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La guerra che rincorre i fossili, rallenta le rinnovabili e arricchisce Big Oil

Con il trascorrere dei giorni, la guerra in Ucraina non mostra soltanto lo spettro più atroce di enormi sofferenze ed i profitti odiosi dell’apparato militar-industriale, ma, nella follia che l’accompagna, rende evidenti enormi e calcolati interessi che stravolgono i mercati degli alimenti, dei combustibili e delle materie prime, mentre viene dilazionata in modo drammatico la conversione ecologica per combattere l’ingiustizia sociale e il cambiamento climatico. Su quest’ultimo aspetto e sulle politiche europee e nazionali al riguardo mi voglio qui soffermare.

Per ottenere il sostegno dei socialisti e dei liberali, Ursula von der Leyen si è impegnata a ridurre le emissioni di gas serra dell’Ue al 55% entro il 2030. Ora, il Partito popolare europeo (PPE) sostiene che la guerra in Ucraina renderà più difficile l’obbiettivo previsto e che gli inquinatori industriali dovranno avere più libertà di azione. Così, il centro-destra sta minacciando di far naufragare una riforma cruciale del mercato del carbonio, rischiando di far deragliare le ambizioni climatiche dell’Ue. L’eurodeputato francese Pascal Canfin ha riferito ad Euractiv che “Se sommiamo tutti gli emendamenti del PPE sui quattro testi in esame al Parlamento, non raggiungiamo il 55%”.

Molti sospettano che il PPE ricada nelle vecchie abitudini e difenda gli interessi delle industrie inquinanti coperte dal sistema per lo scambio di quote di emissioni (ETS). Dietro questa posizione c’è la volontà di acquisire nuove quote di carbone e metano provenienti da Australia, Qatar e Stati Uniti dopo le sanzioni sulla Russia.

Di contro, undici ex commissari dell’Ue, tra cui Romano Prodi, hanno inviato una lettera congiunta alla Commissione europea, martedì 3 maggio, chiedendole “una profonda trasformazione del sistema (energetico) verso idrogeno e rinnovabili” e “di garantire che le azioni a breve termine per allontanare l’Ue dalla dipendenza dai combustibili fossili russi non finiscano col costringere l’Ue ad una rovinosa dipendenza dai combustibili fossili da altri paesi”. Inoltre, invitano la Commissione a ritirare il suo progetto di atto delegato complementare per includere il gas fossile nella tassonomia dell’Ue come attività transitoria”.

In questo quadro in cui le destre europee si ergono a difesa delle multinazionali del settore Big Oil, è in corso una inversione rilevante dovuta alla pressione crescente degli investitori (i grandi fondi istituzionali in particolare) verso la transizione a fonti energetiche meno dannose per l’ambiente e il clima globali, con una spinta particolare verso eolico, fotovoltaico e idrogeno verde.

La risposta delle imprese fossili per eccellenza – come spiega Nicola Borzi su il Fatto Quotidiano del 9 maggio – sta nell’aumentare il rendimento del capitale per mantenere l’appeal delle proprie azioni. E qui viene in soccorso la guerra, ovviamente non per tutti in egual misura. Il conflitto in Europa orientale per ora ha stabilizzato i costi del petrolio in una fascia che oscilla intorno ai 110 dollari al barile, con un rialzo del 60% nell’ultimo anno. A questi valori, le imprese del settore realizzano enormi utili industriali. Sette delle più grandi multinazionali del greggio in media hanno triplicato i profitti netti rispetto a un anno fa. L’Eni li ha aumentati addirittura di dieci volte, da 0,3 a 3,3 miliardi di dollari. La statunitense Chevron li ha più che quadruplicati a 6,3, la francese Total li ha triplicati a 9 miliardi.

Le armi trasferite all’Ucraina dai Paesi Nato, da Canada e soprattutto Stati Uniti consumano ingenti quantità di fossili e, mentre attaccano pesantemente il clima, mantengono alti i prezzi dei combustibili, a qualsiasi costo, da attribuirsi non solo all’estrazione, ma, in aggiunta, ai trasporti via nave, alla rigenerazione di vecchi metanodotti, al costo della liquefazione del gas e dell’allestimento di impianti di rigassificazione nuovi “di pacca” alle banchine dei porti europei.

Washington immetterà sul mercato in media un milione di barili in più al giorno, spesso di provenienza da gas di scisto, destinati, dopo liquefazione e trasporto transoceanico ai moli del Mediterraneo e del Baltico. Con la guerra in Ucraina il gas naturale liquefatto (Gnl), a oggi, è l’unica fonte disponibile in tempi rapidi (ma a prezzi molto più alti) per liberarsi dalla dipendenza verso Mosca. Così, l’import di Gnl è cresciuto del 28% su base annua da gennaio a fine aprile mentre il consumo di gas in Europa è diminuito del 6%.

E da noi? Si suppone che, data l’esposizione naturale dell’Italia, ci sia una rincorsa alle rinnovabili. Invece, per quel che si sa, Snam è alla ricerca dell’acquisto di due navi metaniere nuove, una delle quali per metanizzare la Sardegna!

Intanto, la Commissione europea ha pubblicato martedì 3 maggio un rapporto che mostra progressi contrastanti nell’attuazione della direttiva sulla pianificazione dello spazio marittimo, che richiede a 22 Stati membri costieri di produrre piani dello spazio marittimo entro il 31 marzo 2022. Sebbene la maggior parte degli Stati membri costieri abbia ora un piano di questo tipo, secondo il rapporto otto paesi (Estonia, Spagna e Bulgaria, Croazia, Cipro, Grecia, Italia e Romania) non hanno compiuto progressi sufficienti. (V,https://aeur.eu/f/1go(LC)

E allora, mi domando, l’OK all’eolico galleggiante a Civitavecchia, in quale corridoio ministeriale si è perso?

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Chernobyl, ricordo a chi sventola l’atomo come soluzione che il nucleare è per sempre

Era il 26 aprile 1986 quando il reattore numero quattro di Chernobyl esplose. Fu una catastrofe, il più grave incidente nucleare della storia. Una ferita non rimarginata, dopo 36 anni, anche se il territorio non appare più come un deserto post apocalittico, perché è sede di una riserva naturale creata per isolare i resti della struttura. Ma l’isolamento è stato rotto nientemeno che dalla guerra: sono entrati i soldati russi e i mezzi corazzati di entrambi i contendenti, evocando lo spettro di un conflitto in cui la radioattività avrebbe spalancato scenari da incubo.

Sono 15 i reattori nucleari situati in Ucraina e rappresentano un elemento di
ulteriore preoccupazione nell’infuriare dei combattimenti. L’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, aveva lanciato l’allarme: “Abbiamo perso i contatti con la centrale nucleare di Chernobyl”. ma gli operatori della centrale hanno scollegato l’impianto nucleare dalla rete, tamponando il possibile rilascio di sostanze radioattive nell’aria.

Gli scenari, comunque, non sono confortanti. Secondo l’operatore nucleare ucraino lo stop all’energia impedirebbe “potenzialmente il raffreddamento del combustibile nucleare esaurito sepolto sotto una coltre di metallo e cemento. Purtroppo, Chernobyl o Fukushima o Zaporizhzhia (la più grande centrale nucleare d’Europa, anch’essa teatro di guerra) ci ricordano che il nucleare è per sempre, in contrasto con una narrazione che è ripresa nella crisi in corso e che vorrebbe convincerci che l’atomo potrebbe essere la soluzione dei problemi energetici.

L’orrore della guerra in Europa richiama in modo angosciante l’illusione di avere a disposizione energia densa e concentrata non solo a fini irreparabilmente distruttivi (le bombe), bensì governata con tecnologie che offrano autonomia energetica in un quadro geopolitico dato in grande mutamento (i reattori nucleari sono possibili obiettivi di missili e bombe). La relazione tra la densità energetica e il tempo entro cui la natura e la vita possono disperdere gli effetti deleteri di una trasformazione prodotta artificialmente dall’uomo fa rifletter come, su tempi storici, la fissione e la fusione di nuclei atomici, pur in uno spazio ristretto, corrispondano alla combustione istantanea di decine di migliaia di tonnellate di carbone o alla caduta da grandi altezze di enormi masse d’acqua: una prospettiva che, messa sotto questi termini di paragone, metterebbe in discussione la responsabilità della presenza umana sulla Terra e raggirerebbe la presunta progressività della sua storia e dell’incivilimento.

Non è un caso che tutti gli incidenti nucleari vengano nascosti. Cosa è successo davvero a Three Mile Island, cosa sta succedendo oggi a Fukushima, quanta radioattività viene riversato in mare? Questa discordanza sugli effetti è tipica di una tecnologia che non può che creare imbarazzo in una società fraterna e tanto meno in una società che non ripudia la guerra e, quindi è esposta a rischi catastrofici imprevedibili.

Si racconta del ritorno degli animali a Chernobyl nella foresta. Ma, come dice l’ingegnere nucleare Alex Sorokin: “Attenzione agli effetti delle radiazioni nel tempo. Un’esposizione prolungata provoca una probabilità di ammalarsi di cancro inaccettabile per gli esseri umani, mentre gli animali sono inconsapevoli dei rischi che corrono”.

In effetti, gli effetti delle radiazioni su organismi viventi si accumulano nel tempo, quindi “un’esposizione prolungata alle radiazioni presenti oggi nell’area provoca una probabilità di ammalarsi di cancro inaccettabile per gli esseri umani”. Anche dopo 36 anni le radiazioni continuano a preoccupare perché rimangono attivi i radionuclidi a decadimento lento, che durano migliaia di anni e non vanno a zero. II fatto è che il reattore 3 (diviso solo da una parete, speriamo robusta, dal reattore 4, quello esploso) continua a funzionare con frequenti arresti; mentre i responsabili politici dell’Ucraina assicurano di non poterne fare a meno.

In caso di incidente con fusione del reattore, le stesse reazioni di fissione dell’uranio, che producono molta energia e radiazioni, possono continuare, nonostante la distruzione dell’impianto. Coprire il reattore di cemento, sabbia e boro, in modo che smettesse di sputare fumo radioattivo, richiese poi settimane di lavoro e il sacrifico della vita di decine di operai, tecnici e vigili del fuoco, mentre migliaia di persone fra Russia e Portogallo, nei decenni successivi, si ammalarono e talvolta morirono per patologie, come tumori alla tiroide e leucemie, connesse all’esposizione agli isotopi radioattivi rilasciati dal reattore sovietico. Ma il disastro non è certo finito ricoprendolo di un cumulo di materiale assorbente.

Il “sarcofago” frettolosamente costruito ha ben presto cominciato a mostrare segni di cedimento, e così, nel 2016, è stato coperto da un gigantesco capannone metallico, che, oltre a contenere eventuali rilasci di radiazione, permetterà di tentare, fra decenni, l’estrazione e messa in sicurezza del “corium”, l’estremamente radioattiva miscela di uranio, acciaio, cemento e grafite, fusa dal calore e infiltratasi nei locali al disotto del reattore.

Il fatto che si stiano verificando ancora reazioni di fissione nel reattore distrutto, le stesse che hanno portato alla sua esplosione, stupisce e preoccupa. I ricercatori non hanno idea di cosa stia facendo ripartire le reazioni di fissione, ma se ciò fosse legato all’asciugarsi della massa fusa, temono che possano intensificarsi sempre di più, e, visto che nella stanza da cui provengono i neutroni stavolta non si può entrare, la reazione non si potrà bloccare. Ripeto: i tempi biologici sono incomparabili con i tempi di esaurimento dei processi radioattivi.

Sempre a proposito di reattori nucleari, a Zaporizhzhia (Ucraina) sono in attività sei reattori russi VVER-1000/320 (unità 1-6) nel sito, ciascuno con una capacità di generare 950 MWe. Nel 2017 c’erano 2.204 tonnellate di combustibile esaurito in deposito presso il sito: 855 tonnellate all’interno delle piscine di combustibile esaurito e 1.349 tonnellate nel vessel. Se si pensa che attorno a questa enorme potenza si sono svolte battaglie molto cruente e che ci sono stati molteplici problemi di sicurezza nel corso dei decenni con i reattori di Zaporizhzhia progettati e costruiti negli anni ’70 e ’90, l’incidente storico di Chernobyl appare solo un inquietante ammonimento.

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Clima, la guerra in Ucraina chiede cambiamenti più urgenti. Altro che riarmo e ancora fossili!

L’attenzione ossessiva alla pandemia è stata soppiantata da una cronaca atroce, istante per istante, dell’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe. Da tempo le notizie si cancellano l’un l’altra. Si seguono i fatti, non si indicano i processi. L’impressione è che non sappiamo più trovare il filo delle emergenze, le loro connessioni, le possibili riparazioni che possono avere solo dimensione universale e trovare una armonia tra presenza umana e ospitalità della Terra.

Mentre l’opinione pubblica è con insistenza trascinata a vivere come sequenze temporali separate eventi che incombono senza sosta e sempre più bruschi, la società e le sue rappresentanze smarriscono il filo di un terribile pericolo: la sopravvivenza e la perdita di incivilimento che riguarda l’umano. Francesco sei anni fa aveva afferrato il cambio d’era e l’aveva descritto come un prodotto fisico, spirituale, sociale dei nostri comportamenti: irreparabile senza una svolta ed un ripensamento sull’intero fronte delle interconnessioni da cui provengono il cambio climatico, il pericolo nucleare, la diffusione della disuguaglianza sociale.

Oggi, la guerra atroce nel cuore dell’Europa evidenzia drammaticamente sofferenze e nuove povertà e intanto dilaziona le misure per frenare l’aumento della temperatura globale e sovvertire il sistema energetico, riconsegnato di colpo ai fossili in una morsa perversa tra carbone, gas, armamenti e andamento del Pil. L’errore può dimostrarsi fatale e non dobbiamo prestare il fianco. Non siamo solo esposti alle difficoltà di approvvigionamento del gas e alla penuria di combustibili di cui improvvisamente cesserà la fornitura. Siamo invece assai prossimi ad un passaggio storico cui stiamo arrivando impreparati e ad una velocità imprevista dai governanti del Pianeta.

Anche il nostro Governo, purtroppo, non coglie l’eccezionalità del momento: mentre da una parte annuncia il riarmo, dall’altra guarda all’indietro e, anziché accelerare il passaggio alle rinnovabili e ad un modello decentrato di produzione e consumo, va alla ricerca di nuovi fornitori da sostenere con ingenti investimenti infrastrutturali, che certamente non ci consentiranno la conclamata fuoriuscita dal fossile. Nei paesi importatori, in un clima di pace costituzionalmente precaria, crescerà ancora la incertezza del lavoro e la disoccupazione, assieme ad una ingiustizia sociale insanabile. Al contrario, la svolta verso la transizione ecologica dell’economia intraprenderebbe quel percorso di cura e di riequilibrio con la natura che l’Ue aveva individuato come propria missione riparatrice dopo secoli di industrializzazione e colonizzazione.

E’ grave che il governo Draghi riporti in secondo piano la questione climatica, al centro fino a pochi mesi fa di importanti incontri internazionali, e non ristrutturi dalle fondamenta la cabina di regia del Pnrr, ora che i rubinetti di approvvigionamento dei fossili vanno ad esaurimento con le sanzioni alla Russia. L’Osservatorio per la riconversione ecologica-Pnrr ha avanzato la richiesta di promuovere in tempi brevissimi una Conferenza nazionale sull’energia in cui fare il punto sulla situazione, ascoltando le proposte avanzate dai soggetti istituzionali e sociali. Queste proposte potrebbero diventare parte di un impegno comune ed eccezionale delle aziende a partecipazione statale, assieme alle forze sociali (imprese e sindacati), alle associazioni ambientaliste, alle comunità energetiche e a quanti hanno competenze in materia.

L’insano blocco delle energie rinnovabili ai livelli di dieci anni fa rende obbligatorio il protrarsi di combustioni altamente climalteranti, mentre restano inevase preziose candidature dei privati a investire risorse nel settore eolico off-shore, in quello terrestre e nel fotovoltaico. La stessa sostituzione del turbogas con le rinnovabili a Civitavecchia rimane avvolta da un silenzio inquietante.

C’è poi una narrazione che è ripresa e che vuole convincerci che il nucleare è la soluzione dei problemi energetici. L’orrore della guerra in corso richiama in modo angosciante l’illusione di avere a disposizione energia densa e concentrata non solo a fini irreparabilmente distruttivi (le bombe), bensì governata con tecnologie che offrano autonomia energetica in un quadro geopolitico dato in grande mutamento (i reattori nucleari). Siamo da mesi inondati da notizie mirabolanti e rassicuranti sull’impossibilità di avere un sistema energetico funzionale privo dell’apporto della fusione di atomi leggeri o della fissione di elementi a elevato peso atomico che assicurino la crescita, mentre la crisi climatica, esacerbata dalla guerra, toglie tempo alle illusioni più irresponsabili.

In una prospettiva di rapida indipendenza dal gas russo e, più in generale, da idrocarburi e fonti fossili, occorrono proposte precise come la riscrittura del Piano integrato energia clima (Pniec), per fissare al 2030 per le fonti rinnovabili l’obiettivo di 90 nuovi GW – ad un ritmo di 8/9 GW all’anno nel prossimo quadriennio – e per indirizzare Amministrazione pubblica, Enti e Istituzioni preposte, insieme a tutte le imprese, verso un percorso rapido di massima elettrificazione nei diversi impieghi – industria, trasporti, usi domestici – con energia elettrica fornita sempre più da energie rinnovabili (Fer).

In definitiva, le conseguenze della guerra debbono spingere ad adottare provvedimenti ancora più urgenti per le realizzazioni energetiche fondamentali per il Paese e per la lotta al cambiamento climatico, con il massimo coinvolgimento dei cittadini.

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L’idroelettrico avvantaggia solo le aziende, ma sfrutta l’ambiente e le popolazioni montane

di Ezio Roppolo e Mario Agostinelli

Nello scenario energetico italiano e internazionale alcuni aspetti della nostra realtà economica e politica trascurano o sottovalutano la “questione dell’idroelettrico” e, nel caso nazionale, la condizione svantaggiosa cui sono sotto sottoposte le popolazioni montane che ne usufruiscono. La produzione annua italiana di elettricità in Italia è di circa 280-300 TWh. La produzione elettrica dall’acqua che scende giù dai monti è quindi circa il 17%, cioè 45-50 TWh: un business vicino ai dieci miliardi di euro all’anno di fatturato, poco più di mezzo punto percentuale del nostro Pil. Questi terawattora sono quasi esclusivamente prodotti nei bacini delle nostre montagne e coprono 10,6 milioni di ettari, il 35% della superficie italiana.

Attualmente, i loro territori sono poco densamente popolati – circa 40 abitanti per chilometro quadro – prendendo come riferimento i dati della Valle d’Aosta e della provincia di Sondrio, i cui fondovalle sono peraltro molto più affollati. Se anche ipotizziamo che tutti costoro consumino in media come gli abitanti delle colline e delle pianure, anche se in pianura è insediato il maggior numero di industrie e tra loro le più “energivore”, possiamo facilmente comprendere che i territori montani meno popolati trattengano per il proprio uso solo una scarsa metà della produzione, 20-25 TWh, mentre la rimanenza viene utilizzata dal resto dell’Italia. L’energia idroelettrica prodotta tra i monti la consumiamo probabilmente entro un massimo di 50 km, quindi è quasi a chilometro zero, cioè con costi di trasporto molto più bassi di quella che si manda a Roma o a Milano. Possiamo inoltre aggiungere che anche gli “oneri di sistema” causati dalle funzioni di regolazione della rete non dovrebbero riguardare gli abitanti montani, dato che l’idroelettrico è molto “programmabile” e, semmai, contribuisce positivamente alla regolazione della rete.

Ora facciamo un po’ di conti in tasca per vedere dove vanno i denari delle bollette nel caso dell’idroelettrico, sia quelli “normali” che quelli “super” dovuti all’esplosione dei prezzi energetici degli ultimi mesi. Al fisco vanno direttamente 2,6 centesimi: il 13% di quei 20 centesimi di euro al KWh dovuto costantemente a impianti ad alimentazione prettamente naturale. Il ciclo dell’acqua anche in questo caso si rivela virtuoso, ma oneroso per chi convive con esso. Esiste poi un costo di distribuzione dell’energia che viene portata nelle fabbriche, negli uffici e nelle case di tutti a qualunque distanza arrivi la rete elettrica. Chi vive in montagna paga questo costo, comunque, al monopolio di Terna, posseduta indirettamente dallo Stato, che si prende il 17% per il trasporto e l’11% per gli oneri di sistema, cioè 5,6 centesimi di euro per ogni KWh consumato, anche se sta a “chilometro zero” dalla sorgente elettrica.

È evidente che “trasporto” e “sistema” dovrebbero costare molto meno ai montanari: l’energia è prodotta in loco e l’idroelettrico è molto programmabile, quindi non incide sulla gestione della rete: anzi, semmai la “aiuta”. Di conseguenza, per i territori interessati sarebbe probabilmente equo almeno dimezzare tale costo. Inoltre, il costo complessivo di tali oneri non dipende dal prezzo della fonte, quindi non dovrebbe variare se questo cambia con le dinamiche di mercato.

Valutiamo ora il costo effettivo della produzione. Il dato rilevato porta a una media di circa 5 centesimi di €/KWh (citiamo la fonte perché internazionale e autorevolissima). Tra imposte e tasse sui profitti, il fisco assorbe circa il 30% del totale (2,6+3,4 centesimi di euro) e Terna, proprietà indirettamente dello Stato e gestore della rete, un altro 28% (5,6 euro). Tolto il costo effettivo della produzione, ai concessionari/produttori rimane un utile del 40% [3,4/(5+3,4)]: un risultato veramente fantastico, per giunta con un rischio bassissimo, intrinseco nel business che è anche tecnologicamente molto maturo.

Il prezzo a 40 centesimi è quindi un inappropriato raddoppio rispetto alla “normalità” appena esaminata. Questa situazione verrebbe considerata un raro caso di “fallimento di mercato”; infatti, “lato domanda”, i consumatori sono obbligati a un consistente e indebito pagamento collettivo, mentre l’offerta ottiene un guadagno totalmente immeritato, perché ottenuto senza cambiamento o distinzione della capacità competitiva.

L’aspetto più tragicamente grottesco della questione dobbiamo però ancora descriverlo e riguarda l’incertezza che ha fermato le manutenzioni in tanti casi da oltre mezzo secolo. Per i bacini come per le autostrade! Quando, durante una camminata sui sentieri, osservate il centro dei laghetti sbarrati da dighe ripieni di residui, di alberi e rami, dovete pensare che per almeno 50 anni non si sono effettuati i dragaggi previsti dalle concessioni. Molte dighe con la siccità attuale a volte non contengono quasi più acqua: quindi tra poco diverranno “improduttive”, ma già ora non sono più in grado di svolgere funzioni di regolazione del flusso, utile per l’agricoltura o per la prevenzione di inondazioni. Situazioni analoghe se ne trovano molte, troppe, sopra la suola dello Stivale.

Ai territori montani rimangono il peso dei danni ambientali e gli svantaggi socioeconomici che hanno progressivamente spopolato le nostre valli, mentre ad altri vanno i benefici della disponibilità di energia elettrica. Su tutti grava lo stesso peso fiscale, pur beneficiando degli stessi servizi pagati con le tasse. I benefici economici della produzione di tutta la produzione idroelettrica vanno invece agli operatori, in grandissima maggioranza aziende di proprietà privata: sono pochi i casi di nostra conoscenza in cui la proprietà è prevalentemente o totalmente in mano a enti pubblici locali (anche se le municipalizzate si comportano come fossero ancora enti pubblici!).

Il governo attuale e gli operatori stanno armeggiando per rendere eterna questa situazione, sia attraverso il ddl Concorrenza sia rinviando a tempo indefinito la scadenza delle concessioni. Mantenere lo status quo aumenterà la protervia degli operatori nei confronti dei territori, delle amministrazioni locali, persino dei sindacati. Già ora questi soggetti si trovano a fronteggiare strapagati prìncipi del foro ogni rara volta che tentano di “alzare la cresta” e richiedere qualche minuscolo vantaggio per i propri abitanti. Dunque anche la meravigliosa capacità di trarre dall’acqua l’energia più pregiata che conosciamo senza nemmeno produrre emissioni nocive si è trasformata in un mezzo di sfruttamento indiscriminato dell’ambiente e della popolazione.

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Energia: senza una svolta su rinnovabili ed elettrificazione, l’inverno 2022-’23 sarà fatale

Scorrono le immagini terrificanti dei bombardamenti delle colonne di profughi in fuga dall’Ucraina, dei morti gettati nelle fosse comuni. Sale il disprezzo per Putin, per le sue strategie di sterminio, in un isolamento internazionale di dimensioni storiche. Ma la democrazia non sta nemmeno dalla parte di Zelensky, che richiama alle armi a tutti i costi. Già, la democrazia e la pace come diritto imprescindibile senza il quale nessun altro esiste. Ma siamo ad un cambio di civiltà di cui non ci rendiamo abbastanza conto e contro cui facciamo ancora poco, attenendoci agli schemi del secolo da cui veniamo.

Io qui di seguito mi limito a riflettere su quali misure l’Europa stia adottando per colpire l’invasore russo, ovvero sugli scenari tutt’altro che trascurabili nel caso vengano tagliate – in mancanza di un cessate il fuoco – le forniture russe di gas all’Europa per un tempo assai lungo.

Innanzitutto, va rimarcato come lo scenario di guerra in corso comporti di per sé una estrema concentrazione di climalteranti spaventoso su un territorio conteso, dispersi solo per distruggere e uccidere. La crisi climatica subirà ulteriore accelerazione e le misure di diversificazione anziché sostituzione del metano così come vengono ipotizzate dai nostri governanti, renderanno ancora più inavvicinabile la soglia di 1,5°C.

Gli Stati Uniti hanno chiesto agli alleati europei di vietare le importazioni di petrolio russo e di sospendere la certificazione del gasdotto Nord Stream, con il prezzo del greggio – e a rincorsa del gas – che sta salendo a più di 300 dollari al barile.

La società di ricerche britannica Aurora Energy Research (v. “Can Europe cope without Russian gas?”) ha pubblicato un rapporto, che analizza l’impatto di una serie di possibili scenari sul mercato europeo del gas in base al prolungamento della sospensione del gasdotto Nord Stream 2; alla possibile interruzione dei flussi dalla Russia attraverso l’Ucraina; al caso estremo di totale cessazione dei rifornimenti di gas dalla Russia.

La sospensione a tempo indefinito del NS2 si tradurrà in maggiori costi piuttosto che problemi in termini di sicurezza degli approvvigionamenti: ciò implicherebbe l’importazione di 100 miliardi di m3 di gas naturale liquido (GNL) per via nave, soprattutto dagli Stati Uniti, mentre l’interruzione dei flussi attraverso l’Ucraina, comporterebbe una enorme importazione di gas liquido naturale, con un’aggiunta di 128 miliardi di metri cubi nel 2024, oltre ai flussi maggiorati attraverso i gasdotti nordafricani, che dovrebbero aumentare a oltre 50 miliardi di metri cubi. Ovviamente, una maggiore domanda di GNL di tale entità in Europa farebbe salire i prezzi del gas sia nel vecchio continente che nel resto del mondo, al punto che perfino gli Usa stanno contattando, a sorpresa, il Venezuela di Maduro per avere un calmieramento dei prezzi anche sul loro mercato.

L’aumento della dipendenza dal GNL e dai gasdotti nordafricani metterebbe una significativa pressione al rialzo sui prezzi del gas in Europa, che potrebbe essere combattuta e attenuata solo attraverso interventi urgenti di diversificazione delle fonti – rinnovabili ovviamente – e misure di riduzione della domanda. Per l’Europa – e l’Italia in particolare – l’inverno 2022-23 potrebbe essere fatale, se non si immettesse una potenza straordinaria di fonti naturali e decentrate con un passaggio straordinario all’elettrificazione, a sistemi di accumulo e a forte decentramento, sulla base della diffusione di comunità energetiche

L’Agenzia internazionale dell’energia (https://www.iea.org/ ) ha dato indicazioni per tagliare di oltre un terzo le importazioni europee di gas dalla Russia entro un anno. Domina in questo approccio il capovolgimento dell’attuale sistema energetico, con la sostituzione urgente dei fossili con le rinnovabili in una prospettiva ineliminabile, mentre l’impiego del carbone viene visto con molta cautela. Il centro studi italiano italiano ECCO (https://economiecircolari.eu/il-progetto), da parte sua, ha indicato che puntando su efficienza energetica, riduzione dei consumi e fonti rinnovabili, in Italia si potrebbe fare a meno del 50% circa delle importazioni attuali di gas dalla Russia, e nel giro di un solo anno.

E’ evidente come in questi differenti approcci entrino in campo formidabili interessi e la possa fare da padrone ancora una volta il settore oil&gas e le grandi corporation occidentali, che quindi riservano alla guerra in corso uno sguardo tutt’altro che disinteressato. Penso a come il successo ottenuto da cittadini, lavoratori associazioni e istituzioni di Civitavecchia risulti esemplare, e proprio per questa sua concreta ragionevolezza, incontri ancor più ostacoli e ritardi sospetti nei tempi di definitiva approvazione.

Intanto, la Commissione europea ha presentato la sua proposta di percorso per porre fine alla dipendenza dal gas russo, con l’obbiettivo di tagliare di quasi l’80% del fabbisogno delle importazioni europee quest’anno. Il piano, dovrebbe proporre passi come lo sfruttamento di nuove forniture di gas e l’aumento dell’efficienza energetica già quest’anno, con eventuali emissioni di eurobond e punterebbe a raggiungere l‘indipendenza dal principale fornitore di combustibile fossile ben prima del 2030, molto in anticipo rispetto alle precedenti proiezioni.

Bisognerà vedere, eventualmente, se un piano apparentemente così intensivo otterrà il sostegno degli Stati membri, molti dei quali erano già a disagio con l’investimento richiesto dai precedenti piani di transizione energetica della Commissione e sono ora alle prese con l’impatto politico dell’aumento dei costi energetici.

C’è da contare che non si arrivi alla cessazione totale delle forniture russe e che l’Europa riesca ad emanciparsi dalla Russia in tempi più rapidi del previsto.

Del resto, sono previsti anche un aumento dei volumi di produzione e importazioni di biometano e idrogeno rinnovabile e misure per l’efficienza energetica – compreso l’abbassamento di un grado delle temperature impostate sui termostati. Preoccupa quanto la guerra Russia-Ucraina, incida sulla metalmeccanica italiana stretta tra carenza di materie prime, rincari dell’energia e blocco delle esportazioni.

Pe la Commissione europea (V. All.: SEAE (2021) 1169), gli Stati membri potranno inoltre tassare in via temporanea e non retroattiva i profitti straordinari che i produttori di energia elettrica hanno realizzato grazie ai prezzi molto alti di questi mesi, redistribuendo i proventi in maniera “non selettiva” ai consumatori finali. L’obiettivo del piano – essenzialmente un’accelerazione sui target del pacchetto Fit for 55 – è ridurre di due terzi entro un anno l’attuale import dalla Russia, pari a 155 miliardi di metri cubi nel 2021.

Ogni Paese dovrebbe poi identificare i progetti per accelerare transizione energetica e la definizione di nuovi impianti per le energie rinnovabili “di preminente interesse pubblico”, velocizzare i permessi e iniziative per le installazioni di pannelli fotovoltaici sui tetti e sviluppare la filiera delle pompe di calore, oltre a velocizzare le procedure autorizzative per i progetti relativi all’energia eolica onshore e offshore e per l’energia solare, come una questione di interesse pubblico prevalente. Purtroppo nel documento si afferma che sul nucleare invece “gli Stati membri sono liberi nelle scelte che fanno, in questa situazione non ci dovrebbero essere tabù”.

Ancora una volta l’Europa, come sulla guerra, vive di compromessi e di luce riflessa. Nella comunicazione, mancano due convitati di pietra: il nucleare e il carbone. Il primo è citato brevemente, il secondo solo quando si parla di chi rifornisce le centrali a carbone che alcuni Paesi, come l’Italia, vogliono rilanciare: sembra un paradosso, ma la la Russia, “bastonata sul gas” rappresenta il principale fornitore, con oltre il 46% del carbone acquistato dagli Stati Ue, davanti a Usa e Australia.

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