Con il trascorrere dei giorni, la guerra in Ucraina non mostra soltanto lo spettro più atroce di enormi sofferenze ed i profitti odiosi dell’apparato militar-industriale, ma, nella follia che l’accompagna, rende evidenti enormi e calcolati interessi che stravolgono i mercati degli alimenti, dei combustibili e delle materie prime, mentre viene dilazionata in modo drammatico la conversione ecologica per combattere l’ingiustizia sociale e il cambiamento climatico. Su quest’ultimo aspetto e sulle politiche europee e nazionali al riguardo mi voglio qui soffermare.
Per ottenere il sostegno dei socialisti e dei liberali, Ursula von der Leyen si è impegnata a ridurre le emissioni di gas serra dell’Ue al 55% entro il 2030. Ora, il Partito popolare europeo (PPE) sostiene che la guerra in Ucraina renderà più difficile l’obbiettivo previsto e che gli inquinatori industriali dovranno avere più libertà di azione. Così, il centro-destra sta minacciando di far naufragare una riforma cruciale del mercato del carbonio, rischiando di far deragliare le ambizioni climatiche dell’Ue. L’eurodeputato francese Pascal Canfin ha riferito ad Euractiv che “Se sommiamo tutti gli emendamenti del PPE sui quattro testi in esame al Parlamento, non raggiungiamo il 55%”.
Molti sospettano che il PPE ricada nelle vecchie abitudini e difenda gli interessi delle industrie inquinanti coperte dal sistema per lo scambio di quote di emissioni (ETS). Dietro questa posizione c’è la volontà di acquisire nuove quote di carbone e metano provenienti da Australia, Qatar e Stati Uniti dopo le sanzioni sulla Russia.
Di contro, undici ex commissari dell’Ue, tra cui Romano Prodi, hanno inviato una lettera congiunta alla Commissione europea, martedì 3 maggio, chiedendole “una profonda trasformazione del sistema (energetico) verso idrogeno e rinnovabili” e “di garantire che le azioni a breve termine per allontanare l’Ue dalla dipendenza dai combustibili fossili russi non finiscano col costringere l’Ue ad una rovinosa dipendenza dai combustibili fossili da altri paesi”. Inoltre, invitano la Commissione a ritirare il suo progetto di atto delegato complementare per includere il gas fossile nella tassonomia dell’Ue come attività transitoria”.
In questo quadro in cui le destre europee si ergono a difesa delle multinazionali del settore Big Oil, è in corso una inversione rilevante dovuta alla pressione crescente degli investitori (i grandi fondi istituzionali in particolare) verso la transizione a fonti energetiche meno dannose per l’ambiente e il clima globali, con una spinta particolare verso eolico, fotovoltaico e idrogeno verde.
La risposta delle imprese fossili per eccellenza – come spiega Nicola Borzi su il Fatto Quotidiano del 9 maggio – sta nell’aumentare il rendimento del capitale per mantenere l’appeal delle proprie azioni. E qui viene in soccorso la guerra, ovviamente non per tutti in egual misura. Il conflitto in Europa orientale per ora ha stabilizzato i costi del petrolio in una fascia che oscilla intorno ai 110 dollari al barile, con un rialzo del 60% nell’ultimo anno. A questi valori, le imprese del settore realizzano enormi utili industriali. Sette delle più grandi multinazionali del greggio in media hanno triplicato i profitti netti rispetto a un anno fa. L’Eni li ha aumentati addirittura di dieci volte, da 0,3 a 3,3 miliardi di dollari. La statunitense Chevron li ha più che quadruplicati a 6,3, la francese Total li ha triplicati a 9 miliardi.
Le armi trasferite all’Ucraina dai Paesi Nato, da Canada e soprattutto Stati Uniti consumano ingenti quantità di fossili e, mentre attaccano pesantemente il clima, mantengono alti i prezzi dei combustibili, a qualsiasi costo, da attribuirsi non solo all’estrazione, ma, in aggiunta, ai trasporti via nave, alla rigenerazione di vecchi metanodotti, al costo della liquefazione del gas e dell’allestimento di impianti di rigassificazione nuovi “di pacca” alle banchine dei porti europei.
Washington immetterà sul mercato in media un milione di barili in più al giorno, spesso di provenienza da gas di scisto, destinati, dopo liquefazione e trasporto transoceanico ai moli del Mediterraneo e del Baltico. Con la guerra in Ucraina il gas naturale liquefatto (Gnl), a oggi, è l’unica fonte disponibile in tempi rapidi (ma a prezzi molto più alti) per liberarsi dalla dipendenza verso Mosca. Così, l’import di Gnl è cresciuto del 28% su base annua da gennaio a fine aprile mentre il consumo di gas in Europa è diminuito del 6%.
E da noi? Si suppone che, data l’esposizione naturale dell’Italia, ci sia una rincorsa alle rinnovabili. Invece, per quel che si sa, Snam è alla ricerca dell’acquisto di due navi metaniere nuove, una delle quali per metanizzare la Sardegna!
Intanto, la Commissione europea ha pubblicato martedì 3 maggio un rapporto che mostra progressi contrastanti nell’attuazione della direttiva sulla pianificazione dello spazio marittimo, che richiede a 22 Stati membri costieri di produrre piani dello spazio marittimo entro il 31 marzo 2022. Sebbene la maggior parte degli Stati membri costieri abbia ora un piano di questo tipo, secondo il rapporto otto paesi (Estonia, Spagna e Bulgaria, Croazia, Cipro, Grecia, Italia e Romania) non hanno compiuto progressi sufficienti. (V,https://aeur.eu/f/1go(LC)
E allora, mi domando, l’OK all’eolico galleggiante a Civitavecchia, in quale corridoio ministeriale si è perso?
L’articolo La guerra che rincorre i fossili, rallenta le rinnovabili e arricchisce Big Oil proviene da Il Fatto Quotidiano.