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Tassonomia verde, contro gas e nucleare si mobilita anche la società civile europea

Grande consenso – i sottoscrittori sono attualmente 146.922 e aumentano di minuto in minuto – sta riscuotendo la petizione contro la proposta della Commissione Europea, che ne discuterà nei prossimi giorni, di inserire nucleare e gas fossile nell’elenco europeo delle energie verdi: il che in sostanza significa usare i soldi del Next Generation Eu (in Italia Pnrr) per queste fonti pericolose e inquinanti.

Andrebbe peraltro ricordato dai nostri rappresentanti in Europa e dallo stesso Governo italiano che il nucleare è già stato bocciato in Italia da ben due referendum popolari (1987 e 2011) mentre l’Europa deve sviluppare fonti di energia veramente rinnovabili come eolico, fotovoltaico, geotermico, idraulico. Nucleare e gas fossile non lo sono.

L’inaccettabile posizione della Commissione Europea in particolare per il nucleare è un cedimento alle pressioni della lobby nuclearista, che ha nella Francia la capofila. La Francia ha infatti bisogno di una quantità spropositata di miliardi di euro (si parla di 400) per mettere in sicurezza le vecchie centrali e per costruirne di nuove, nonché per completare i costosissimi depositi per le scorie radioattive. Ma i costi proibitivi del nucleare civile vengono nascosti e scaricati sulle finanze pubbliche. Per questo la Francia insiste per scaricare i costi del suo nucleare su tutta l’Europa e altri paesi sperano di fare altrettanto. L’Italia pensa forse di accodarsi per gli interessi che intende mantenere e procrastinare nel settore del metano a danno delle rinnovabili?

Contro questa proposta della Commissione si sta mobilitando la società civile europea e proprio in data 19 gennaio i presidenti della commissione per i problemi economici e monetari (Econ) del Parlamento europeo, Irene Tinagli (S&D, Italia) e la commissione per l’ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare (Envi), Pascal Canfin (Renew Europe, Francia), hanno espresso preoccupazione per la procedura seguita dall’istituzione in merito al progetto di atto delegato complementare sulla tassonomia dell’Unione europea.

Intervenendo a nome della “maggioranza dei coordinatori Econ ed Envi, Tinagli e Canfin hanno deplorato la mancanza di consultazione sulla bozza di testo e la mancanza di una valutazione d’impatto. Hanno quindi chiesto alla Commissione di avviare una consultazione pubblica, come è stato fatto per il primo atto delegato sulla tassonomia e di concedere “tempo sufficiente per le reazioni delle parti interessate”.

La classificazione Ue delle attività economiche che possono essere considerate sostenibili a lungo termine dal punto di vista ambientale, in sostanza la cosiddetta tassonomia “verde”, dovrebbe rappresentare uno strumento discriminante, il più possibile mirato e costrittivo ai fini di una rapidissima riconversione verso il 55% di riduzione di emissioni climalteranti. La nuova proposta della Commissione europea, al contrario, altera sostanzialmente l’uso futuro e l’impatto del quadro tassonomico della Ue.

Inserire tout court gas e nucleare alla stessa stregua delle rinnovabili per ricevere finanziamenti significa offrire uno strumento che vincola la trasformazione dell’economia, ponendo queste fonti nelle stesse condizioni di quelle pulite e ostacolando il cambiamento. È come fornire incautamente a interessati e malevoli lobbisti una bacchetta magica senza libretto di istruzioni.

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Nucleare: se la Terra piange, le borse e i governi interessati se la ridono

Riprendo i temi del post precedente introducendo un’ulteriore considerazione. Raramente ci rendiamo conto che ogni particella di materia ed energia – che ha a che fare con gli oggetti con cui ci circondiamo, le guance che accarezziamo, gli alberi che vediamo crescere, l’acqua che facciamo bollire – in qualunque forma si presentino, provengono da una unica storia di onde e particelle che, da un certo punto e momento in poi, si sono separate, ricomposte e organizzate o in ammassi e corpi inerti e caotici nell’Universo o, dopo miliardi di anni, successivamente in tempi più recenti, si sono ordinati in organismi dotati di auto-organizzazione e di vita, in grado di riprodursi, di nascere e morire, assumendo energia dall’ambiente esterno.

Energia purché compatibile con una crescita di ordine interno, con la specializzazione di proprie funzioni, con l’adattamento e l’evoluzione delle specie, fino alla formazione di istinto, memoria e autocoscienza. Non tutti gli ordini di energia sono predisposti al compito di alimentare una vita così concepita: ad esempio la combustione non lo è, sia per la distruzione immediata dei legami chimici nei tessuti, che per le emissioni in atmosfera che, alla lunga, possono mutare l’energia dell’ambiente vitale e il clima del nostro pianeta.

Dopo le considerazioni fin qui esposte – comprese quelle del post precedente – veniamo ora al significato della apertura Ue alla “tassonomia verde di metano e nucleare” contro cui si stanno sollevando avversioni e forti critiche non solo dal mondo ambientalista. Per quanto riguarda il metano verde (?!) si danno spesso solo dati vaghi: a parità di flusso termico, esso produce una quantità di anidride carbonica pari al 48% del carbone: ma, come avverte l’ultimo rapporto dell’Ipcc, la maggior preoccupazione viene dalle perdite dirette di CH4 nelle fasi di estrazione, lungo i gasdotti e nelle centrali, con effetti di 80 volte superiori a quello della CO2 nei primi vent’anni dopo le fughe in atmosfera. Si tratta di un dato sconcertante, che non era stato in precedenza preso abbastanza in considerazione e che ora allarma le stesse agenzie energetiche internazionali, che hanno fatto pressioni sulle banche per scoraggiare nuovi interventi sull’intera filiera del gas naturale.

Ma, se la Terra piange, le borse e i governi interessati se la ridono e, dopo una forte resistenza sull’applicazione del carbon pricing e una continua polemica sui sussidi alle rinnovabili, è scattata una resa dei conti internazionale per salvare l’economia del gas naturale. La Russia si sta attrezzando per mandare più gas alla Cina limitando le quote per fornire a sufficienza l’Europa e facendo lievitare i prezzi. In compenso, data la competizione in corso per il mercato Ue, gli americani stanno cercando di contrastare i produttori russi e di inviare navi metaniere dall’Atlantico. Ma, poiché il gas dagli Usa costa molto più caro per via del trasporto via mare, bisognerebbe convincere gli Europei a investire in una massiccia infrastruttura di impianti di rigassificazione ai porti e ad accettare di consumare shale gas, meno caro ma con disastrosi impatti ambientali.

Le pressioni, cui si sommano anche quelle da Egitto e Turchia, spingono i governi europei ad aprirsi a un’operazione di sostegno con danari pubblici alla struttura metaniera: un’operazione scandalosa sotto il profilo ambientale, occupazionale, geopolitico e finanziario, che allontanerebbe la soluzione delle rinnovabili a portata di mano. Lo stesso movimento operaio continentale deve prendere una posizione chiara e scartare soluzioni settoriali di ispirazione corporativa, come avvenuto nel caso dei sindacati elettrici nazionali.

Per la prospettiva di un ritorno al nucleare, le motivazioni contrarie non sono solo dovute al vincolo insormontabile di ben due referendum, ma al contrasto invalicabile di tutte le argomentazioni esposte sul rapporto vita-energia. Già in premessa il documento Ue di “apertura” all’atomo nega la sua praticabilità: “Ogni progetto deve prevedere un piano per stoccare in sicurezza i rifiuti radioattivi, piano che deve comprendere il sito di stoccaggio e i fondi necessari”. Un autentico ossimoro ormai convalidato in tutto il mondo. Lo stesso ministro Cingolani, che ha più volte espresso una sua condiscendenza per il ritorno all’atomo, in audizione alle Commissioni riunite afferma che “non si può fare, non ci sono né i reattori modulari né quelli a fusione e io non mi rifarei a una prima e seconda generazione”.

Esaminiamo allora i fatti: per i reattori oggi in funzione (anche l’ultimissimo arrivato in Finlandia, di cosiddetta “terza generazione”) è nota la presenza di isotopi radioattivi nelle scorie nucleari, derivate dalla fissione dell’uranio nel reattore, che emettono calore e possono restare pericolosi per migliaia di anni. Meno noto è che nel caso di fusione del reattore, le stesse reazioni possono continuare nonostante la distruzione dell’impianto, come è avvenuto e sta avvenendo ancor oggi a Chernobyl, nonostante “il sarcofago” di tonnellate di cemento sabbia e boro nel tentativo di neutralizzare la miscela di uranio, acciaio, cemento e grafite, fusa dal calore e infiltratasi nel terreno sottostante.

Per Fukushima, le cose non stanno meglio. La catastrofe è nota: i tre noccioli del reattore si fusero, liberando gas di idrogeno e rilasciando nell’ambiente grandi quantità di materiale radioattivo. I valori di radioattività ancor oggi rilevati sarebbero così alti che se un lavoratore lavorasse lì per otto ore al giorno durante un intero anno, potrebbe ricevere una dose equivalente a più di cento radiografie del torace. Ci sarebbero enormi accumuli di materiale radioattivo, in particolare il cesio, intrappolati nelle sabbie e nelle acque sotterranee fino a 96 chilometri circa di distanza dalle coste giapponesi.

Si dice però che si potrebbe puntare alla fusione nucleare, che richiederebbe una temperatura dell’ordine di un miliardo di gradi dopo una compressione del plasma di idrogeno da parte di un sistema di Laser di potenza. L’edificio di contenimento non sarebbe inferiore a 8 mila metri cubi e i tempi di realizzazione imprevedibili. D’altronde c’è chi sogna piccoli reattori modulari a fissione dell’ordine di 300-400 MW, ma l’implementazione di nuovi progetti è troppo lontana per avere un impatto climatico tempestivo o benefico. Il problema delle scorie, infine, sarebbe ancora più preoccupante, vista la notevole disseminazione di impianti sull’intero territorio.

Dopo 60 anni, l’industria dell’energia nucleare rimane fortemente dipendente dai sussidi, affronta sfide costose e irrisolte di smaltimento dei rifiuti e lascia una lunga scia di responsabilità ambientali in corso. Nel frattempo, le alternative come l’energia eolica e solare, i guadagni di efficienza e lo stoccaggio delle batterie sono ora più economiche della generazione nucleare. Ma, soprattutto, più vicine a un’idea di sostenibilità che la pandemia e la crisi climatica ci suggeriscono di affrontare da specie vivente, non da incessanti creatori di superflui manufatti.

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Cingolani ministro durerà qualche tempo, ma il nucleare è per sempre

Roberto Cingolani ministro durerà magari solo giorni: più sfortunatamente per noi anche per mesi, ma il nucleare, purtroppo, è per sempre.

Come a me, anche a lui avranno insegnato, dai licei alla laurea in Fisica, quanto un determinismo presuntuoso possa illuderci di governare potenza ed energia sul pianeta senza darci pena di come esse possano essere dissipate in atmosfera o negli oceani o degradate senza procurare guasti ai cicli naturali. Lo studio delle scienze in Occidente – ora forse ad una inversione decisiva – è stato per secoli orientato entro un quadro di espansione a dismisura del mondo artificiale: un cumulo di protesi, di manufatti e di scarti in continua crescita, che ostacolava la cura del vivente e della natura, mentre il mercato non perdeva occasione per assegnare a quest’ultimi un valore di scambio.

Questo, tranne rare occasioni, era il percorso in cui si assimilava l’educazione e lo studio delle materie scientifiche e l’orizzonte a cui erano – ed ancor oggi spesso sono – indirizzati tecnologi e scienziati, prima che le nuove scienze, dal secolo scorso in poi, provocassero una svolta che ancora stenta ad affermarsi.

Io ho avuto in sorte di intuire – dalle contraddizioni dell’esperienza sindacale, dall’incontro con i protagonisti della primavera ecologica degli anni ‘70 e dalla pacata e straziante determinazione degli allarmi della Laudato Si’ e dell’Ipcc – quanto l’illusione di un’espansione illimitata della “potenza” umana sia incompatibile con la continuità della sua stessa storia sulla Terra. Forse il ministro Cingolani non è passato attraverso sufficienti esperienze partecipative o di crisi del modo di produzione per valorizzare momenti di dialettica e confronto e, quindi, si permette di esibire una cultura manageriale che risulta sviante di fronte ad emergenze epocali che la popolazione tocca con mano, senza che le sia data voce.

Mentre Germania e Spagna su Next Generation procedono con linearità, il nostro Paese manifesta ritardi sui tempi, confusione sulle tecnologie energetiche da abbandonare, carenza di politiche industriali da avviare subito, anche solo per non dover usare le risorse eccezionali del Pnrr per importare impianti solari eolici o di stoccaggio o componenti elettrici prodotti all’estero.

Nell’approccio di questo governo manca totalmente una visione di come il cambiamento possa essere tanto radicale quanto vantaggioso e possibile. Provo a fare qui alcune considerazioni.

1. Il lavoro umano sul Pianeta ha raggiunto una capacità trasformativa delle risorse naturali rigenerabili assolutamente insostenibile nel giro di un massimo di decine di anni, con orari individuali assurdi, precarietà illimitata e salario differito e welfare praticamente inconsistenti per più della metà degli occupati. L’impronta ecologica degli abitanti dei paesi industrializzati non travalica la metà di un anno solare.

L’orario di lavoro e lo spostamento dell’attività umana verso la cura e l’istruzione permanente è quindi indifferibile: un marchio da cambio di civiltà. Eppure, non esiste una organizzazione mondiale, europea, nazionale sindacale che abbia al centro questa straordinaria rivendicazione.

2. Le politiche energetiche continuano a fissare le loro aspettative sui fossili che vanno lasciati sottoterra e la cui reiterazione è solo remunerata dalla speculazione finanziaria e dall’attività militare cui prestano un sostegno indispensabile in tempi di guerra. I bilanci territoriali di emissioni e scarti delle attività di produzione e consumo sono largamente debordanti e antieconomici, se non fossero sostenuti da sussidi impropri e dalla non applicazione delle tasse sulle emissioni di climalteranti.

3. La riconversione ecologica integrale richiede il ridisegno e la riprogettazione radicale di tutti i componenti oggi impiegati in funzione di protesi umane di amplificazione di potenza, velocità e approvvigionamento alimentare sicuramente da contenere. Da dove cominciare, se non dai territori e da forme di educazione permanente che attraversino la scuola e la diffusione di corsi di formazione popolare?

Ma c’è qualcosa ancora più a monte che riguarda – con l’approssimazione dovuta ai limiti dei nostri sensi e della mente – quel che nella normalità rappresentiamo come genere umano, biodiversità, cicli naturali, elementi che ci circondano; una realtà che non è quel che ci appare.

Che ogni particella di materia ed energia, in qualunque forma si presenti o si componga, venga indistinguibilmente da un unico “atto” – il Big Bang – in cui si è formato tempo e spazio più di tredici miliardi di anni addietro e che tutto quanto – energia e materia – sia interconnesso, trovi forme di aggregazione, ripulsa, auto-organizzazione, attraverso continue cosmogenesi in tempi e spazi da allora in espansione, non l’abbiamo ancora metabolizzato.

Che la dinamica dell’Universo non riguardi solo la nostra storia non l’abbiamo per niente introiettato. Soprattutto, non siamo in grado di apprezzare a fondo la comparsa del vivente, solo pochi miliardi di anni fa, con la sua originalità e fragilità. Così, non siamo avvezzi a considerare meccanismi che ci obbligano a considerarci da unici individui intelligenti a genere non dominante sul pianeta, e, perciò, a specie sociale in contatto vitale con una natura dinamica, che ha una propria autonomia e proprie leggi cha vanno “dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande”, l’uno e l’altro sottratti per ora ai nostri sensi e alla normale percezione mentale.

La cultura che interpreta la realtà e le stesse aspettative in cui viviamo e creiamo relazioni va completamente rivista alla luce dell’interrelazione che percorre l’intero universo “dal più piccolo all’infinitamente grande”. Ce lo fanno capire quotidianamente la sindemia e il brusco cambiamento climatico in corso.

Tutta l’interpretazione determinista che ha invaso anche le scienze economiche ed umane andrebbe riconsiderata, ma non è qui il caso di trattarne. Dato che siamo partiti dal ministro per la Transizione energetica, lo inviterei a pensare che nelle esternazioni cui è così sollecito tenga conto che la storia dell’Universo e le particolarità delle particelle elementari ci trasportano immediatamente in un confronto impressionante sulla articolazione estrema della densità energetica della materia che si vorrebbe impiegare per risolvere senza danno la crisi energetica attuale e che è spiegabile con i tempi assai remoti in cui quella particolare densità si è costituita.

Ebbene: con buona approssimazione si può ritenere che, per ottenere pari energia, a fronte di un grammo di fusione tra isotopi di idrogeno occorrerebbe trattare la fissione di 8-10 grammi di uranio, ovvero portare a combustione 5000 tonnellate di carbone o bruciare in centrale 6300 metri cubi di gas, o, ancora far cadere da 1000 metri un terzo di tutta l’acqua del lago d’Iseo. Diverse fonti di energia risalenti nella loro formazione ad ere anche relativamente ben distanti nel tempo.

Si tratta solo di un puro esercizio che ricorre ad eccessive semplificazioni e modelli mentali assai grezzi, ma può subito dare un’idea di come l’energia nucleare e fossile possano avere ordini di grandezza più o meno devastanti sui tempi e l’integrità dell’ambiente e della persona umana. Ho inteso questa nota come una premessa per analizzare in un prossimo post, con un dettaglio meno “immaginoso” e più aderente alle singole tecnologie impiegate, la crisi del nucleare di qualunque “generazione” e in qualunque configurazione.

Continua

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Lo sciopero generale è una limpida presa di distanza dalla economia politica di Draghi

Lo squarcio aperto dallo sciopero generale del 16 dicembre è illuminante ed è per questo che lo si vuole oscurare. Non solo fa luce sulla precarietà del lavoro, l’accrescimento delle disuguaglianze e l’insufficienza delle risorse poste a disposizione dei ceti più deboli, ma è una limpida presa di distanza dalla economia politica di Draghi, condotta sotto il segno dell’ineluttabilità dell’emergenza sanitaria e giustificata dall’approccio esaustivo di una scienza medica “ufficiale” dedicata ai sopravvissuti, anziché più compiutamente alla cura universale del vivente. Una cura da cui, come ripete Bergoglio – citato di sfuggita all’atto del suo insediamento dal Presidente del Consiglio – dipenderà sempre di più il futuro dell’intero Pianeta.

La scienza medica – quella, non dimentichiamolo, controllata da Big Pharma – ha praticamente sussunto ogni risorsa del Paese ed ha portato ad investire immense risorse pubbliche sui vaccini e per le case farmaceutiche, lasciando in ombra una linea volta ad una politica di investimenti delle risorse pubbliche degli Stati sulla sanità, sulla prevenzione sui trasporti, sulle scuole, sulla salute e la rigenerazione del Pianeta. Si è purtroppo tralasciato di investire su tutte quelle cose che all’inizio della pandemia si era detto di voler fare e che sono state messe in elenco di un Pnrr che ancora rimane pressoché sconosciuto, quando non funge da copertura di modelli superati, come nel caso delle centrali a turbogas disdegnate nei territori cui sarebbero destinate.

Così, anche la scienza, per definizione interdisciplinare e in fermento dialettico su obiettivi in continua verifica, con Draghi non ha messo a frutto le sue potenzialità su un arco vasto da poter spaziare sulle più insidiose emergenze che ci ritroveremo aggravate e sulle spalle dei ceti più deboli ed emarginati. La partecipazione dei cittadini, dei territori, delle istanze associative e istituzionali, dei sindacati è stata mortificata ed anche le scienze ne hanno sofferto in un isolamento sociale presidiato da specialisti. Non deve quindi stupire se il Nobel, Giorgio Parisi, abbia dedicato le sue prime parole di soddisfazione per il premio ricevuto non al successo delle sue formule, ma alle problematiche che l’avanzamento della conoscenza pone alla politica per il brusco cambiamento climatico in corso.

Lo sciopero in preparazione nei luoghi di lavoro che Landini e Bombardieri hanno sapientemente indetto, fa presente al Paese che il mondo del lavoro pretende, proprio quando la pandemia è in corso, uno sforzo di cambiamento strutturale nel sistema liberista – indiscusso vincitore al presente – ma nemico del risanamento climatico, della cura del Pianeta, della giustizia sociale.

Intanto che i nostri tg e i talk show inanellavano da mane a sera dati sui contagi, il nuovo governo tedesco raggiungeva un accordo definitivo sul superamento dell’energia nucleare e spingeva per traguardi ambiziosi sulle rinnovabili, mettendo in allarme i tessitori europei della nuova tassonomia verde da adottare per i fondi pubblici europei. La Spagna intanto spostava il suo potenziale elettrico su eolico e solare e nel Baltico si innalzavano pale da decine di MW ciascuna. In compenso, con i cittadini a far da spettatori in uno scenario desolante saturato dal “totoquirinale” e dalle previsioni per febbraio 2022 sull’ex guida della Bce, i nostri ministri, chiamati in causa sulla transizione energetica e sulla politica industriale, motteggiavano sul ritorno dell’atomo e facevano passare sotto silenzio la privatizzazione dell’acqua per decreto, registrando impotenti una pioggia di richieste di delocalizzazioni di imprese.

Energia, salute acqua, lavoro: quattro temi che non possono che essere al centro di uno sciopero generale provvidenziale. Si salderebbe così un debito tra lavoro e studenti e ambiente e si cancellerebbe un improvvido manifesto corporativo sottoscritto con Confindustria dai sindacati di categoria confederali degli elettrici ed esibito come un trofeo da Cingolani e Descalzi al palco di Atreju, la festa della Meloni. Nel documento congiunto Confindustria-Sindacati Elettrici confederali ci si spinge addirittura a chiedere di considerare accettabile il metano nella tassonomia verde Ue, intaccando così la credibilità al Green Deal e tirando un colpo mancino alle popolazioni che, come a Civitavecchia, riprogettano con esperti, imprese e ricercatori un apparato di produzione elettrica non fossile.

Il 15 dicembre pomeriggio verrà installata una tenda di fronte al Ministero della Transizione ecologica (Mite) per ricordare gli impegni imposti su acqua e nucleare dai referendum del 2011 e per contrastare il ricorso al gas fossile nei nuovi impianti energetici. C’è una continuità tra la tenda e l’astensione dal lavoro del giorno dopo: il conflitto e il dissenso rendono più forte la democrazia e meno soli i rappresentanti soprattutto quando gli interessi in campo travalicano le corporazioni e guardano alle nuove generazioni e al diritto all’ambiente ed al lavoro. Perfino tra Eni ed Enel al massimo livello si è aperta una diversa visione del ruolo delle partecipate pubbliche sul destino delle fonti fossili e rinnovabili. Perché mai non ne dovrebbero essere attivamente informati e partecipi i cittadini che pagano le tasse e le bollette?

E’ augurabile quindi che i cittadini, i lavoratori e le piazze mandino il segnale di una inversione – con particolare speranza e fiducia anche nei giovani attivisti che in questi ultimi anni hanno dato vita a grandi manifestazioni per nuove politiche orientate alla piena occupazione “verde”, in una società strutturalmente pacifica e più giusta.

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Dopo la Cop26 caccia grossa a carbone, gas e nucleare

Se è vero – come ha sottolineato all’indomani del summit il premier britannico Boris Johnson – che “il carbone è condannato a morte”, la domanda giusta da porsi è: sì, ma quando? Per il gas, addirittura nuova vita e per il nucleare un rinascimento in nuove forme, tutte da mettere in cantiere.

Il discrimine su cui si sono dissolte le aspettative della Cop26 si è mostrato nella sua inconsistenza nella forma di chiacchiere sulla decarbonizzazione; di ostinata finalizzazione al business finanziario e delle multinazionali; di un imprevisto recupero del nucleare quale presunto alleato delle rinnovabili e mallevadore dell’impiego “in via transitoria” del gas fossile.

India, Cina e Stati Uniti, (tutte e tre potenze militari nucleari), con una complicità tacita, eppure questa volta clamorosa, dell’Ue, hanno alla fine stabilito che la ripresa “dopo pandemia” debba rifarsi ai canoni del “prima” e che il paradigma energetico debba rimanere sostanzialmente centralizzato, ad alto tasso di capitale e di emissioni di climalteranti e, in definitiva, nelle mani delle corporation, accorse in massa a Glasgow con oltre 500 delegati: più i colpevoli che le vittime.

L’aver “mantenuto vivo l’obiettivo di contenere le temperature globali al di sotto di 1,5°C – unico significativo avanzamento, a disposizione anche dell’immaginario popolare e perciò difficilmente disgiungibile dal brusco comportamento anomalo della biosfera cui ci stiamo assuefacendo – sarà l’appiglio dei movimenti più vasti e delle alleanze per il clima la terra e la giustizia sociale che si costituiranno anche a livello locale. Tuttavia, non si consegue una meta così impegnativa senza strumenti di verifica internazionalmente riconosciuti, solleciti investimenti solo nelle filiere rinnovabili, convergenze di risorse finanziarie verso i Paesi poveri, cura del vivente in tutte le sue manifestazioni. Da Glasgow esce un mondo incamminato verso un aumento di 2,7 °C a fine secolo.

Dopo Cop26, deve preoccuparci il fallimento del multilateralismo nei negoziati per ridurre le emissioni di gas serra (siamo passati da 350ppm nel 2001 a 417 ppm nel 2021), o, quanto meno, la sua inadeguatezza nel determinare risultati con una tempistica plausibile, riducendosi a dichiarazioni d’intenti fuori tempo massimo.

C’è da chiedersi se dobbiamo continuare a contare su un meccanismo del genere, sostanzialmente utile ai governi per procrastinare gli obblighi di svolta temporalmente indifferibili.

Al contrario che nella “Laudato Sì” – dove l’approccio è contemporaneamente di riconversione strutturale, di ripensamento del rapporto uomo natura, di conversione anche individuale, il meccanismo della Cop non prende in considerazione l’autonomia delle leggi fisiche planetarie e presume che le classi sociali ricche o le economie più forti debbano autopreservarsi lungo cammini propri, che non escludono indifferenza e nemmeno che il tempo stia venendo a mancare.

Credo che la Ue sia l’ambito su cui dirigere un grande movimento ed una lotta che raccordi vari territori con una piattaforma che faccia della giustizia climatica e sociale lo slancio che colleghi alto e basso e, insieme, faccia della svolta culturale e sociale che ne nasce una base per il rinnovamento della rappresentanza politica. I risultati si diffonderebbero per osmosi: la storia umana delle transizioni tecnologiche e delle rivoluzioni sociali lo dimostra, in particolare quando partecipano le nuove generazioni.

Il Foglio del 14 novembre così commentava l’esito della Cop26: “Meno isterismo, più gradualità. Meno ideologia, più spazio ai privati. La transizione del futuro è tutta qui”! Non più, quindi, volgare negazionismo climatico, ma un affidamento all’impresa, alla tecnologia, ai tempi del mercato, incompatibili, come constatiamo, con la sopravvivenza. Non sarà facile “rimontare”. Nessuno verrà a salvarci, se non noi stessi, promuovendo innanzitutto nella scuola e nell’organizzazione del lavoro la conoscenza scientifica, rigorosa e interdisciplinare del capitale naturale che stiamo distruggendo.

Se è dall’Europa che vogliamo ripartire, allora l’inopinata torsione all’indietro di Ursula von der Leyen e Timmermans sulla tassonomia verde, aperta inopinatamente a gas e nucleare proprio in concomitanza coi cedimenti di Glasgow, va decisamente isolata e sconfitta.

In Italia si è già aperta una falla: non a caso Cingolani e Draghi non hanno sottoscritto la presa di posizione di Germania, Austria, Lussemburgo, Spagna Portogallo e Danimarca in una dichiarazione contro l’inserimento del nucleare nella tassonomia Ue, dopo che la Francia ha lavorato dietro le quinte per forgiare un compromesso che soddisferebbe i sostenitori sia del gas che dell’energia nucleare ai fini di ottenere i fondi europei del Next Generation EU.

Mentre il governo italiano è latitante e Scholz, il leader dell’Spd impegnato per le trattative per il nuovo governo tedesco, tace, i legislatori progressisti in Germania e in Parlamento europeo hanno rilasciato una dichiarazione congiunta per intervenire sul dibattito: “La Commissione UE ora vorrebbe catalogare sotto la voce ‘sostenibili’ gli investimenti in nuove centrali nucleari e a gas e questa è un’impertinenza e una inaffidabilità davanti alla comunità mondiale”, afferma Lisa Badum, portavoce di lunga data della politica climatica dei Verdi nel parlamento tedesco. Il 15 novembre 129 ong per il clima di tutta Europa hanno firmato una lettera aperta e lanciato una raccolta di firme, bollando come “vergogna scientifica” la classificazione di sostenibilità del nucleare e del gas “qualificato come attività transitoria fino al 2030 nel caso in cui le emissioni non superino i 100 grammi di CO2 equivalente per chilowattora”. C’è da capire chi ha stabilito e chi certificherà le emissioni per non essere preda di una burla clamorosa: 100gCO2/kWh è un livello entro il quale nessuna tecnologia a gas riuscirebbe a stare, e che secondo certi studi sfora pure il nucleare.

Intanto, stanno partendo le prime sensibilizzazioni di massa che preparano mobilitazioni intransigenti. In Germania un appello contro gas e nucleare ha raggiunto già 80.000 firme in due settimane, mentre in Italia si può siglare un analogo documento su change.org, che ha raccolto in brevissimo tempo oltre 2500 consensi.

L’aria che tira richiede un’attenzione sui punti critici che sono in corso: a Civitavecchia è stato richiesto un nuovo consiglio comunale aperto per tornare a chieder conto del del progetto alternativo al turbogas.

Nel frattempo, nel silenzio svelato dall’editoriale del 17 novembre di Domani, Eni sta ricevendo l’ok del governo nella legge finanziaria per 150 milioni pubblici per la cattura di CO2 a Ravenna. Possibile che tocca protestare solo agli ambientalisti e non ai cittadini delusi e, in particolare, a lavoratrici e lavoratori che si vedono dimezzata l’occupazione e ammalorato l’ambiente in cui vivono, senza svolte significative all’orizzonte?

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