (anche verso una società pacifica)!

Meglio tardi che mai: finalmente abbiamo la nuova Strategia energetica nazionale – SEN presentata, a COP 23 di Bonn in corso, dal governo Gentiloni, con un piglio retorico (“uno dei due grandissimi assi della politica industriale dei prossimi anni”) cui non corrisponde la realtà deludente del testo.

La tempistica – la coincidenza con la manifestazione ONU che prosegue il percorso della COP 21 di Parigi – induce a pensare – non considerateci troppo maliziosi! – ad esigenze di immagine “verde” che prevalgono sulla sostanza “grigia”. Si parla di “addio al carbone” nel 2025 – e questo è indubbiamente positivo (l’Italia sarebbe la quarta nel G7 a programmarlo) – ma il ruolo sostitutivo e dominante, nella cosiddetta “transizione energetica”, è di fatto assegnato non alle rinnovabili ma al gas, per il quale si propongono massicci investimenti infrastrutturali. (Il primo pensiero corre alla Puglia e alla vicenda TAP contrastata dalla popolazione ma anche dalle Amministrazioni locali).

A garantirne l’attuazione si prevede una “cabina di regia”, in cui saranno coinvolti vari ministeri (in primo luogo Ambiente e Sviluppo economico, ma anche Economia, Trasporti, Beni culturali…).
Per la mobilità sostenibile, si prospetta l’obiettivo di 5 milioni di vetture elettriche al 2030, con incentivi da studiare per svecchiare il parco circolante: da finanziare sempre con bollette più care?
Perché, noi che , da ecopacifisti, abbiamo preparato la “missione collettiva a Bonn, per sensibilizzare sul “nesso su minaccia nucleare e mianaccia climatica” (è il titolo dei side event ufficiali che abbiamo incardinato come “Disarmisti esigenti” e WILPF Italia), ci dichiariamo insoddisfatti e lo abbiamo ribadito senza peli sulla lingua nel nostro intervento alla Conferenza ONU?

La concezione di questa SEN, secondo noi, in fondo, resta quella del governo Monti, incentrata sull’Italia come “hub del gas naturale”, con concessioni a nostro giudizio, ma non solo nostro, alquanto secondarie al settore delle rinnovabili. Non si vede come, con l’idea neanche tanto nascosta che la quota di mercato del gas vada comunque tutelata, se non aumentata, possa essere raggiunta la “decarbonizzazione”, nel senso tecnico di zero emissioni di gas serra.
Se guardiamo il problema con gli occhi di Parigi e di Bonn, cioè ponendo mente alla gravità del problema climatico, il giudizio su questa SEN dovrebbe essere logico: stiamo ancora perdendo tempo (e non ce n’è molto, secondo gli ultimi allarmi scientifici) sulla rivoluzione da compiere senza tentennamenti né contraddizioni verso le energie veramente pulite. Bisognerebbe invece puntare ad un “sistema rinnovabile” al 100% subito e proporre questo obiettivo come “imperativo”, secondo l’indicazione data da Hermann Sheer, l’autore della “Bibbia” per la completa riconversione del nostro sistema energetico (Edizioni Ambiente, 2012).

Qui a Bonn è ormai diventata quasi un luogo comune la frase: “Non dobbiamo più parlare di <conversione ecologica> ma semplicemente di <conversione logica>, di fronte ai moniti allarmati della comunità scientifica, sempre più compattamente preoccupata; ma anche alle tendenze evidenti del mercato: dopo l’accordo di Parigi si è manifestamente invertito il trend di investimenti di grandi banche e fondi privati dalle fossili alle rinnovabili! Ci torneremo su con i prossimi interventi.

Va anche considerato che l’Italia dovrà seguire l’Europa nel rivedere al rialzo gli obiettivi al 2030, se si vuole appunto dare seguito all’accordo di Parigi. Bisognerà che il nostro Paese affianchi in questo caso la Germania – e non la Polonia e le altre Nazioni diciamo “paratrumpiane” dell’ex Patto di Varsavia. E’ notevole che in questo senso, in sinergia con i nuovi orientamenti dei grandi investitori privati, si stia muovendo parte dell’industria elettrica europea, inclusa l’ENEL, mentre un’altra parte, in Italia l’ENI, vuole continuare a basarsi essenzialmente su gas e prodotti petroliferi.
Dopo anni di aggressione masochistica, con il taglio agli incentivi, al nostro settore delle rinnovabili – ci si è messi d’impegno nel tentare di ammazzare un business che prometteva benissimo! – si fa ora una parziale marcia indietro, ma non è l’inversione ad U richiesta dall’Accordo di Parigi, come già l’industria più intelligente comincia a chiedere.

Sarebbe opportuno, a nostro avviso, fare il contrario: tagliare i 16 miliardi circa di sussidi alle fonti fossili dirottandoli alle rinnovabili. Insomma, niente più sostegno pubblico (a spese dei consumatori) all’incenerimento dei rifiuti con il CIP6, alla costruzione dei rigassificatori, alle facili trivellazioni su mare e su terra!
Con l’orizzonte degli obiettivi climatici sarebbe importantissimo adottare una carbon tax non più rinviabile, che potrebbe essere applicata innanzitutto nei settori riscaldamento e trasporti (oggi beneficiati con varie esenzioni fiscali per chi consuma carburante), con collegata riduzione della pressione fiscale sul lavoro.
(Questo spostamento del carico fiscale dal reddito e dal lavoro alle attività dannose per l’ambiente viene indicato come “riforma fiscale ecologica”).

Va modificato il modello che definisce il mercato elettrico come un sistema basato su un numero ridotto d’impianti di generazione centralizzata e sulla distribuzione capillare attraverso le reti elettriche di alta, media e bassa tensione verso piccoli e grandi consumatori, sempre in modo unidirezionale. Per far fronte alla necessità di ricorrere a metodi di produzione d’energia elettrica sostenibili e in grado di fronteggiare la crescente domanda energetica a livello mondiale, le tecnologie della generazione distribuita, in particolare quella fotovoltaica ed eolica, permettono oggi di rendere disponibile energia pulita in prossimità dei punti di consumo, a prezzi sempre più competitivi.

Si tratta di appoggiare una nuova proposta di Direttiva UE che prevede espressamente che gli Stati membri debbano assicurare che le comunità locali abbiano diritto a generare, consumare, immagazzinare e vendere l’energia rinnovabile, anche attraverso accordi di acquisto di energia, senza essere soggette a procedure burocratiche esagerate e ad oneri sproporzionati. L’orizzonte sembra quindi definito, quantomeno a livello europeo, nonostante il percorso normativo-regolatorio non sia omogeneo e lineare neppure all’interno del nostro continente.

Altro punto da non dimenticare: la conferma del “no al nucleare”, che il popolo sovrano ha affermato con ben due referendum. dovrebbe comportare una gestione seria e non affaristica (o affaristico-clientelare) del triste lascito delle scorie radioattive, cosa di cui l’attuale struttura SOGIN non ci garantisce affatto.  Nel corso degli anni la SOGIN ha accumulato ritardi nei lavori che sono arrivati fino al 170%, i costi preventivati sono più che raddoppiati e l’incremento di attività degli ultimi anni è un dato “drogato” perché è dovuto all’impegno sullo smantellamento delle strutture civili, mentre la parte nucleare è ancora al palo.

La morale di questo intervento è che dobbiamo prendere sul serio il “bando dei combustibili fossili” decretato a Parigi il 12 dicembre del 2015. Questo grande cambiamento richiede una “transizione” con aspetti di gradualità ma l’indirizzo del percorso deve essere chiaro: il passaggio al 100% rinnovabili deve avvenire quanto prima possibile, escludendo la “centralità del gas” o “l’imbroglio nucleare”. Tanto più se si considera che il modello energetico rinnovabile è intrinsecamente collegabile ad una società più pacifica, non fosse altro perché ciascun Paese può controllare risorse diffuse di cui dispone “a casa sua”, senza dipendere da situazioni esterne, magari da “stabilizzare” con pressioni o addirittura interventi militari.
O seguiamo una strategia coerente o proseguiamo per inerzia facendoci annebbiare da una cappa fumosa di parole: ma ci permettiamo ancora una volta, scusandoci della ripetitività, di mettere in guardia da questa seconda opzione, comoda ma catastrofica. Il risultato più probabile di essa sarà di ottenere che il Pianeta, rotto l’equilibrio, faccia fuori la nostra arrogante ma stupida specie.

Dovremmo parafrasare la formula di Albert Einstein sulle armi nucleari, e qui a Bonn stiamo provando a condividerla con molte orecchie consenzienti: “O l’Umanità farà a meno dei combustibili fossili, o la Terra farà a meno dell’Umanità!”.

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