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Nucleare e gas climalteranti: fonti diverse, ma con una grave eredità in comune

E’ fuor di dubbio che l’evocazione del nucleare a oltre 30 anni dal referendum che chiuse gli impianti in Italia e a 10 anni dalla reiterazione di una volontà popolare che ha sottratto il nostro Paese ad una colonizzazione tecnocratica, che continua a costare assai cara a molti paesi europei, porta a considerazioni che non sono riservate solo agli specialisti, ma entrano in sintonia con la riflessione che l’accelerazione del cambiamento climatico e l’esperienza della pandemia ha indotto in grandi strati del sentire popolare.

“Quanto tempo manca” è la domanda che tocca ora non solo le nuove generazioni, ma chiunque riscopra il legame fragile tra uomo e natura, che è stato rotto con un assalto complessivo e su più fronti da parte di un sistema di produzione e consumo che sta riducendo le possibilità di sopravvivenza.

Credo che le prime avvisaglie di un cambiamento netto di fase, che quotidianamente possiamo riscontrare nella devastazione operata su una natura resa ostile e nel ritrarsi di quella amica, siano apparse all’orizzonte proprio con l’era nucleare. Una tecnologia che intrinsecamente sfugge ad un pieno controllo sociale e, nel contempo, supera artificialmente i limiti imposti dai tempi biologici e della riproduzione della vita.

La scansione di catastrofi come Hiroshima, Chernobyl, Fukushima è lì a ricordare che quando la forza dell’industria umana diventa più potente delle forze geologiche e naturali, può entrare in gioco la sopravvivenza.

Proprio con il nucleare l’umanità ha cominciato, ancor prima che l’aumento di gas climalteranti producesse devastazioni sul pianeta, a doversi prendere in carico l’incertezza del futuro delle nuove generazioni. Non è banale dover intrecciare due grandi emergenze – quella climatica e quella nucleare – con un’urgenza che si fa sempre più pressante.

Pertanto, la prima cosa che balza all’attenzione in questi giorni in cui viene presentata la mappa dei depositi nucleari è il peso di un’eredità pesantissima, che si tende a rimuovere, ma che va risolta ora senza scaricarla sulle prossime generazioni.

Ma, dato che questo è il tempo della pandemia e del riscaldamento irreversibile del Pianeta, dobbiamo convincerci che senza una svolta nelle politiche energetiche potremmo lasciare eredità perfino più esiziali di quella su cui si apre la discussione sulla mappa, pompando e consumando fossili che la scienza del clima esige siano lasciati sottoterra.

Lo dico perché non si troverà facilmente una soluzione al problema del deposito delle scorie se Eni, Enel e governo rimarranno nel frattempo appesi a piani e progetti che potenziano un sistema elettrico centralizzato, reiterato con uno strategico e rinnovato ricorso al metano, anziché decentrato e alimentato dalle rinnovabili. Se questo avverrà, l’Europa non ci rimprovererà più solo il ritardo nell’individuazione del deposito delle scorie nucleari!

La mappa non dice il punto in cui bisognerà costruire il deposito. Delinea invece tutti i 67 luoghi in cui ci sono le “condizioni tecniche” ed indica in 12 siti le candidature più solide (due in provincia di Torino, cinque in provincia di Alessandria, cinque in provincia di Viterbo).

Se andiamo indietro nel tempo, potremmo ricordare la lunga lotta delle popolazioni del metapontino attorno a Scanzano per respingere nel 2003 il tentativo di Carlo Jean, commissario di Governo, di costruire un deposito sotterraneo, geologico, definitivo, anche per rifiuti ad altissima radioattività.

Il giornale di Confindustria ad inizio 2021 mette insieme quel ricordo con le sollevazioni delle popolazioni della Valsusa contro l’alta velocità e nel Salento contro il metanodotto Tap. Un’operazione sottile di discredito delle lotte sul territorio, per far capire che, al di là di tutto, poi e comunque si procede.

Non si tiene affatto conto che non si tratterà di un gioco a rimpiattino tra i diversi campanili individuati, ma di un atto di corresponsabilità nazionale, rimandato ad oggi dopo essere rimasto nei cassetti della Sogin, che forse ha pensato bene che, con la testa presa dal vaccino, la discussione sul sito del deposito sarà più distratta.

E non basterà certo – come testualmente afferma l’autorevole quotidiano citato – “cercare di convincere i Comuni ricompresi nella mappatura a farsi avanti: ci sono incentivi, occasioni di crescita, prospettive di lavoro e di benessere, soprattutto nelle aree marginali che si stanno spopolando”. Con questo criterio di scambio, tutto sommato volgare, il gioco, pur essendo necessario, non varrebbe la candela.

Oltre che rendere trasparenti le misure di sicurezza, le modalità per affrontare la gestione con il massimo rigore e con i massimi livelli di garanzia sanitaria e ambientale, accettando – come chiede il Wwf – il fondamentale principio di reversibilità nel caso la situazione subisca modificazioni, occorre un passo ulteriore. In definitiva, senza la certezza di una svolta profonda – oggi! – nelle politiche energetiche del Paese verso la neutralità climatica, l’ultima fase dell’uscita dal nucleare risulterebbe meno risolutiva e, perciò, meno convincente per farsene carico.

Per questo ho fatto un collegamento tra due grandi questioni in apparenza tra loro disgiunte. La discussione va aperta in un contesto chiaro e aggiornato. Quanto tempo ancora dovrà passare perché da Saluggia e Trino, che hanno oggi la più grande quantità di materiali radioattivi di tutta Italia e i più pericolosi, vengano trasferite e messe in sicurezza tutte le scorie che hanno destato le più profonde preoccupazioni nelle popolazioni locali? E come si svolgerebbe una discussione sul deposito di scorie a Montalto di Castro, quando si potrebbero quasi vedere con un cannocchiale le nuove torri del turbogas da 1,8 MW di Civitavecchia?

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Armi nucleari, ok alla ratifica del trattato per la proibizione. Ma manca la firma dell’Italia

La notizia rimbalza nascosta ma inoccultabile sui media di ogni Paese. Incredulità e disattenzione sembrano gli effetti cui si abbandonano in questi giorni gli opinionisti, i politici, perfino gli intellettuali, che in questo mondo civile hanno spesso dato per scontato che la vita e la sopravvivenza di intere popolazioni – o addirittura del genere umano – potessero essere esposti alla mancanza di controllo di pochi irresponsabili, disposti a risolvere con la forza nucleare più distruttiva le contese e i conflitti internazionali.

In fondo, dopo 75 anni, la nemesi di Hiroshima e Nagasaki ricade su chi ha cercato di interpretare sotto il profilo dell’annientamento la figura del nemico sconfitto. Forse solo così si spiega la mancanza di sollievo e la noncuranza con cui la maggior parte dei cittadini delle potenze nucleari del mondo o che ospitano sui loro territori ordigni atomici (è il caso dell’Italia) ha accolto una svolta storica sul piano legale, anche se non ancora conquistata su quello politico.

Dopo che il 7 luglio 2017, 122 paesi avevano votato in sede Onu a favore del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, il 24 ottobre 2020 il Tpan ha raggiunto i 50 Stati firmatari richiesti per la sua entrata in vigore, dopo che l’Honduras l’ha ratificato, appena un giorno dopo la Giamaica e Nauru.

Nel mondo, a partire dalla voce dei Paesi minori, sta succedendo qualcosa di nuovo e proprio quando la pandemia sembrerebbe sopire le grandi speranze. Sono milioni i cittadini – anche italiani – che si sono mobilitati per vietare le armi nucleari con una legge di validità internazionale e il ruolo della Campagna Internazionale per Abolire le Armi Nucleari, l’Ican, è stato decisivo. Tra 90 giorni, nonostante l’opposizione degli Stati Uniti, verrà ratificato il divieto categorico delle armi nucleari, oltre a quelle batteriologiche e chimiche.

Decenni di attivismo hanno raggiunto quello che molti hanno detto essere impossibile. Tutti e 50 gli Stati hanno dimostrato una vera determinazione, affrontando livelli di pressione senza precedenti da parte degli Stati armati nucleari per non aderire. Una recente lettera, resa pubblica solo pochi giorni prima della cerimonia, dimostra come l’amministrazione Trump abbia esercitato pressioni dirette sui 50 Stati, affinché si astengano dall’incoraggiare altri ad aderirvi.

Beatrice Finh, premio Nobel per la Pace, ha dichiarato: “I 50 paesi che ratificano questo Trattato stanno dimostrando una vera leadership nella definizione di una nuova norma internazionale secondo cui le armi nucleari non sono più solo immorali bensì totalmente illegali”.

Il trattato richiede che tutti i paesi che lo ratificano “mai in nessuna circostanza … sviluppino, testino, producano, fabbrichino e altrimenti acquisiscano, possiedano o accumulino armi nucleari o altri dispositivi esplosivi nucleari”. Vieta inoltre qualsiasi trasferimento o uso di armi nucleari o ordigni esplosivi nucleari – e la minaccia di utilizzare tali armi – e richiede alle parti di promuovere il trattato in altri paesi.

Purtroppo, il cammino reale è ancora lungo e insidioso, anche se la ratifica ha un significato storico e dirompente. Ci sono oltre 14.000 bombe nucleari nel mondo, migliaia delle quali sono pronte per essere lanciate in un istante e la potenza di molte di quelle testate è decine di volte maggiore delle armi sganciate su Nagasaki e Hiroshima. Nessuna potenza nucleare l’ha firmato, e solo 6 dei 49 stati europei hanno approvato e ratificato il trattato: Austria, Irlanda, Malta, San Marino Liechtenstein e lo Stato del Vaticano. L’Italia non ha firmato né ratificato il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, pur essendo uno dei cinque stati europei che ospitano testate nucleari statunitensi nell’ambito di accordi Nato presso le basi aeree di Aviano e di Ghedi.

Settantacinque anni e le lotte per la pace non sono passate invano. Ora abbiamo più chiara una visione delle interconnessioni che regolano non solo la sopravvivenza, ma anche l’orizzonte praticabile di una giustizia sociale e possiamo ancor meglio interpretare gli allarmi “romantici” con cui Albert Einstein, Bertrand Russell, Philip Morrison, Omar Bradley, Joseph Rotblat, cercavano di disinnescare il pericolo tutt’altro che irreale di un conflitto atomico.

Stiamo lasciando l’era nucleare per entrare, ci auguriamo, in quella solare. Per molti aspetti l’era solare oggi è al punto in cui si trovava l’era del carbone quando venne inventata la macchina a vapore. In quell’epoca il carbone era usato per riscaldare le abitazioni e per fondere materiale ferroso, mentre era appena agli inizi l’idea di usare motori a vapore alimentati a carbone per fornire energia alle fabbriche o ai sistemi dì trasporto.

Quando si considerano le tecnologie solari, gli attuali leader politici, ancora affascinati dal carbone e dall’energia nucleare, si comportano come gli scettici del XVIII secolo nei confronti del motore a vapore. L’era solare non può che coesistere con la pace e in tale contesto la connessione tra nucleare civile e militare ha continuato a rappresentare ancor oggi una contraddizione irrisolta.

Sappiamo quanto siano in atto tendenze ambientali che minacciano di alterare a fondo il pianeta e che mettono in pericolo la vita di molte specie che lo abitano, compreso l’uomo. Ogni anno nove milioni di ettari di suolo produttivo si trasformano in arido deserto; ogni anno vengono abbattuti oltre undici milioni di ettari di foreste, che equivarranno in un quarto di secolo a una superficie pari a quella dell’India. In un tempo che viene a mancare è di segno positivo lo slancio dei primi 50 Paesi per bandire il nucleare.

Ora tocca a noi, alla pressione che sapremo fare a cominciare dai nostri Comuni, le nostre Regioni, il nostro Governo. Nell’ultima enciclica “Fratelli Tutti” Francesco sembra anticipare l’avvenimento del 24 ottobre scorso, quando scrive: “Mai più la guerra! E che l’obiettivo finale dell’eliminazione totale delle armi nucleari diventi una sfida e sia un imperativo morale e umanitario. E con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per sconfiggere la fame e la povertà”. Basterà uno sforzo congiunto, non solo a sconfiggere il coronavirus, ma anche a non tornare più a come eravamo prima?

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Il trattato di non proliferazione nucleare compie 50 anni. Ma le grandi potenze continuano a tendere i muscoli

Il 6 e 9 agosto 2020, il mondo commemorerà il 75esimo anniversario dei bombardamenti atomici statunitensi di Hiroshima e Nagasaki. Quasi in concomitanza, i giochi olimpici – se il coronavirus fosse debellato – si dovrebbero concludere a Tokyo il 9 agosto.

Poiché il Trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari (Npt) celebra oggi – 5 marzo 2020 – 50 anni dalla sua entrata in vigore, questo e quell’anniversario costituiscono un’occasione unica per educare le persone sulle catastrofiche conseguenze umanitarie delle armi nucleari e sul significato del nuovo Tpnw (Trattato delle Nazioni Unite per la proibizione delle armi nucleari), sostenuto dall’Ican (la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari), rendendo pubblico sostegno al lavoro per vietare ed eliminare le armi nucleari.

Il mondo non è fermo al contesto del Npt, ma una nuova spinta propulsiva viene dalla iniziativa dell’Ican. Una proposta ancora più avanzata, che prevede un trattato di divieto di possesso e gestione delle armi nucleari e che finisce col rafforzare di fatto il Npt, messo in discussione unilateralmente dal presidente Usa Donald Trump.

Ma le grandi potenze continuano a tendere i muscoli: una nuova corsa agli armamenti nucleari è già in corso. Non si tratta tanto di armi in fase di progettazione o sviluppo, ma del rischio che una nuova corsa agli armamenti nucleari tra la Russia e gli Stati Uniti rappresenta per il mondo. Nell’agosto scorso gli Stati Uniti hanno mandato un segnale eloquente, ritirandosi dall’Intermediate Nuclear Forces Trea­ty (Inf) sui missili nucleari a corto e medio raggio, ed è noto che allo stato attuale è difficile che Stati Uniti e Russia rinnovino il Trattato New Start sulla riduzione delle armi nucleari strategiche, quando scadrà nel 2021.

Parimenti, nessuno dei due Paesi ha sottoscritto il Tpnw lanciato nel 2017. Cosa ancora più significativa, le strategie difensive della Russia e degli Stati Uniti continuano a consentire l’uso di armi nucleari contro minacce non nucleari, acuendo il rischio di un conflitto irreparabile. La Russia considera apertamente le proprie armi nucleari una difesa contro il dominio detenuto dagli Stati Uniti e dalla Nato quanto a capacità bellica convenzionale. Nell’ultima Nuclear Posture Review (Npr, i Rapporti del Pentagono sulla strategia nucleare degli Stati Uniti) del febbraio 2018, l’opzione nucleare è stata prevista contro gli “attacchi strategici significativi” non nucleari, compresi i terroristi e le armi biologiche e chimiche globali.

Tranne la Cina, nessuna potenza nucleare ha assunto l’impegno al No First Use, cioè a non ricorrere per primi all’impiego delle armi nucleari. In questo contesto la Conferenza di revisione del Npt, prevista per la prossima primavera, rischia di tramutarsi in una sorta di mischia generale diplomatica in cui gli Stati non nucleari rinfacceranno a quelli che posseggono armi nucleari, firmatari del Trattato (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Cina), di aver violato il loro impegno al disarmo ai sensi dell’articolo VI.

L’appuntamento sarà senza dubbio occasione di dibattiti e controversie, ma da essa potrebbe arrivare una spinta per rilanciare iniziative già approvate nelle Conferenze precedenti e tuttora da promulgare: per esempio, l’istituzione di una Nuclear Weapons Free Zone in Medio Oriente, così come un rinnovato impegno collettivo per sostenere il Npt.

La Conferenza Onu del 2017 sulla proibizione delle armi nucleari ha mostrato che c’è un consenso globale sulla loro abolizione tra gli Stati non nucleari, compresa la Santa Sede, e le organizzazioni della società civile. Nel corrente anno verrà organizzata una conferenza per trarre un primo consuntivo dell’azione intrapresa. Nel percorso di preparazione è emersa la resistenza della maggioranza non nucleare al “bullismo” degli Stati in possesso di armi nucleari, così come la volontà della maggioranza dei Paesi Onu di procedere per conto proprio alla definizione dei termini di sicurezza internazionale, fino a quando le grandi potenze, i loro alleati e alcuni “Stati ombrello” non saranno pronti a unirsi a essi.

Mentre a livello delle grandi potenze è in atto un indiscutibile processo di erosione del sistema di controllo degli armamenti nucleari; a livello internazionale è emersa invece una grande novità: su pressione dell’Ican è stato negoziato presso la sede delle Nazioni Unite a New York un nuovo trattato, con la partecipazione di oltre 135 stati e membri della società civile. Il 7 luglio 2017 la stragrande maggioranza degli Stati (122) ha adottato un accordo storico: il Trattato sul divieto delle armi nucleari (Tpnw).

Si tratta di una convenzione vincolante aperta alla firma dal 20 settembre 2017 e che entrerà in vigore dopo che almeno 50 Stati lo avranno ratificato. A partire dal 25 novembre 2019, 80 stati hanno firmato e 34 stati hanno ratificato questo trattato. Prima di una sua assunzione, le armi nucleari rimarrebbero le uniche armi di distruzione di massa non completamente bandite, nonostante le loro catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali.

Questo nuovo accordo colmerebbe un’importante lacuna nel diritto internazionale, “vietando ai paesi di sviluppare, testare, produrre, fabbricare, trasferire, possedere, immagazzinare, minacciare di usare armi nucleari o consentire lo spiegamento di armi nucleari nei territori”. La prospettiva aperta è entusiasmante: potrebbe addirittura avverarsi che nell’anno del 50esimo del Npt venga ratificato il Tpnw da almeno 50 Stati. “50+50” può essere lo slogan del pacifismo, anche se viene occultato dai media che operano per l’establishment muscolare che governa il pianeta e che traccia una line di continuità tra potenza militare, distruzione della natura. cambiamento climatico, controllo della popolazione, respingimento dei migranti.

Non a caso papa Francesco ha dichiarato che “è da condannare con fermezza la minaccia dell’uso delle armi nucleari, nonché il loro stesso possesso”. Ma, oltre alla sua determinazione, occorre convincere tutti noi, credenti e non credenti, che la pace, il disarmo e la giustizia climatica e sociale possono ancora risanare il pianeta malato.

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Germania: 200 milioni di compresse di iodio, solo aspirine per impensabili sciagure nucleari?

Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano

Due settimane fa ilfattoquotidiano.it dava una notizia sorprendente, almeno a prima vista: un maxi ordine da 190 milioni di compresse di iodio anti-radiazioni era stato inoltrato a un produttore austriaco dall’Ufficio federale tedesco per la protezione dalle radiazioni. E’ noto come lo iodio “buono” agisca saturando la tiroide e impedendo che si accumuli nella ghiandola quello radioattivo, in grado di provocare tumori. Notizia ghiotta, ma a prima vista stravagante.

Dopo un G7 che finalmente si è accorto che l’Amazzonia brucia, che in Iran è meglio trattare che bombardare, che la guerra dei dazi rende tutti perdenti, come mai torna in vita la paura del nucleare? Dopo gli abbracci, tra una prova missilistica e l’altra, tra Trump e Kim Jong-un e dopo la clamorosa uscita di scena, almeno negli Usa e in Europa, dei reattori nucleari come prospettiva energetica risolutiva.

In effetti, il cambio di cultura imposto dalla minaccia della catastrofe climatica impone non solo il controllo delle emissioni climalteranti, ma anche il pieno controllo sociale delle tecnologie per prendersi cura della Terra e l’incompatibilità tra radiazioni e salute dell’intera biosfera si è rivelata insormontabile. Così, il nucleare civile è ormai residuale negli Stati Uniti dove fornisce un contributo alla produzione di elettricità del 20% proveniente da 99 reattori nucleari attivi con un’età media di circa 37 anni, mentre in tutta l’Ue si prevedono dismissioni e abbandoni, con i due grandi reattori di Areva ancora di là da venire.

Da dove viene allora l’imprevisto ordine tedesco di immunizzazione radioattiva della popolazione, quando la guerra nucleare passa per un esercizio maniacale di Trump e sono solo 451 i siti nucleari civili attivi nel mondo contro 63mila impianti tradizionali, che invece attirano le maggiori preoccupazioni per le emissioni di CO2? Bastano quattro considerazioni, purtroppo trascurate dai media, per giustificare l’allarme.
1. Il progetto di documento, chiamato Nuclear Posture Review, che espone la strategia nucleare degli Stati Uniti di recente elaborazione, consente l’uso di armi nucleari per rispondere a una vasta gamma di attacchi devastanti, ma non nucleari, alle infrastrutture americane, inclusi gli attacchi informatici. Il nuovo documento è il primo a espandersi oltre lo scambio di attacchi atomici, per includere i tentativi di distruggere infrastrutture di vasta portata, come la rete elettrica o le comunicazioni di un paese, in quanto sarebbero più vulnerabili alle armi informatiche. La nuova strategia sotto Trump sarebbe la risposta pronta non solo ai progressi nucleari della Corea del Nord e dell’Iran, ma anche a quelli di hackering informatici da parte di Russia e Cina. Se il cyber può causare un malfunzionamento fisico delle principali infrastrutture con conseguenti morti, il Pentagono ha ora trovato il modo di “stabilire una dinamica dissuasiva” ricorrendo all’impiego della bomba nucleare. Anche a tal fine si è stabilito il prezzo per un rifacimento trentennale dell’arsenale nucleare Usa (comprese le B61 di Aviano e Ghedi!) in oltre 1,2 trilioni di dollari.

2. L’incidente nucleare dell’8 agosto, in una città della Russia sub-artica nella provincia di Archangelsk in Siberia (vedi Yurii Colombo su il manifesto, 14 agosto 2019), totalmente oscurato dall’entourage di Putin anche dopo che si è registrato un livello di radioattività 16 volte maggiore rispetto ai valori normali, si suppone dovuto a un’esplosione durante i test su un reattore con una fonte di energia a radioisotopi montato su un razzo da crociera. Programmi di ricerca simili sono stati condotti negli Stati Uniti. I dubbi sull’esplosione dell’8 agosto non sono legati tanto al tasso di radioattività ma al tipo di radiazioni emesse, su cui “si sa davvero poco”.

3. La maledizione di Fukushima: “Il governo giapponese inganna l’Onu, violati i diritti umani di lavoratori e bambini”. Così riferisce l’Ansa dell’8 marzo riferendo l’accusa di Greenpeace, che, a otto anni dal disastro dell’11 marzo 2011, pubblica un rapporto che certifica che i livelli di radiazione nella zona di esclusione e delle aree di evacuazione intorno alla centrale sono da cinque a oltre cento volte più alti del limite massimo e che in oltre un quarto dell’area la dose annuale di radiazioni a cui sarebbero esposti i bambini potrebbe essere 10-20 volte superiore al massimo raccomandato. A distanza di otto anni dall’incidente non si vede nessuna prospettiva di soluzione. La rimozione del combustibile presente nelle piscine dei reattori danneggiati (per un totale di 1.393 elementi) è stata completata solo per l’unità 4, mentre per l’unità 3 dovrebbe iniziare entro quest’anno e solo nel 2023 per le unità 1 e 2. Un immane disastro nello spazio e nel tempo.

4. Infine c’è da prendere in considerazione il rilancio senza clamori della tecnologia nucleare, previsto da uno dei siti web più influenti sul piano delle politiche industriali. Il website “dell’innovazione e dell’industria manifatturiera Usa” con sede nel Michigan riporta che in Cina sono partiti due reattori “sicuri” che eliminano la necessità di sistemi di raffreddamento esterni, cosa che è fallita a Fukushima. “Questa tecnologia sarà sul mercato mondiale entro i prossimi cinque anni”, ha detto Zhang Zuoyi, il direttore dell’Institute of Nuclear and New Energy Technology di Pechino. “Stiamo sviluppando questi reattori per conquistare il mondo”. Intanto la Nasa sta collaudando il progetto Kilopower, un reattore nucleare compatto con il potenziale per alimentare le missioni sulla Luna, su Marte e persino nei più profondi tratti dello spazio.

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Nucleare, la Germania ordina pastiglie anti-radiazioni per tutti. E purtroppo l’allarme è giustificato

Due settimane fa ilfattoquotidiano.it dava una notizia sorprendente, almeno a prima vista: un maxi ordine da 190 milioni di compresse di iodio anti-radiazioni era stato inoltrato a un produttore austriaco dall’Ufficio federale tedesco per la protezione dalle radiazioni. E’ noto come lo iodio “buono” agisca saturando la tiroide e impedendo che si accumuli nella ghiandola quello radioattivo, in grado di provocare tumori. Notizia ghiotta, ma a prima vista stravagante.

Dopo un G7 che finalmente si è accorto che l’Amazzonia brucia, che in Iran è meglio trattare che bombardare, che la guerra dei dazi rende tutti perdenti, come mai torna in vita la paura del nucleare? Dopo gli abbracci, tra una prova missilistica e l’altra, tra Trump e Kim Jong-un e dopo la clamorosa uscita di scena, almeno negli Usa e in Europa, dei reattori nucleari come prospettiva energetica risolutiva.

In effetti, il cambio di cultura imposto dalla minaccia della catastrofe climatica impone non solo il controllo delle emissioni climalteranti, ma anche il pieno controllo sociale delle tecnologie per prendersi cura della Terra e l’incompatibilità tra radiazioni e salute dell’intera biosfera si è rivelata insormontabile. Così, il nucleare civile è ormai residuale negli Stati Uniti dove fornisce un contributo alla produzione di elettricità del 20% proveniente da 99 reattori nucleari attivi con un’età media di circa 37 anni, mentre in tutta l’Ue si prevedono dismissioni e abbandoni, con i due grandi reattori di Areva ancora di là da venire.

Da dove viene allora l’imprevisto ordine tedesco di immunizzazione radioattiva della popolazione, quando la guerra nucleare passa per un esercizio maniacale di Trump e sono solo 451 i siti nucleari civili attivi nel mondo contro 63mila impianti tradizionali, che invece attirano le maggiori preoccupazioni per le emissioni di CO2? Bastano quattro considerazioni, purtroppo trascurate dai media, per giustificare l’allarme.

1. Il progetto di documento, chiamato Nuclear Posture Review, che espone la strategia nucleare degli Stati Uniti di recente elaborazione, consente l’uso di armi nucleari per rispondere a una vasta gamma di attacchi devastanti, ma non nucleari, alle infrastrutture americane, inclusi gli attacchi informatici. Il nuovo documento è il primo a espandersi oltre lo scambio di attacchi atomici, per includere i tentativi di distruggere infrastrutture di vasta portata, come la rete elettrica o le comunicazioni di un paese, in quanto sarebbero più vulnerabili alle armi informatiche.

La nuova strategia sotto Trump sarebbe la risposta pronta non solo ai progressi nucleari della Corea del Nord e dell’Iran, ma anche a quelli di hackering informatici da parte di Russia e Cina. Se il cyber può causare un malfunzionamento fisico delle principali infrastrutture con conseguenti morti, il Pentagono ha ora trovato il modo di “stabilire una dinamica dissuasiva” ricorrendo all’impiego della bomba nucleare. Anche a tal fine si è stabilito il prezzo per un rifacimento trentennale dell’arsenale nucleare Usa (comprese le B61 di Aviano e Ghedi!) in oltre 1,2 trilioni di dollari.

2. L’incidente nucleare dell’8 agosto, in una città della Russia sub-artica nella provincia di Archangelsk in Siberia (vedi Yurii Colombo su il manifesto, 14 agosto 2019), totalmente oscurato dall’entourage di Putin anche dopo che si è registrato un livello di radioattività 16 volte maggiore rispetto ai valori normali, si suppone dovuto a un’esplosione durante i test su un reattore con una fonte di energia a radioisotopi montato su un razzo da crociera. Programmi di ricerca simili sono stati condotti negli Stati Uniti. I dubbi sull’esplosione dell’8 agosto non sono legati tanto al tasso di radioattività ma al tipo di radiazioni emesse, su cui “si sa davvero poco”.

3. La maledizione di Fukushima: “Il governo giapponese inganna l’Onu, violati i diritti umani di lavoratori e bambini”. Così riferisce l’Ansa dell’8 marzo riferendo l’accusa di Greenpeace, che, a otto anni dal disastro dell’11 marzo 2011, pubblica un rapporto che certifica che i livelli di radiazione nella zona di esclusione e delle aree di evacuazione intorno alla centrale sono da cinque a oltre cento volte più alti del limite massimo e che in oltre un quarto dell’area la dose annuale di radiazioni a cui sarebbero esposti i bambini potrebbe essere 10-20 volte superiore al massimo raccomandato.

A distanza di otto anni dall’incidente non si vede nessuna prospettiva di soluzione. La rimozione del combustibile presente nelle piscine dei reattori danneggiati (per un totale di 1.393 elementi) è stata completata solo per l’unità 4, mentre per l’unità 3 dovrebbe iniziare entro quest’anno e solo nel 2023 per le unità 1 e 2. Un immane disastro nello spazio e nel tempo.

4. Infine c’è da prendere in considerazione il rilancio senza clamori della tecnologia nucleare, previsto da uno dei siti web più influenti sul piano delle politiche industriali. Il website “dell’innovazione e dell’industria manifatturiera Usa” con sede nel Michigan riporta che in Cina sono partiti due reattori “sicuri” che eliminano la necessità di sistemi di raffreddamento esterni, cosa che è fallita a Fukushima. “Questa tecnologia sarà sul mercato mondiale entro i prossimi cinque anni”, ha detto Zhang Zuoyi, il direttore dell’Institute of Nuclear and New Energy Technology di Pechino. “Stiamo sviluppando questi reattori per conquistare il mondo”. Intanto la Nasa sta collaudando il progetto Kilopower, un reattore nucleare compatto con il potenziale per alimentare le missioni sulla Luna, su Marte e persino nei più profondi tratti dello spazio.

Attenti, quindi, perché zitti zitti i militari più aggressivi e i sostenitori di una tecnologia che sfugge al controllo sociale e alla riproduzione della biosfera potrebbero ricominciare, magari dai missili, dai robot e dallo spazio, lontano da occhi umani, a riproporci una strada che sembrava desueta e da abbandonare definitivamente. Ma quanti altri disastri nucleari e quante tonnellate di pastiglie a mo’ di aspirina ci occorrono per costringere finalmente i politici – eletti per governare non solo il presente, ma anche il futuro dei nostri figli – a porre fine alla follia nucleare?

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