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A DUE ANNI DAL REFERENDUM SUL NUCLEARE

Il 12 e 13 giugno 2011  i Cittadini italiani hanno bocciato il nucleare per la seconda volta:

cosa è cambiato da allora?

La notizia cattiva

 

Le scorie radioattive non hanno trovato alcuna collocazione responsabile, quelle che non sono nei siti italiani a rischio si stanno godendo una costosa quanto inutile e pericolosa vacanza all’estero, a Sellafield in Inghilterra o a La Hague, in Francia, da dove torneranno tra pochi anni senza che si sappia dove sistemarle in condizioni di decente sicurezza per un periodo di almeno diecimila anni (vedere allegati di ISPRA e di Sogin).

 

Non sono ancora neppure stati individuati i criteri per scegliere il sito per il deposito nazionale, che secondo la legge vigente 368/2003 andava realizzato entro il 31.12.2008, in modo democratico e trasparente, in una località che potesse oggettivamente rendere il rischio più basso, almeno  per quanto possibile.

 

Viceversa Sogin ha avviato in tutti i centri nucleari la realizzazione di depositi, definiti “temporanei”, ma privi di scadenza: se verranno completati siamo convinti che da questi siti a rischio i rifiuti radioattivi non se ne andranno via mai più!

 

 

La notizia buona

 

I pannelli fotovoltaici nell’anno 2012 hanno prodotto oltre diciotto miliardi di kWh di energia elettrica dal sole (vedere allegato del GSE).

 

La produzione è in continua crescita, e altri quattro anni con una produzione anche solo eguale al 2012 faranno sì che il fotovoltaico da solo supererà la produzione totale di energia elettrica ottenuta da tutte e quattro le centrali nucleari italiane in tutti gli anni del loro funzionamento (93 miliardi di kWh totali), e senza lasciarci in eredità tutte quelle scorie radioattive per miliardi di miliardi di Becquerel che nessuno oggi sa come sistemare, e neppure le centinaia e centinaia di kg di quel plutonio la cui dose mortale per inalazione è di solo un decimo di milligrammo.

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Le risposte di ENEL (elusive) agli azionisti critici

Nel 2012 il 31% dei 295,8 TWh di energia elettrica prodotti da Enel è venuto dal carbone, con una crescita del 6,6% rispetto all’anno precedente. Più carbone soprattutto in Italia, tanto che nel mix dell’azienda è passato dal 34,1% del 2010 al 48,4% nel 2012, crescendo di oltre il 14,3%. Nel solo 2009 il carbone Enel ha emesso 888 tonnellate di PM10, 19.825 di NOx, 24.033 di SOx e 27,7 milioni di tonnellate di CO2, inquinamento che tradotto in danni economici fa 1,7 miliardi di euro, di cui 840 milioni di costi esterni per inquinamento, 932 per la CO2 e 3,5 milioni di danni diretti all’agricoltura. Ci sono poi i danni sanitari: gli impianti Enel, con il loro inquinamento, in quell’anno secondo gli studi commissionati da Greenpeace avrebbero provocato 366 morti premature (si veda studio). Se si considerano i piani di espansione dell’azienda, con le centrali a carbone di Porto Tolle e Rossano Calabro, in futuro si potrebbe arrivare anche a sfiorare i 500 casi di morti premature all’anno.

Eppure se un azionista del gigante energetico – che tra l’altro è per il 31,24% del ministero del Tesoro, dunque anche degli italiani – solleva dubbi sulle politiche dell’azienda su questa fonte sporca, Enel ribatte in maniera evasiva, limitandosi a ricordare che i suoi investimenti sono perfettamente legali.

Basta leggere quello che l’ex monopolista ha risposto ai numerosi quesiti che gli azionisti critici, rappresentati da Banca Etica, hanno portato all’Assemblea dello scorso 30 aprile (vedi qui e allegato in basso). Domande che chiedono conto, oltre che di investimenti controversi all’estero (come quelli nel nucleare nei paesi baltici o in grandi progetti idroelettrici in Sudamerica), anche di tutte le problematiche correlate agli investimenti in nuovi impianti a carbone o riconversioni in Italia. Interrogativi molto puntuali, cui Enel risponde in maniera piuttosto generica.

Per fare solo un esempio, sull’impianto di Torrevaldaliga Nord a Civitavecchia si chiede nell’ordine:

  • Qual è stato, in media, il ritorno netto di ciascun MW di elettricità prodotto da carbone nel 2012?
  • Considerato il fatto che l’impianto si trova al confine con un’area urbana, quali precauzioni si sono prese al fine di evitare, in caso di eventi accidentali, il rischio di un effetto domino?
  • Dove sono state smaltite le ceneri radioattive e quanto è alto il costo dello smaltimento?
  • Qual è l’ammontare dell’indennizzo per ciascun comune e per istituzioni e associazioni, pubbliche o private?
  • Quali sono le spese legali e processuali che la Società stima in relazione ai processi su Torrevaldaliga e quanti e quali dirigenti e impiegati, in essere o cessati, sono coinvolti nei procedimenti e per quale ragione?
  • Qual è il costo per tonnellata del tipo di carbone usato oggi?
  • Quale sarebbe il costo nel caso in cui il carbone avesse un contenuto di zolfo < 0,3%?
  • A che punto è e quanto costerà il processo per la realizzazione del “Parco dei Serbatoi”? L’area del vecchio sito è stata oggetto di una procedura di recupero in conformità alla normativa ambientale applicabile?

Risposta di Enel: “L’impianto a carbone di Torrevaldaliga Nord risponde pienamente alle prescrizioni di legge e ha ricevuto l’AIA con l’autorizzazione a restare in funzione per i prossimi 8 anni. I rapporti con il Comune sono regolati da un’apposita convenzione del 2008, che regola anche l’entità del contributo da erogare al Comune stesso per la presenza dell’impianto sul territorio”. Tutto qui. Di analogo tenore le risposte alle dettagliate domande sugli altri impianti: Rossano, Porto Tolle, la Spezia. Liquidate in maniera simile anche le obiezioni degli azionisti sul perché negli impianti geotermici del Monte Amiata Enel non stia utilizzando la tecnologia con il minor impatto ambientale disponibile, quella a ciclo binario (si veda sempre allegato in basso).

“Enel non ha mancato, in questa circostanza come in altre, di dimostrarsi un’azienda reticente – commenta amaro a QualEnergia.it Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia – la solfa è sempre la stessa: i nostri impianti operano entro i limiti di legge e in base alle autorizzazioni concesse. Se anche non vi fossero indagini in corso riguardo molte delle attività produttive di Enel – da Brindisi a Genova, da Porto Tolle a Civitavecchia – e seppure non vi fossero sentenze di condanna a carico dell’azienda e dei suoi vertici passate in giudicato, questo tipo di risposte vuol dire poco o nulla. Greenpeace non contesta a Enel di operare fuori dalla legge: le contesta di causare danni sanitari ed economici enormi, col carbone, in Italia e in Europa; e di contribuire consistentemente alla distruzione del clima. Per questo chiediamo a Enel di cambiare strada, di puntare sull’innovazione, sulle fonti rinnovabili e sulla promozione dell’efficienza. Quando l’azienda non risponde con questo vuoto mantra aziendale – ‘tutto è a norma, tutto è a norma!’ – risponde attraverso le carte dei suoi avvocati. Ormai gli appuntamenti che Greenpeace ha con i legali di Enel, in molti tribunali italiani, non si contano. Per noi le carte bollate non sono un problema: già abbiamo battuto Enel sul piano legale, crediamo di poterlo fare ancora. Il punto è se un’azienda controllata dallo Stato, di fronte ad accuse gravi quali quelle che noi e altri le muovono, sia autorizzata a procedere così: senza mai rispondere davvero e – semmai – querelando, denunciando, promuovendo ricorsi e avanzando enormi richieste di risarcimento. A noi sembra un segno di gravissima irresponsabilità”.

Le risposte di Enel agli azionisti critici (pdf)

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Il nucleare francese disoccupa i lavoratori A2A

Turbigo, Cassano, Sermide e Tusciano sono le centrali idroelettriche in capo ad A2A che rischiano la chiusura (vedi articolo stampa de “Il Giorno sotto riportato): l’energia elettrica comprata dalla Francia (nucleare) è, truffaldinamente, meno cara (non si calcolano le esternalità ambientali e sociali). Circa 400 posti di lavoro sono in gioco, a quanto riporta il giornalista Nicola Palma.

La Francia è costretta a svendere il suo surplus di notte e noi  – italiani furbastri, non furbi – approfittiamo contribuendo al rischio nucleare che non ci risparmierebbe. Un sistema basato sul nucleare è, infatti, molto rigido, le centrali nucleari non sono molto modulabili, la Francia deve quindi avere una potenza di base capace di coprire i picchi delle variazioni giornaliere della domanda, per cui quando questa è minima produce energia elettrica in eccesso, che è costretta, appunto, a vendere a prezzi stracciati (ma per picchi eccezionali della domanda deve comprare energia, molto cara: per affrontare le ondate di freddo in inverno, ad esempio, importa energia dalla Germania).

In questo momento però esiste – se guardiamo la questione con un approccio più generale – una crisi di sovraproduzione di tutto il settore elettrico e qui si parla di 4.000 posti in esubero, secondo quanto riferisce, ad esempio, Luca Pagni su Repubblica – come si riporta sotto.

In merito alla vicenda occupazionale A2A il sindacato di base USB – che denuncia l’importazione elettrica dalla Francia (“con ogni probabilità nucleare visto che questo Paese produce la sua elettricità all’80% da fonte nucleare”) sta partecipando ai Tavoli di trattativa con l’azienda ed ha in programma l’organizzazione di una conferenza stampa, probabilmente giovedi prossimo (ma ancora la decisione definitiva non è stata presa).

Ieri c’è stato in incontro A2A-Sindacati ed un comunicato della UGL, riportato oggi dalla Reuters, lamenta che l’azienda non starebbe recedendo dal suo piano di esuberi.

Purtroppo, nel nuovo incontro con A2A sul piano di riorganizzazione della rete, non è stato fatto nessun passo indietro sui 200 esuberi annunciati dall’azienda, a cui si sommano altri 150 per il progetto di integrazione con Edipower, di cui discuteremo invece la prossima settimana. Confermata anche la cig ordinaria per altri circa 300 dipendenti delle 4 centrali di Cassano d’Adda, Sermide, Turbigo e Chivasso“, commenta nella nota Luigi Ulgiati, segretario nazionale di Ugl chimici.

Per quanto riguarda le posizioni del C.A.V.R.A., che ribadisco, è noto che noi condividiamo la linea della ripubblicizazione di A2A per lanciare il modello “rinnovabile” che dovrebbe non solo garantire, ma sicuramente moltiplicare l’occupazione.

Questa linea dovrebbe passare per lo scorporo di A2A nelle originarie AEM di Milano e ASM di Brescia: le municipalizzate locali sono il veicolo indispensabile per una politica partecipata che ci traghetterà nella “rivoluzione energetica”, quella che, scusate il gergo usato per ragioni di brevità, necessita alla “rivoluzione economica” della conversione ecologica post-crescita.

 di Alfonso Navarra – vicepresidente Associazione Energia Felice – Comitato attuare la volontà del referendum antinucleare 

 

Lombardia – Il colosso A2A annuncia 400 esuberi. I sindacati: tagli anche per i manager

di Nicola Palma da il Giorno del 09/03

LA CRISI non risparmia neanche un colosso come A2A. L’altro giorno, i vertici del gruppo leader nel settore energetico hanno annunciato ai sindacati confederali la necessità di procedere a tagli del personale: circa 400 esuberi, in parte derivanti dall’integrazione tra A2A ed Edipower, in parte da processi di efficientamento sulla gestione delle reti elettriche e del gas. Esuberi un po’ inattesi, a dir la verità: basti ricordare che non più tardi dello scorso 3 novembre, in occasione della presentazione del piano industriale, il presidente del Consiglio di gestione, Graziano Tarantini, aveva promesso che A2A non avrebbe licenziato «un solo dipendente». Non sarà così. Anzi. Sì, perché l’azienda — che ha come principali azionisti i Comuni di Milano e Brescia col 27,456% di quote a testa — intende far ricorso pure alla cassa integrazione ordinaria a rotazione per gli impianti termoelettrici di Cassano, Turbigo, Sermide e Chivasso: si prevede una fermata di 40 settimane a impianto nel corso nel biennio 2013-2014 a causa del calo dei consumi di energia e delle vendite. Misure che, nelle intenzioni della dirigenza della società nata il primo gennaio di 5 anni fa, contribuiranno a ottenere un risparmio di 70 milioni di euro entro il 2015. Mobilità, prepensionamenti e incentivi all’esodo, le tre formule indicate da A2A per ridurre il numero di dipendenti.

UNA DECISIONE giustificata con «la profonda crisi dei settori industriali in cui opera», pur confermando investimenti da 1,2 miliardi di euro nei prossimi 3 anni. Obiettivo dichiarato del gruppo è comunque quello di arrivare in tempi brevi a un comune accordo con i rappresentanti dei lavoratori, in modo da «ridurre al minimo l’impatto di tali iniziative». E la risposta dei sindacati non si è fatta attendere. Ecco in breve le richieste avanzate da Giacomo Berni, segretario nazionale Filctem Cgil, e Carlo Meazzi, segretario nazionale Fleai-Cisl: innanzitutto, nessun licenziamento e sostegno al reddito di chi verrà accompagnato alla pensione. E ancora, sacrifici economici estesi a tutti, a cominciare dai top manager dell’ex municipalizzata, e drastica riduzione del numero di consulenze esterne per ridurre ulteriormente i costi. In ogni caso, chiariscono i delegati sindacali, l’auspicio è che A2A si impegni a minimizzare l’impatto sociale dei provvedimenti: «Siamo contrari ai licenziamenti — chiarisce Berni — all’azienda abbiamo chiesto che nessuno venga lasciato a piedi: del piano di risparmi non possono farsi carico solo i dipendenti ma i sacrifici devono essere distribuiti anche tra i dirigenti».
Nicola Palma
nicola.palma@ilgiorno.net

Energia in crisi, le centrali si fermano. Da Enel ad A2a, utility costrette a ridurre il personale

Luca Pagni da la Repubblica del 12 marzo 2013MILANO — Centrali elettriche chiuse, o almeno, “in stato di conservazione”. Non sono spente del tutto, ma di fatto gli impianti per la produzione di energia vengono fermati. Per risparmiare sulla materia prima. E limitando l’attività, anche sul personale. Tanto che con i sindacati sono già partire le trattative per oltre 4mila esuberi in tutto il settore, di cui la maggior parte riguardano Enel. E tutto fa pensare che sia solo l’inizio. Hanno retto fino a quando hanno potuto. Ma ora, anche le utility, le aziende che producono e vendono sul mercato energia elettrica, sentono tutto il peso della recessione. Sia i grandi gruppi italiani e stranieri presenti nelle penisola, così come le ex municipalizzate. Risentono del crollo della domanda di energia a causa del calo della produzione industriale, nonché della concorrenza delle rinnovabili. Non è esagerato parlare di crollo: a febbraio, la domanda di energia è calata del 5% rispetto al 2012 e nell’ultimo anno e mezzo ci sono stati solo quattro mesi in positivo. Tanto che Assoelettrica, la Confindustria di settore ha parlato di «recessione cronica» e di situazione «intollerabile e drammatica».

Così, come non va sottovalutato il fenomeno rinnovabili: nelle regioni del Sud ci sono già stati giorni in cui l’intera produzione è a carico di eolico e fotovoltaico e in certe ore del giorno il costo dell’energia è arrivato a quota zero. Due fenomeni che stanno erodendo i margini dei produttori, in particolare di chi opera con le centrali alimentate a olio combustibile e a gas. E il protrarsi della recessione, ormai prevista anche per il 2013, ha costretto i manager a scelte non più rinviabili. Nei giorni scorsi, ha cominciato l’utility lombarda A2a (controllata alla pari dai comuni di Milano e Brescia) a comunicare ai sindacati un esubero di 400 persone. Non solo: ci sarà la fermata a rotazione di 4 centrali (Chivasso, Sermide, Turbigo e Cassano), nonché il ricorso alla cassa integrazione a rotazione per il personale. La messa in “conservazione” di tre centrali riguarda anche Edison, il secondo gruppo italiano del settore, con gli impianti di Sarmato, Porto Vito e Jesi.

Gli esuberi nel caso della società passata sotto il controllo del colosso francese Edf riguarda non più di una quarantina di persone. E meno di 200 dipendenti sui 1250 totali, il personale in eccesso della filiale italiana dei tedeschi di E.On, di cui 120 alla centrale di Fiume Santo in Sardegna. Ma tutto il settore aspetta quanto verrà comunicato domani da Enel, alla presentazione dei conti del 2012. Si saprà, nel dettaglio, quante centrali potrebbero essere fermate, nonché tempi e modi degli esuberi del gruppo. Enel deve confermare i 3.500 già annunciati (tra uscite volontarie e prepensionamenti) a fine 2012 al sindacato. Ma anche se vuole procedere con i contratti di solidarietà, che potrebbero riguardare 15mila dipendenti sui 35mila totali, tutti non operativi.

 

Energia in crisi, anche a Turbigo la centrale si ferma

Vanessa Valvo su il Giorno del 14 marzo 2013

Turbigo, 14 marzo 2013 – La mancata produzione di energia elettrica delle ultime due settimane sembra già il preludio alla riduzione del lavoro e alla cassa integrazione per il personale di A2A, prevista all’interno delle sue numerose attività, tra le quali anche la Centrale di Turbigo con i suoi 97 dipendenti. Qui da giorni manca pure l’acqua del Naviglio per raffreddare i motori, ufficialmente per lavori di manutenzione lungo il canale. «Le macchine sono comunque pronte in caso di richiesta di energia, noi siamo sugli impianti tutti i giorni, ma senza acqua non possiamo produrre – spiega Valentino Gritta, sindacalista Usb -. Non è la prima volta che succede, ma l’ultima è stata per una vera emergenza, quando il lago Maggiore è andato in secca. Sull’utilizzo idrico del Naviglio c’è, in realtà, anche un contenzioso ancora aperto con la Regione Lombardia, che attualmente sta facendo pagare ad A2A il 200% del canone previsto per l’uso dell’acqua – rivela Gritta – L’azienda vorrebbe pagare per l’utilizzo effettivo dell’acqua, dato che la stessa quantità viene prelevata e rimessa nel corso, chiedendo la riduzione al 50% della tassa consueta. Ma in attesa che il Consiglio di Stato deliberi sul caso, la Regione ha raddoppiato il canone, a garanzia del mantenimento dello stesso introito».

In queste ore i dirigenti di A2A sono impegnati ancor più seriamente sul fronte occupazione. «Dal primo aprile dovrebbe iniziare la cassa alla centrale di Cassano – annuncia il sindacalista Cisl Federenergia Paolo Paolini -, mentre per i prossimi due anni e mezzo è previsto un periodo di riduzione del lavoro dalle 40 alle 52 settimane, compatibilmente con la necessità in rete e di manutenzione degli impianti. Se il mercato migliora, è evidente che le predisposizioni non si allenteranno e non saranno così rigide».

Nello stesso modo è previsto un taglio di 300 lavoratori, pari al 5% tra tutti i settori di cui A2A ed Edipower sono proprietarie, ma questo non significa che verrà depennato particolarmente il personale di una centrale piuttosto che di un’altra. Insieme alle misure di contenimento delle spese che riguarderanno i servizi, dai contratti di telefonia, per esempio, ai fornitori, anche la cassa, quindi, servirà per far risparmiare i 70 milioni di euro che A2A vorrebbe investire, insieme ad un altro miliardo e 230 milioni di euro, nel piano industriale appena deciso. «Siamo stati “comprati” con soldi pubblici e ora da lavoratori ce li vogliono togliere – dichiara Gritta -. Questi 70 milioni di euro, per i quali noi rischiamo il posto di lavoro, si potrebbero recuperare in altro modo, dato che l’anno scorso l’Azienda ha comunque effettuato dei dividendi tra i soci, tra cui ci sono anche i Comuni visto che si tratta di una municipalizzata, pur essendo in passivo. Per cui perché non decurtare i guadagni dall’alto invece che dal basso?».La Usb incontrerà le autorità proprio oggi per parlare in dettaglio del futuro dei dipendenti di Turbigo. «Già a novembre con il fermo di due gruppi su quattro sono state lasciate a casa 42 persone e da 1.770 kilowatt la produzione che ora potremo mettere in rete è scesa a 1.100 kw. La riduzione del personale in realtà è andata in crescendo da quando Enel ha dovuto cedere un terzo della potenza installata e siamo andati sotto Eurogen ed Edipower, quindi circa dal 2000: da 320 dipendenti di allora, ora ci siamo ridotti a 97. Eppure – afferma Gritta – non si produce meno con la crisi economica, perché di contro è cresciuto molto il consumo energetico casalingo. Nel 2003 abbiamo toccato il consumo minimo, ma ora siamo ai livelli di 7-8 anni fa. Di certo ci stanno per chiedere un sacrificio troppo grande: siamo veramente preoccupati».

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Fukushima, due anni dopo

Sono passati due anni da quando in Giappone, sulla costa Nord Est del paese, si sono abbattute le prove generali della fine del mondo. Erano le 14:46 (ora locale) dell’ 11 marzo 2011 quando la terra ha cominciato a tremare e non ha smesso per sei lunghissimi minuti. A questo spaventoso terremoto di magnitudo 9 è seguito uno tsunami con onde alte anche 15 metri che hanno danneggiato gravemente la centrale nucleare di Fukushima Daiichi causando quello che viene oggi ricordato come il secondo disastro più grave al mondo, dopo quello di Chernobyl del 1986.

Due anni dopo il disastro nucleare sembra ridimensionato, per lo meno lo sono le sue conseguenze dirette sulla salute umana: secondo un rapporto dell’ Organizzazione mondiale per la sanità (Oms) il rischio di sviluppare un cancro è aumentato in maniera molto lieve, e solo nella popolazione delle aree più vicine al disastro. A 24 mesi però i lavori di decontaminazione e ricostruzione sono ancora quasi a zero e gran parte della popolazione evacuata non è mai tornata, soprattutto quella più giovane. E intanto il governo vuole riaprire le centrali nucleari.

Rischi per la salute
Alla fine di febbraio l’Oms ha pubblicato il rapporto in cui stima l’aumento del rischio di cancro come conseguenza diretta dell’incidente nucleare alla centrale di Fukushima Daiichi. L’analisi conferma le previsioni ottimiste che già circolavano un anno fa. Secondo i modelli messi a punto dagli esperti dell’Organizzazione mondiale per sanità, il rischio di sviluppare leucemie più avanti negli anni, è aumentato del 7 per cento per quelli che al momento dell’incidente erano bambini e del 6 per cento per le bambine delle aree entro le miglia dall’impianto. Il rischio di tumori solidi è aumentato invece del 4 per cento. Molto più elevato è invece l’incremento per il cancro alla tiroide, le donne che oggi sono bambine vedranno aumentato il loro rischio di sviluppare un tumore di questo tipo del 70 per cento. Questi numeri apparentemente anche molto alti, spiega l’Oms, indicano l’aumento del rischio e non il rischio assoluto: il rischio base di sviluppare un cancro alla tiroide durante il corso della vita per una donna è di circa lo 0,75 per cento, ed è questo numero che aumenta del 70 per cento, arrivando all’1,25 per cento.

“ Ci sono piccoli incrementi proporzionali, il rischio aggiunto è molto piccolo e verrà nascosto da quello dovuto allo stile di vite e ad altre situazioni. Ha più peso non cominciare a fumare piuttosto che essere stato a Fukushima”, ha spiegato Richard Wakeford dell’ Università di Manchester, coautore del rapporto. Lo studio ha anche preso in considerazione la situazione degli operai dell’impianto che hanno ricevuto la dose più alta di radiazioni durante il meltdown dei reattori. Circa un terzo dei lavoratori vedrà un incremento, ma anche in questo caso il rischio assoluto rimarrà basso.

Secondo il Time, il peggio è stato evitato sia grazie all’immediata evacuazione della città vicine alla centrale sia al bando al cibo proveniente da queste zone. Dopo Chernobyl circa 6000 bambini esposti alle radiazioni hanno sviluppato un cancro alla tiroide perché molti di loro hanno bevuto latte irradiato che il governo sovietico non ha pensato di proibire. Gli autori del rapporto tuttavia spiegano che le loro valutazioni sono basati su una limitata conoscenza scientifica: la maggior parte dei dati relativi agli effetti delle radiazioni disponibili riguarda l’esposizione acuta, come quella che ha seguito le esplosioni di Hiroshima Nagasaki e non un’esposizione cronica a bassi livelli di radiazioni come quella che invece subiranno le popolazioni che abitano vicino alla centrale giapponese.

Poco soddisfatta delle conclusioni dell’Oms è Greenpeace, che ha rilasciato anch’essa il suo rapportopoche settimane fa “ Il rapporto dell’Oms riduce vergognosamente gli effetti dell’immediato rilascio di radiazioni dal disastro di Fukushima sulle persone che si trovavano entro 20 chilometri dalla centrale e che non sono stati in grado di lasciare tempestivamente l’area”, commenta in un comunicato stampa. “Il rapporto è chiaramente un documento politico mirato a proteggere l’industria nucleare e non un paper scientifico redatto con tenendo a mente la salute umana”.

Sempre secondo il Time invece, l’Oms starebbe addirittura sovrastimando i rischi. “ Fukushima, nonostante tutto, non è stata nulla in confronto a Chernobyl. La Tepco ha riportato che gli impianti hanno rilasciato 900mila terabequerel di radiazioni nell’aria nel momento di massimo picco, mentre furono 5,2 milioni di tb rilasciati durante l’incidente di Chernobyl che ha anche coinvolto un’area di estensione molto maggiore”.

Ritorno al nucleare
Anche secondo il governo giapponese il rapporto dell’Oms sovrastimerebbe i rischi e potrebbe inutilmente alimentare le già forti paure dei cittadini proprio quando il Primo Ministro, Shinzo Abe, ha annunciato la sua intenzione di riaprire e riattivare gli impianti nucleari che erano stati fermati all’indomani del disastro. Come racconta il New York Times infatti, in un discorso tenuto davanti al parlamento a fine febbraio, Abe ha promesso di riaprire le centrali che soddisferanno le nuove stringenti linee guida messe a punto tra la fine del 2012 e gennaio di quest’anno e che saranno adottate da una nuova agenzia regolatrice indipendente, la Nuclear Regulation Autority, entro luglio.

Le nuove misure di sicurezza includono muri di protezione contro gli tsunami più alti (a Fukushima erano di 5 metri e mezzo, facilmente superati dalle onde) ,un aumento delle fonti di energia di emergenza per i sistemi di raffreddamento e la costruzione di centri di comando a prova diterremoto. A oggi nessuno dei 16 impianti nucleari non danneggiati soddisfa questi nuovi standard che, ha dichiarato Abe, dovranno essere adottati “senza compromessi”, ma sempre secondo il Nytimes, molti sono convinti che i sostenitori dell’industria nucleare tra le fila del governo troveranno il modo per aggirarle.

Lenta ricostruzione
Mentre si pensa già a riaprire gli impianti, poco è stato fatto per decontaminare l’area intorno alle centrali danneggiate. Quando fu annunciato, quattro mesi dopo il disastro, il piano del governo per la pulizia della zona, aveva suscitato grandi speranze, racconta ancora il New York Times: sosteneva che il Giappone avrebbe messo in campo le tecnologie più avanzate a disposizione. Già nel Novembre 2011l’Agenzia nazionale per l’energia atomica aveva ne aveva già individuato 25 tecnologie efficaci per rimuovere il cesio radioattivo dall’ambiente e le aziende in grado di metterle in atto.

Molte di queste imprese tuttavia non sono mai state interpellate: le amministrazioni nazionali e locali hanno preferito, spiega il quotidiano statunitense, affidare i lavori alla Kajima Corporation, la più grande impresa di costruzioni giapponese, la stessa che ha realizzato gli edifici dei sei reattori della centrale di Fukushima. Finora la Kajima ha inviato sul posto 1500 uomini che ogni giorno annaffiano le strade e il suolo contaminato con tonnellate d’ acqua e che si dedicano a raccogliere fogliame e suolo contaminato in grandi sacchi della spazzatura che poi rimangono ai margini delle strade o sulle spiagge (questo materiale potrebbe raggiungere i 29 milioni di metri cubi e per il suo smaltimento non vi è ancora nessun tipo di piano). Queste procedure, secondo gli esperti, invece che eliminare i contaminanti potrebbero facilitarne l’ingresso nel suolo, nell’atmosfera o nel ciclo dell’acqua. “ Questa non è decontaminazione, è spazzar via sporcizia e fogliame, ed è irresponsabile”, ha dichiarato Tomoya Yamauchi, un esperto in misura delle radiazioni all’ Università di Kobe che ha collaborato alle valutazioni di efficacia dei diversi sistemi di decontaminazione.

Tutto questo sta provocando una perdita di fiducia nella popolazione che porta le persone che sono state costrette ad allontanarsi a non tornare più. Secondo il quotidiano giapponese Asahi Shimbun sono oltre 72 mile le persone che mancano all’appello nelle 42 municipalità costiere delle tre prefetture (Fukushima, Miyagi e Iwate) colpite più duramente dal terremoto e dallo tsunami. Il 65 per cento degli assenti ha meno di 40 anni: molte giovani famiglie sono emigrate altrove per paura delle radiazioni, per la mancanza di lavoro, di servizi e infrastrutture. L’esodo dei giovani è stato massiccio soprattutto nella prefettura di Fukushima, dove circa 25 mila persone sotto i 40 anni hanno lasciato la zona, portando a una diminuzione della popolazione totale dell’82 per cento.

Questi 72 mila assenti sono quelli che hanno ufficialmente cambiato la loro residenza, ma a mancare all’appello sono molto di più. Dopo il disastro, infatti, sono state evacuate quasi 160mila persone e non tutti quelli che hanno definitivamente lasciato la zone lo hanno dichiarato per non perdere i contributi statali e i risarcimenti. Per esempio Okuma, una delle città più vicine al reattore numero 1 aveva una popolazione di 11.500 persone prima dell’incidente; oggi, sebbene tutti i residenti siano stati evacuati, sulla carta la città ha perso solo 500 abitanti. § 

Fukushima 50
Sono stati soprannominati i Fukushima 50, anche se sono stati almeno una settantina. Sono gli operai della Tepco (l’azienda che gestisce la centrale di Fukushima Daiichi) che sono rimasti al loro posto nei giorni immediatamente conseguenti allo tsunami a lavorare per evitare il meltdown dei reattori e cercare di mettere in sicurezza gli impianti. La stampa internazionale li ha etichettati come kamikaze,suicidieroi, i giapponesi li disprezzano, e loro si sentono responsabili del disastro nucleare e finora erano rimasti in silenzio. Solo dopo il ringraziamento ufficiale da parte del governo giapponese, lo scorso ottobre, qualcuno ha cominciato a raccontare la sua storia, caratterizzata sempre dal senso di colpa.

Come quello che colpisce Atsufumi Yoshizawa, ingegnere della Tepco, uno degli uomini rimasti nella centrale. Sapendo moglie e figlia al sicuro a Yokohama, aveva in testa solo due cose, spiega all’Independent: “ La sicurezza dei miei lavoratori e la completa disattivazione della centrale”. E con lui altre decine di operai condividevano queste priorità. “ Può sembrare strano da fuori, ma è naturale per noi mettere l’azienda al primo posto, non abbiamo mai pensato di abbandonare i l nostro posto”.

Nelle settimane successive, racconta, lui e questi uomini hanno lavorato in condizioni disperate, esponendosi alle radiazioni, ai rischi di crolli e gestendo la situazione fino a quando i vigili del fuoconon sono riusciti a raffreddare nuovamente i reattori. Molti di questi operai tuttavia continuano a rimanere in silenzio e possibilmente nell’anonimato: non c’è gratitudine da parte dei giapponesi per loro. Molti sono ancora sul libro paga di una delle aziende più odiate del Paese, con la quale sono identificati e con la quale si identificano, e per questo motivo sono vittime di ritorsioni e discriminazioni: diversi per esempio, racconta Bbc News, si sono visti rifiutare appartamenti in affitto.

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2 anni dopo FUKUSHIMA

In occasione del secondo anniversario della tragedia di Fukushima, riprendiamo un vecchio articolo di Barbara Spinelli “Il dovere della paura”.

CI SONO momenti così, nella storia degli uomini: dove si reagisce con l’emozione oltre che con la razionalità, perché l’emozione sveglia, incita a stare all’erta. Già in Eschilo, la passione e il patire sono fonti d’apprendimento. È il caso del Giappone da quando, venerdì, lo tsunami s’è aggiunto al terremoto e non solo ha spazzato case, vite, villaggi, ma ha causato l’esplosione di quattro reattori nucleari a Fukushima.All’orrore spuntato dal sottosuolo e dal mare s’aggiunge ora una pioggia radioattiva che spinge chi abita presso le centrali a fuggire o barricarsi in casa. Ci sono momenti in cui si apre una fessura nel mondo, e non solo in quello fisico ma in quello mentale, sicché occorre ricorrere ai più diversi espedienti: all’intelligenza razionale, alla discussione pubblica, ma anche alla paura, questa passione giudicata troppo triste per servire da rimedio.

Non a caso, quando sollecita la responsabilità per il futuro della terra, il filosofo Hans Jonas parla di paura euristica: non la paura che paralizza l’azione o è usata dai dittatori, ma quella che cerca di capire, di scoprire (questo significa euristica ). Che è generatrice di curiosità, prevede il male con apprensione, fa domande, sprona a rettificare quanto pensato e fatto sinora. Jonas evoca addirittura il dovere della paura: «Diventa necessario il “fiuto” di un’euristica della paura che non si limiti a scoprire e raffigurare il nuovo oggetto, ma renda noto il particolare interesse etico che ne risulta»( Il principio di responsabilità, Einaudi ’90).

Alla luce del principio di responsabilità appaiono completamente inani i governi – come l’italiano, il francese – che screditano questa paura, e in tal modo negano la gravità del momento e l’urgenza di correggere i piani nucleari.

Obama e Angela Merkel dicono ben altro: «Non si può fare come se nulla fosse». Non così il ministro dell’energia Eric Besson, o il ministro per lo sviluppo economico Paolo Romani.

Per Besson nulla cambia, neanche le centrali invecchiate come quelle giapponesi: nella conferenza stampa di sabato ha evitato il termine «catastrofe», preferendo il meno allarmante «incidente grave». Stesso atteggiamento in Romani, che ha invitato l’altro ieri a «non farsi prendere dalla paura», senza sapere di che parlava. Non sono i soli: anche i governanti giapponesi hanno a lungo minimizzato, prendendo per buone le assicurazioni dei gestori delle centrali (Tepco, Tokyo Electric Power Corporation). La stessa Tepco che più volte è stata indagata (specie nel 2002-3) per il non rispetto delle norme anti-sismiche.

Apocalisse è vocabolo che s’espande come un virus, dall’inizio del cataclisma. Ma apocalisse è altra cosa, ha legami con la religione: è rivelazione di un piano divino, è l’omega che si ricongiunge all’alfa, è il cerchio terrestre che chiudendosi si schiude all’oltrevita. I colpiti sono innocenti, ma per qualche motivo Dio vuole che la storia terrestre s’esaurisca così, stroncando il libero arbitrio d’ognuno. Per questo conviene dismettere questa parola molto scabrosa, che sigilla gli occhi a quel che accade qui, ora; in terra, in mare. Eventi simili non sono la fine del mondo, pur preludendo forse a essa. Sono piuttosto la fine di un mondo: di certezze, di assiomi cocciutamente coltivati.

In Giappone, per vie misteriose, suscitano ricordi funesti, che hanno radici profondissime nella sua cultura recente. Il collasso delle centrali nucleari rimanda al trauma mai sopito di Hiroshima e Nagasaki, quando Washington diede a Tokyo questa lezione di inaudita violenza. La terra che ti squassa, la solitudine dell’uomo in tanto scompiglio, la natura maligna, la morte nucleare che incombe: nelle teste nipponiche è incubo magari dissimulato ma è sempre lì, in agguato. Lo dicono i volti che ci fissano in queste ore: impietriti, più che impassibili. Lo vediamo nei corpi che d’un tratto s’immobilizzano, come morissero in piedi.

Non è vero che i giapponesi hanno paure più calme, controllate delle nostre. Il loro urlo non è quello di Munch ma è pur sempre urlo. Sappiamo dalla Bibbia quanto possa esser afono l’agnello, e il grido del Giappone è colmo di interrogativi atterriti: perché le autorità hanno permesso che centrali vecchie quarant’anni sopravvivessero? Perché non hanno previsto che anche dal mare poteva venire il mostro? Perché sono così evasive? Perché proprio Tokyo, che ha già vissuto la sventurae se la porta dentro come assillo, s’è fidata della tecnologia, nonè corsa in tempo ai ripari? Ci sono grandi disastri che hanno quest’effetto: di sconvolgere non solo le vite ma vasti castelli di teorie filosofiche ritenute sicure. L’Europa ha conosciuto ore analoghe: accadde nel terremoto di Lisbona, l’1 novembre 1755, e tutte le teorie si scardinarono. Anche quella fu fenditura d’ un mondo: fondato sull’euforia tecnologica, sull’ottimismo, religioso o no.

La modernità iniziava, e già inciampava. Ventidue anni prima, Alexander Pope aveva scritto un poema intitolatoSaggio sull’Uomo. Il verso ricorrente era: «What ever is, is right»: tutto quel che esiste è bene. Ma ecco che si apre la crepa di Lisbona, sulla liscia pelle del pensare positivo. Voltaire, Kleist, Kant sono turbati e scoprono che non è più possibile consolarsi con Pope e le teodicee di Leibniz. Non è più possibile dire a se stessi, come Pangloss nelCandide di Voltaire: avanziamo «nel migliore dei mondi possibili».

Cadde anche l’illusione, cara alle chiese, sul dolore salvifico: non esiste una felix culpa, ma un male che ti prende di sorpresa, ingiusto. In presenza del disastro o del crimine sono più opportuni la sapienza di Kleist, le ricerche di Kant sulle origini dei terremoti (Kant è il primo a scoprire la «rabbia del mare»), lo sguardo di Voltaire: «Elementi, animali, umani, tutto è in guerra. Occorre confessarlo: il male è sulla terra». Ansioso di conforto, Rousseau scrisse incongruenze, in una lettera a Voltaire del 1756: «Non sempre una morte prematura è un male reale (…). Di tanti uomini schiacciati sotto le rovine di Lisbona, parecchi senza dubbio hanno evitato disgrazie più grandi, e (…) non è detto che uno solo di quegli sventurati abbia sofferto più che se, seguendo il corso naturale delle cose, avesse dovuto attendere in lunghe angosce la morte che lo ha colto invece di sorpresa».

Ma anch’egli pone domande che solo l’emozione accende: non è stata edificata male Lisbona, con le sue case alte 6-7 piani? Non è l’uomo il colpevole, più della natura? Candide soffre il terremoto e conclude: «Bisogna coltivare (meglio) il proprio giardino», dunque la terra, perché questo tocca all’uomo. All’uomo descritto da Kant dopo il 1755: «legno storto», «mai più grande dell’uomo». Il Giappone non ha alle spalle i settecenteschi ottimismi europei. Dopo Hiroshima si è risollevato con non poche rimozioni, ma con traumi indelebili. Cinema e letteratura narrano questi traumi, e una paura niente affatto calma. Su queste ramificazioni del pessimismo s’è rovesciato lo tsunami, e Jonas aiuta più di Voltaire. I giapponesi sapevano già che «il male è sulla terra», e quel che può soccorrerli è la paura che scoperchia, che scopre. La stessa paura che affiora da decenni, sotto forma di fantasmi, nel suo cinema, nella sua letteratura. In questi giorni guardi la tv, e sembra di vedere la città su cui s’abbatte l’indicibile cataclisma raccontato nel film Kairo, di Kiyoshi Kurosawa: strade e autobus vuoti, fughe verso il nulla, e in cielo, a distanza ravvicinata, un immenso aereoavvoltoio (nell’Apocalisse griderebbe: «guai! guai!») che vola verso lo schianto.

Rivedere Kairo fa capire lo squasso mentale nipponico e anche il nostro. Il Giappone ha dietro di sé un’epoca che è stata chiamata Decennio perduto, fra il 1991 e il 2000, e s’è poi prolungata in Decenni perduti. Il film di Kurosawa risale a quegli anni (2001) e non è cinema dell’orrore ma – all’ombra dello tsunami – visione iperrealistica. Kairo vuol dire circuito: ma è un cerchio senza alfa e omega. Il fenomeno narrato da Kurosawa è quello di intere generazioni che si barricano in casa fino a divenire ombre davanti ai computer (le statistiche parlano di almeno un milione di drop-out). Il fenomeno si chiama Hikikomori: è un ritrarsi, confinarsi nella solitudine. Nasce da insicurezze esasperate dalla crisi, dal futuro amputato. Sulle pareti delle case, nel film, si stagliano informi ombre color carbone. Gridano «Aiutami!», nel momento in cui i giovani morenti lasciano in eredità quest’effigie di sé.

È la silhouette annerita dell’uomo accanto alla scala che apparve impressa su un muro di Hiroshima nel ’45. L’incubo si stende sull’uomo, spaventandolo incessantemente. Viene da lontano, va lontano. Solo spaventandoci unisce il passato al presente; e ci tiene svegli, forse.

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