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Anche la decarbonizzazione produrrà CO2. Il fattore decisivo? I tempi

In un lungo e documentato articolo, un gruppo di scienziati e tecnici statunitensi del Pnas valuta il rischio pagato in adattamento e aggravamento climatico in funzione della rapidità con cui si rendono operative le fonti rinnovabili per abbattere le emissioni fossili. Il testo, ricco di grafici e di tabelle, rileva come non sia stato ancora sufficientemente discusso un bilancio relativo alla quantità di energia e materiali “sporchi”, che continueranno a causare inquinamento e surriscaldamento anche solo per costruire e rendere operativi nuovi impianti alimentati da acqua, sole e vento, oltre ad allestire batterie, nuovi sistemi di reti elettriche locali, fino a barriere costiere a riparo dell’innalzamento dei mari.

Solitamente non si prende in considerazione quanta CO2 e quanto CH4 “non contabilizzato” occorreranno per modificare a fondo, trasformandolo, l’attuale sistema energetico. In effetti, la decarbonizzazione che viene fissata per obbiettivi da raggiungere in vari stadi da qui al 2100, va contabilizzata puntualmente tenendo anche conto di una quota di emissioni dovute all’impiego di fossili necessari– almeno all’inizio – per costruire i nuovi impianti. In sostanza, la diffusione delle rinnovabili si traduce in una domanda di energia per tutto il 21° secolo, inizialmente soddisfatta principalmente dai combustibili fossili, poi sempre più dalle fonti rinnovabili stesse, diventate, secondo la definizione di Georgescu Roegen, finalmente “prometeiche”.

I diversi pericoli del cambiamento climatico indotto dall’uomo richiedono due grandi sforzi a livello internazionale:

1) Ridurre le emissioni di gas a effetto serra (Ghg) in misura sufficiente a mantenere il riscaldamento al di sotto di un limite prefissato;

2) Adattare le infrastrutture e le altre attività umane al cambiamento che ne risulta in base al limite effettivamente raggiunto. Per ottenere una previsione quantitativa affidabile dei risultati di tali sforzi occorre, in primo luogo, stimare l’effetto delle emissioni di Co2 del settore energetico attuale con cui si ottiene una costruzione di massa di capacità di generazione di elettricità rinnovabile (anche la più rapida diffusione di energie rinnovabili richiede emissioni di climalteranti dovute all’impiego delle fonti fossili con cui attualmente vengono fabbricate). In secondo luogo, va valutato come e quanto il riscaldamento climatico dovuto alle emissioni storiche e nel futuro – il più prossimo possibile – renderà necessario il raffreddamento degli ambienti in nuove regioni e aumenterà la durata e l’intensità del suo ricorso a livello globale;

3) In terzo luogo, va preso in considerazione l’innalzamento del livello del mare causato dalle emissioni storiche e future, che richiederà la costruzione di difese contro le inondazioni e il trasferimento di alcuni insediamenti costieri.

In definitiva, ciascuno di questi tre interventi richiederà energia per essere approntato e funzionare e, poiché la capacità rinnovabile è attualmente insufficiente, questa energia che definiamo “incorporata” deve essere inizialmente alimentata da combustibili fossili con conseguenti emissioni di CO2 incorporate. Dallo studio citato emerge come fattore decisivo l’abbreviamento dei tempi di sostituzione dei combustibili fossili che, se non drammaticamente accelerati entro il 2025 e praticamente conclusi entro il 2050, porterebbero a un innalzamento della temperatura del Pianeta oltre 2.7°C a fine secolo.

L’analisi del Pnas fornisce una stima dettagliata delle emissioni di CO2 incorporate, che potrebbero derivare dalla mitigazione e dall’adattamento durante la transizione climatica per gli anni dal 2020 al 2100. Per farlo vengono quantificate primariamente e come riferimento le emissioni incorporate nella transizione in un percorso energetico e climatico futuro graduale e coerente con una ipotesi di aumento della temperatura di +2 °C. Quindi, si confrontano queste emissioni incorporate in uno scenario rapido (1,5 °C) e in uno ritardato (2,7 °C).

Per quanto riguarda i risultati a fine secolo, la rapidità di sostituzione delle fonti fossili risulta rilevantissima. Avendo preso a riferimento un percorso di decarbonizzazione graduale che limiti il riscaldamento a 2 °C (limite che molto probabilmente rischieremo di superare), gli interventi selezionati relativi all’adattamento (coibentazioni degli edifici, dighe sui litorali, arretramenti di insediamenti etc.) emetteranno ~1,3 GtCO2 fino al 2100, mentre le emissioni derivanti dall’energia utilizzata per distribuire la nuova capacità rinnovabile sono assai rilevanti: ~95 GtCO2. Insieme, queste emissioni equivalgono a oltre 2 anni delle attuali emissioni globali e all’8,3% del restante budget di carbonio per non superare i 2 °C.

Le emissioni di transizione incorporate totali vengono invece ridotte di circa l’80% (a 21,2 GtCO2) con un percorso rapido che limita il riscaldamento a 1,5 °C, con un picco nel 2025 a 3,8 GtCO2/anno prima di diminuire drasticamente, mentre raddoppiano (all’incirca a 185 GtCO2) in un percorso ritardato, purtroppo coerente con le politiche attuali e corrispondente a 2,7 °C di riscaldamento entro il 2100.

Ne segue che, in risposta alle guerre già intrinsecamente climalteranti, sia un pessimo annuncio quello di reiterare con nuovi approvvigionamenti l’impiego del gas e del carbone nelle centrali (rigassificatori e revamping di centrali fossili) e l’utilizzo del petrolio nella motorizzazione, come traspare anche dalle mosse del nostro governo.

Nonostante la crescente minaccia dell’effetto serra è in atto un consolidamento dei centri di potere legati ai fossili: colossi “pubblici” che, sulla base dei loro profitti, suggeriscono al governo del proprio Paese come operare e quali alleanze stipulare. Anche in Europa il ruolo delle lobby sta avversando una svolta ancora timida verso l’autoproduzione da fonti naturali, il decentramento territoriale, il risparmio, le forme di consumo comunitarie al punto che a inizio 2023 i governi dei 27 Paesi si sono fatti riluttanti a impegnarsi per un obiettivo di rinnovabili al di sopra del 40% per il 2030.

In conclusione: nell’ambito del percorso di decarbonizzazione rapida, il tasso di installazione della capacità rinnovabile è in media di 5,9 TWp/anno dal 2020 al 2050, il 30% in più rispetto al tasso per il percorso graduale, con picchi forti negli anni 2020 a oltre 10 TWp/anno. I combustibili fossili sono virtualmente eliminati dal mix energetico entro il 2030 e la diffusione delle energie rinnovabili è successivamente alimentata dal reinvestimento (prometeico) di energia rinnovabile, mentre il livello del mare aumenta del 14% in meno rispetto alla graduale decarbonizzazione verso i +2°C (43 cm entro il 2100).

Purtroppo, il confronto tra i tre scenari riflette accuratamente l’attuale divario globale tra impegni e azioni per il clima. Mentre gli accordi internazionali affermano obiettivi di riscaldamento massimo ben al di sotto di 2 °C e idealmente di 1,5 °C, le politiche nazionali sono complessivamente più coerenti con lo scenario di transizione ritardata di ~2,7 °C, con impatti inimmaginabili per la geopolitica, l’economia e il clima.

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L’anno nero dell’energia /2 – Sul gas paghiamo il prezzo di non aver investito in transizione verde

[continua da qui]

Le conclusioni della Cop 27

Il 20 novembre, alla COP 27 di Sharm el-Sheikh, tra lo stallo dei governi e le pressioni delle lobby e dopo un’impasse tesa e molte ore di negoziati, quasi 200 paesi hanno raggiunto un accordo per istituire un fondo perdite e danni per assistere le nazioni più colpite dal cambiamento climatico – una richiesta considerata non negoziabile dai paesi in via di sviluppo. Questo però è l’unico risultato davvero significativo dell’Assise protratta tra notevoli tensioni oltre la sua scadenza prevista, dopo aver constatato l’impossibilità di far avanzare il processo avviato dopo Parigi 2015 verso il contenimento dell’aumento della temperatura del pianeta entro 1,5°C.

Ridurre gli obiettivi di Next Generation Ue?

Il confronto a tre (Commissione, Consiglio e Parlamento Ue) di inizio anno sulla tassonomia sembra ripetersi sulla riduzione dell’obbiettivo di rinnovabili al 2030, dal 45% al 40 %. I 27 ministri dell’Energia hanno trovato una maggioranza che sostiene la riduzione dell’obbiettivo, osteggiato solo da Austria, Danimarca, Estonia, Germania, Grecia, Lussemburgo, Portogallo e Spagna, ma non dall’Italia. Toccherà al Parlamento organizzare una risposta per mantenere il 45% come livello da perseguire.

Ma anche la Germania sta glissando su queste aspettative: infatti è significativa la resistenza della popolazione di Lützerath, un piccolo centro della Renania, nella Germania nordoccidentale, che deve scomparire per far posto all’ampliamento di una delle maggiori miniere a cielo aperto d’Europa, che dovrebbe aumentare di 280 milioni di tonnellate l’estrazione di lignite. Malgrado le precedenti promesse di non farlo e i solenni impegni sulla riduzione delle emissioni che puntuali si rinnovano ad ogni conferenza internazionale sul clima, le istituzioni tedesche locali e nazionali hanno deciso di radere al suolo a metà di gennaio del 2023 il villaggio per continuare i processi di escavazione.

C’è solo un piccolo ostacolo: la popolazione locale – qualche migliaio di cittadini – e i movimenti territoriali non sono affatto d’accordo e hanno cominciato a fermare le solerti autorità che devono garantire la presunta inevitabile avanzata del progresso piegando brutalmente ogni resistenza.

Ccs a Ravenna?

Il nuovo ministro dell’Ambiente (più precisamente ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica) Pichetto Fratin e la nuova Presidente del Consiglio Meloni fanno una gran pubblicità alla trasformazione del nostro Paese nell’Hub di distribuzione del gas per l’Europa come se fosse una idea rivoluzionaria del governo appena insediatosi. In realtà era già un progetto del governo precedente sponsorizzata da Eni, in questi mesi in odore di rinnovo del suo CdA. L’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, e l’amministratore delegato di Snam, Stefano Venier, hanno firmato lo scorso 19 dicembre un accordo attraverso il quale Eni e Snam, in joint venture paritetica, collaboreranno allo sviluppo e alla gestione della Fase 1 del Progetto Ravenna di cattura e stoccaggio della CO2 (CCS), che prevede la cattura di 25mila tonnellate di CO2 dalla centrale Eni di trattamento di gas naturale di Casalborsetti (Ravenna). Una volta catturata, la CO2 sarà convogliata verso la piattaforma di Porto Corsini Mare Ovest e infine iniettata nell’omonimo giacimento a gas esaurito, nell’offshore ravennate. A testimonianza, quindi, di quanto il metano rimanga strategico nelle intenzioni delle burocrazie che guidano la politica energetica nazionale.

Extraprofitti e prezzo del gas

Grazie alle sanzioni, le società energetiche americane (v. Financial Times, 5 novembre 2022) hanno registrato tra aprile e settembre 2022 extra profitti per 200 miliardi di dollari, mentre le metaniere Usa navigavano davanti alle coste europee europee per scaricare quando i prezzi erano (e sono) ancora elevati. Bp, Eni, Equinor, Repsol, Shell e TotalEnergies, ovvero le sei principali oil major europee, hanno incamerato 74,55 miliardi di dollari di extra-profitti nel solo primo semestre del 2022.

E’ toccato a Starace, ad di Enel, di criticare al meeting Ambrosetti di Cernobbio l’eccessiva dipendenza del Paese dal gas. Anche queste voci autorevoli sono però oscurate dalla politica nostrana, che ha nel gas e nel possibile ripristino del carbone la carta che preferisce adottare in emergenza.

In una fase in cui vediamo le nostre bollette aumentare a dismisura, sia per effetto della speculazione finanziaria che della guerra, dobbiamo – oggi più che mai – leggere la situazione in tutta la sua enorme complessità, per non lasciare che l’emergenza e le paure di un carico insostenibile per bisogni primari siano usate per ridefinire la direzione delle politiche energetiche, gli assetti internazionali e, addirittura, il futuro del pianeta sulla base degli interessi di pochi.

Contrariamente a quello che ci viene detto, quello che viviamo oggi è il prezzo per non aver investito sulla transizione verde. Con la corsa al gas stiamo arricchendo governi autocratici quali Egitto, Azerbaigian, Algeria, Repubblica del Congo e ne stiamo avallando le drammatiche politiche repressive dei diritti umani e sociali e gettando così le basi per nuovi conflitti.

A livello europeo si è concordato che il prezzo del gas non debba scendere sotto un certo livello, per non penalizzare eccessivamente gli scambi speculativi di mercato dove viene quotato. E’ il mercato di Amsterdam (TTF) che decide il prezzo del gas, definendolo sulla base dei titoli future e non sull’effettivo scambio tra offerta e domanda. La sua recente oscillazione tra 330 euro al MWa ed il valore attuale attorno ai 100 euro al MWa è dovuta variabili contingenti, ma non si riflette immediatamente sul consumatore finale. Il regolatore europeo ha solo funzioni di coordinamento e armonizzazione ed il price cap introdotto per i valori dell’energia elettrica fissato a livello europeo è regolato al fine di evitare eccessive distorsioni prodotte dall’interscambio. E ciò non per fissare un prezzo “politico” in una fase di assoluta eccezionalità, ma per assicurare comunque margini di profitto alle compagnie Oil &Gas.

Il cambio di prospettiva

In direzione positiva, anche se criticata dai gruppi ambientalisti secondo cui l’accordo non è all’altezza di quanto necessario per mantenere l’aumento delle temperature globali al di sotto di 1,5 °C, va citata la nuova normativa UE sul Sistema per lo scambio delle quote di emissioni (ETS). La riforma degli Ets amplierà la platea dei settori interessati e ridurrà l’inquinamento del 62% entro il 2030, rispetto al 43% previsto attualmente. Il sistema Ets attuale riguarda circa 10.000 fabbriche e centrali elettriche, consentendo a chi ha quote di emissione in eccesso di realizzare un profitto più contenuto, vendendo permessi di CO2 sul mercato. Il prezzo del carbonio sarà di circa 100 euro, rispetto agli 80-85 euro attuali ed i permessi di emissione gratuiti saranno gradualmente sostituiti dalla nuova tariffa sul carbonio alle frontiere.

Ricorro, a titolo conclusivo, ad una serie di osservazioni portate con competenza da Leonardo Berlen su Qualenergia e da me condivise.
In Italia abbiamo dai tre ai cinque anni per cambiare marcia al fine di arrivare ad installare al 2030 70 nuovi GW tra fotovoltaico ed eolico, investire in reti di distribuzione e trasmissione, elettrificazione dei consumi, sistemi di accumulo di vario tipo, iniziare a rendere operativi diversi elettrolizzatori per la produzione di idrogeno verde, per non parlare della riqualificazione profonda del nostro energivoro parco edilizio. Sotto questo profilo, la realizzazione del progetto eolico e fotovoltaico di Civitavecchia assume, anche per i tempi di attuazione e per la mobilitazione che l’ha sostenuto, una funzione nazionale paradigmatica.

Sono necessari interventi su vari fronti, sia sul quello autorizzativo e normativo per allocare ingenti investimenti nella formazione di tecnici e di addetti della pubblica amministrazione nazionale e locale, sia su quello della programmazione di politica industriale che favorisca la nascita di linee produttive nazionali per sistemi e componenti essenziali nell’ambito di una manifattura oggi in crisi e da riconvertire a confronto di prodotti importati da mercati in cui gli standard ambientali sono più deboli e che altrimenti godrebbero di un vantaggio competitivo ingiusto.
Per il solo fotovoltaico si tratta di allestire e collegare in rete 8 GW all’anno, passando dai 27 TWh/anno generati oggi dal solare a 100 TWh/anno: una produzione che ci consentirebbe di evitare l’importazione di 20 miliardi di metri cubi di gas/anno. Un compito ed una sfida che anche culturalmente deve riguardare la politica l’imprenditoria, il sindacato.

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L’anno nero dell’energia e i timidi passi verso la transizione: ma le lobby sono ancora troppo forti

Se dovessimo fare un bilancio sull’avanzamento della conversione energetica nell’anno appena conclusosi difficilmente potremmo essere ottimisti, anzi! L’energia è emersa nel suo aspetto più politico, svincolandosi dal peso del solo mercato, condizionata ampiamente da un’incipiente “terza guerra mondiale a pezzi”. La stessa coesione della Ue, dimostrata al tempo del “20/20/20”, si è frantumata a fronte di una crisi energetica senza precedenti. Dodici riunioni dei ministri dell’Energia – precedute da 191 riunioni di gruppi di lavoro e ambasciatori – per coordinare la risposta dell’Europa all’aumento dei prezzi del gas e dell’elettricità hanno soltanto assunto l’impegno generico ad acquistare congiuntamente la fonte fossile ad impatto forse meno devastante e ad accelerare l’autorizzazione degli impianti di energia rinnovabile, per sostituirla in un futuro “compatibile” con i suoi effetti climalteranti.

Ma invece del “grande affare energetico europeo” di cui l’Europa aveva bisogno, i leader dell’Ue sono rimasti bloccati nella politica interna. Al di là della svolta politica, indotta dall’invasione russa dell’Ucraina, ciò che rimane è una lotta senza senso per un tetto massimo del prezzo del gas, che nella migliore delle ipotesi farà ben poco per abbassare i prezzi dell’energia e, nella peggiore, spaventerà i venditori sul mercato. Lo stanziamento comune Repower UE per la riconversione dal fossile è sostenuto con pochi soldi freschi – un misero 20 miliardi di euro prelevati dal mercato delle emissioni – e, mentre i Paesi dell’Ue sostengono a parole e con distinzioni preoccupanti le energie rinnovabili, i loro governi rimangono riluttanti a impegnarsi per un obiettivo al di sopra del 40% per il 2030.

I centri di potere legati ai fossili sono tuttora colossi pubblici che rendicontano al governo del proprio Paese del loro operato. Il ruolo delle lobby ha di conseguenza sovrastato la svolta ancora timida verso l’autoproduzione da fonti naturali, il decentramento territoriale, il risparmio, le forme di consumo comunitarie. In realtà è come se i governi e le popolazioni si trovassero su due diversi binari, mentre le vere emergenze del clima, della guerra (nucleare?), della riduzione delle libertà e dei diritti sociali si spostano nel tempo su uno sfondo geopolitico incerto.

Il 2022 anno nero per il clima

Secondo l’ultimo rapporto della Iea, nel 2022 le emissioni mondiali di CO2 aumenteranno di 330 milioni di tonnellate. Ma le tonnellate in più sarebbero state il triplo senza il contributo delle rinnovabili e della mobilità elettrica. L’incremento mondiale della di CO2 in questo anno (+1%) è stato determinato da un piccolo aumento (+1,5%) delle emissioni statunitensi e da uno più elevato di quelle indiane. Le emissioni cinesi hanno registrato invece un lieve calo (-0,9%), analogo a quello della UE (-0,8%).

Veniamo da un periodo di siccità che ha colpito l’Italia, soprattutto il centro nord, con un clima sempre più torrido e con una diminuzione massiccia della produzione agro-alimentare. Il rapporto di Legambiente registra 310 “fenomeni” che hanno provocato 29 morti. A livello territoriale il nord della Penisola è stata l’area più colpita. A livello regionale la Lombardia è la regione che registra più casi “singolari”, ben 37. Il mese di giugno, poi, ha visto una anomalia della temperatura media di +3,3°C in Italia. A luglio il record si è registrato nelle città lombarde: a Brescia e Cremona si sono misurati 39,5°C, a Pavia 38,9°C e a Milano 38,5°C. Ne hanno mai parlato Salvini o Fontana? Senza risorse è impossibile ripensare la città. Come garantiamo, di conseguenza, ad agricoltura e allevamento le opportunità per diversificare le attività? Come promuoviamo la vivibilità per i cittadini e la sopravvivenza delle attività produttive?

Per quanto riguarda il mare che lambisce le nostre coste, va detto che sono uno dei pozzi di carbonio più preziosi al mondo. Sono le distese di acqua salata a catturare e trattenere circa 1/3 dell’anidride carbonica emessa dall’uomo ogni anno in atmosfera. Tuttavia, questo ruolo di “carbon sink” scricchiola sotto il peso del riscaldamento globale. Oceani più caldi renderanno “più difficile per il carbonio organico trovare la strada per essere sepolto nel sistema sedimentario marino”. Eppure a Ravenna l’Eni conta di poter seppellire in mare la CO2 sequestrata dai suoi impianti!

La crisi pandemica, i lockdown, il caro energia e di materie prime con un’inflazione a due cifre, la guerra in Ucraina, i rischi sempre più concreti di sicurezza sulle forniture, gli eventi climatici sempre più estremi, sono tra loro interdipendenti e il cambio di paradigma energetico assume un ruolo molto rilevante: basta pensare che l’Italia ha speso nel 2022 circa 75 miliardi di euro in più per l’energia rispetto alla media dei 10 anni precedenti. Una cifra comparabile con gli investimenti per lo sviluppo delle fonti rinnovabili in base agli obbiettivi europei assegnatici dalla Ue al 2030.

La guerra in Ucraina e la sostituzione del gas russo

Certamente la data del 24 febbraio ha impresso un punto di svolta determinante, ma già con l’inizio dell’anno, dopo l’approvazione della tassonomia europea che rendeva “green” il gas e il nucleare, si è realizzata una prima ferita alla completa decarbonizzazione del sistema elettrico, da conseguire entro metà secolo nella Ue.

Con l’eliminazione delle importazioni di gas dalla Russia, resa ancor più definitiva dopo la distruzione dei gasdotti Nord Stream 1 e 2 (avvenuta lo scorso 26 settembre), l’Europa ha tagliato i ponti dietro se stessa, ricorrendo ad un maggiore impiego del carbone ed alla riconferma del nucleare assieme ad una corsa forsennata a trovare nuovi canali di rifornimento di metano. Pur tuttavia, nello stesso tempo, è stato incrementato l’apporto delle rinnovabili di 39 TWh in più rispetto al 2021 (+13% su base annua), con il primato del Portogallo che ha alzato dal 58 all’80% la quota di rinnovabili elettriche da raggiungere nel 2026, mentre l’Italia è per ora rimasta sostanzialmente al palo di una incerta progettazione di eolico e fotovoltaico in mare.

Nell’immediato, il nostro governo ha deciso di cercare nuovi partner e nuove condotte per il metano e di mettere in opera due nuovi rigassificatori galleggianti per l’acquisto nei prossimi anni di gas liquido (GNL). Un’operazione giustamente contestata per l’aspetto strutturale che sottende: il ciclo del GNL è molto inquinante. Passa infatti da estrazioni rovinose, dal successivo processo di liquefazione, dal trasporto via mare a lunga distanza in grandi navi, dalla necessaria rigassificazione e dall’aggancio finale ai tubi dei gasdotti locali. In pratica, il governo ricorre ad un potenziamento non temporaneo delle infrastrutture fossili, reso evidente dall’annuncio di progetti di 2.000 km di nuove pipeline, il 18% in più rispetto all’esistente. Risulta così ancor più rilevante la dispersione in atmosfera di quantità di CH4 puro, fortemente climalterante.

Ci si affida quindi alla carta del GNL il cui limite operativo non dipende da fattori tecnologici, ma dalle infrastrutture che sono rappresentate, dal numero di navi gasiere disponibili sul mercato e dai terminali di liquefazione (in partenza: Usa e Qatar) e di rigassificazione (in arrivo: Piombino e Ravenna in primo luogo). La costruzione di altri gasdotti e di approdi alle metaniere, quando il mondo ha bisogno di abbandonare urgentemente i combustibili fossili è una tendenza più che preoccupante e non solo per il nostro Paese.

L’illusione del nucleare e il miraggio della fusione

Roberto Cingolani sul Corriere del 31 dicembre proclama: “Nucleare niente pregiudizi, il futuro passa da qui: armi ed energia sono cose diverse”. Buon per lui. Che il prossimo decennio sia decisivo per la storia umana lo scrive nell’introduzione il documento in 80 pagine sulla strategia di difesa Usa (DNS), centrato in gran parte sull’impiego dell’arma nucleare e sulla supremazia tecnologica del Pentagono. Geopolitica al top e biosfera e natura retrocesse a preda del vincitore.

Una simile distorsione nell’interpretare l’epoca attuale comporta un arretramento di civiltà, un colpevole spreco di risorse necessarie alla sopravvivenza, la predisposizione alla guerra come soluzione della “concorrenza” tra blocchi in corsa per l’egemonia globale. In un simile contesto è l’energia che la fa da padrone, anche sotto la forma più incontrollabile delle armi. In questo quadro “scosso” è facile far scivolare l’opinione pubblica verso il nucleare civile, da fissione o fusione che sia, raccontato come praticabile e difendibile quanto l’uso incontenibile delle armi, fino ad un sommesso “sdoganamento” dell’atomica.

In un contesto così alterato prende corpo il miraggio della fusione, un’energia come quella che proviene dal sole (ma ad una distanza di 150.000 km!) che nell’esperimento propagandato a Livermore non tiene conto del divario incolmabile tra il risultato dell’accensione e l’energia necessaria per il pareggio del dispositivo. Questo modo di procedere e di spacciare per ingegnerizzabile e commerciabile in anni vicini un esperimento di prevalente destinazione militare, ha instaurato tra scienza e tecnologia un processo politico di decisione e informazione dei cittadini con l’obbiettivo di mettere sotto il tappeto quel “non c’è più tempo”, che invece è ormai patrimonio del senso comune ed ha a portata di mano la rivoluzione delle rinnovabili.

[CONTINUA…]

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Sulla fusione nucleare ho letto sciocchezze a fiumi: una mistificazione che può fare gravi danni

Abbiamo una comprensione teorica della fusione nucleare da oltre un secolo, ma siamo ben lontani dal poterla impiegare come fonte elettrica continua e controllabile. Eppure, Repubblica, lo scorso 14 dicembre, titolava: “Viaggio nel futuro, un bicchiere d’acqua ci scalderà per un anno. Nessun governo potrà più ricattare gli altri usando il petrolio o il gas come pistole”. Banalizzando e dando corpo a scenari irrealizzabili al presente e perfino scientificamente azzardati, una voce importante si è unita al coro fastidioso e incosciente di prostrazione del giornalismo nostrano all’annuncio che “l’Occidente” per definizione (gli Stati Uniti) è vicino, in solitaria, a realizzare il miracolo dell’energia del sole, così abbondante da tracimare da enormi impianti e da procrastinare il mito della crescita per un futuro senza limiti di contenimento.

“Ci vorranno almeno 30 anni” afferma invece Stefano Atzeni, dell’Università La Sapienza di Roma ed io ritengo che sia un grave errore da parte dei media tentare di capovolgere la sensazione diffusa che, invece, con la pandemia la guerra e il clima il tempo venga a mancare, se non si muta al presente, non fra 30 anni, il paradigma energetico dei fossili e del nucleare, rigidamente centralizzato ed a grande spreco.

E’ vero che il test realizzato al NIF (i laboratori di Livermore) ha prodotto più energia con la fusione di quella fornita ai laser utilizzati per provocare la reazione stessa. Ma è pur vero che, se si considera tutta l’energia impiegata e non solo quella che incide sul target, anziché un guadagno netto, si ha un rendimento da numero decimale. E non sarebbe inutile osservare che, dopo ogni singola “iniezione”, occorre raffreddare il sistema ottico e ripristinarne le condizioni normali, con tempi non inferiori al giorno.

Il profluvio di sciocchezze date alla stampa risulta fuorviante e di non trascurabile danno, in particolare nella fase in cui siamo. Si è scritto e detto che “il processo avviene a velocità superiore a quella della luce” (Repubblica), che si impiega “acqua pesante, cioè non distillata da usarsi come materia prima: anche quella di mare” (Rampini sul Corriere) e, ancora, che “una mezza palla da basket” – evidentemente magica – sarebbe dovuta entrare nel “cilindretto lungo pochi millimetri” (Ansa), oppure, che “la fusione inerziale non genera radioattività, non produce scorie” (Descalzi, ceo Eni).

Questo modo di procedere tra scienza a spanne e tecnologia un tanto al chilo, ha innescato un processo politico di coinvolgimento e informazione dei cittadini con l’obbiettivo di mettere sotto il tappeto le emergenze cui dobbiamo porre adesso riparo, a partire dal ripristino della pace e dall’eccessivo riscaldamento climatico. Un popolo incolpevolmente disinformato, una casta di giornalisti incompetenti ma pronti a propalare il mainstream predicato dall’Amministrazione Usa, una diffusione di miti energetici venturi, hanno occultato la “strada verso l’inferno” che stiamo percorrendo “col piede sull‘acceleratore”, come ha affermato il presidente dell’Onu Gutierrez alla Cop 27 in Egitto.

Sono tantissime le sfide tecnologiche che devono ancora essere superate, sia per la fusione a contenimento inerziale con i laser (quella che ha portato al risultato ottenuto a Livermore) sia per la fusione a confinamento magnetico (la tecnica del reattore Iter in costruzione a Cadarache in Francia).

Per averne un’idea, vale la pena di confrontare quello che davvero avviene nel nucleo del Sole a 150 milioni di Km da noi rispetto a quanto possiamo disporre sulla piccola Terra che gli ruota attorno. All’interno della nostra stella c’è un plasma di protoni, che, a quattro per volta, si fondono per dare un nucleo di elio, con un difetto di massa di 0,007 (che si traduce in energia secondo la famosa formula di Einstein E=mc2) grazie ad una temperatura di 16 milioni di gradi e, soprattutto, grazie ad una pressione elevatissima, intorno a 500 miliardi di atmosfere, dovuta all’enorme massa del Sole. Queste condizioni sono estreme su scala umana e pertanto non possono essere riprodotte.

Qui, nei nostri laboratori più avanzati, cerchiamo di ovviare alla impossibile replicabilità del processo di fusione solare, imitandone il principio, ma ricorrendo a due rari isotropi dell’idrogeno – deuterio e trizio – i cui nuclei arrivano a fatica a compenetrarsi alle temperature e pressioni massime cui può giungere la nostra tecnologia più raffinata. L’esperimento a Livermore ha per la prima volta registrato un ritorno di energia, ma la continuità del processo non è affatto all’orizzonte, nonostante l’imponenza degli impianti e l’intensità dei finanziamenti.

Si pensi che il Nif – situato, in California – ha le dimensioni di uno stadio ed è costato oltre 4 miliardi di dollari. Il suo ruolo nella ricerca di armi nucleari ne ha fatto un progetto controverso tant’è vero che il Sole 24 ore si chiede se “gli annunci dell’amministrazione Biden sulla fusione nucleare non siano un messaggio diretto a Vladimir Putin, che non ha niente a che fare con la crisi energetica in corso, ma, piuttosto, con i continui riferimenti del Cremlino a un attacco nucleare”.

E si rifletta sul fatto che Iter, il progetto concorrente a confinamento magnetico, è dotato di enormi toroidi percorsi da correnti di elevatissima intensità ed ha dimensioni di 20 metri di diametro e 10 metri di altezza con una capienza di circa 1000 m3. Se dovesse fornire energia con continuità, produrrebbe tonnellate di materiale radioattivo, essendo una intensissima sorgente di neutroni, che si arrestano solo sulla prima parete solida che incontrano.

Crea una certa apprensione la costruzione di “miraggi e società sempre più tecnocratiche, all’interno delle quali si starebbero perdendo i vincoli d’appartenenza e la possibilità di essere artigiani di legami e rompere le spirali che annebbiano i sensi”, come afferma Bergoglio. Temo che le mistificazioni sul “grande” risultato della fusione nucleare Usa rischino di allontanarci da quel che occorre fare già da ora con le fonti rinnovabili, accontentandoci del reattore a fusione che rimane a 150 milioni di Km. di distanza: il Sole.

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Nucleare, tra le istituzioni è in atto una potente distrazione dell’opinione pubblica

Che il prossimo decennio sia decisivo per la storia umana lo scrive nell’introduzione il documento in 80 pagine sulla strategia di difesa Usa (Dns), centrato in gran parte sull’impiego dell’arma nucleare. Decisivo lo sarà, credo, perché incombono sul pianeta tre emergenze indifferibili se irrisolte: il brusco cambiamento climatico, la possibilità di una guerra nucleare, una crescente e insopportabile ingiustizia sociale. Ma, se si guardano i nostri telegiornali o si ascoltano le dichiarazioni finali dei summit sul clima o dei G20, sembrerebbe che il tema di fondo del prossimo decennio debba essere quello della contesa per la supremazia militare ed economica tra Usa e Cina, con la Russia ridotta a potenza regionale o peggio. Geopolitica al top e biosfera e natura retrocesse a preda del vincitore.

Una simile distorsione nell’interpretare l’epoca attuale comporta un arretramento di civiltà, un ignobile spreco di risorse necessarie alla sopravvivenza, la predisposizione alla guerra come soluzione della “concorrenza” tra blocchi in corsa per l’egemonia globale. La pace, che è il diritto sociale da cui dipende la fruizione di ogni diritto individuale, sociale ed ambientale viene collocata ai margini, forse perché i governanti della parte più ricca dell’umanità arrivano a pensare che non ci sia spazio per tutti nel futuro del Pianeta.

Nel solco di una così terrificante ipotesi, mai palesemente esplicitata, la guerra provocata dall’invasione russa dell’Ucraina non troverà fine e anzi si allargherà a nuovi cobelligeranti, mentre la società, sotto il segno di atroci sofferenze, distoglierà lo sguardo dal fare di dove abitiamo un luogo vivibile, ben oltre il prossimo decennio. E’ in atto una potentissima “distrazione” dell’opinione pubblica, che si rivela anche attraverso un lessico profondamente incisivo che passa addirittura dalle istituzioni. Ormai il nazionalismo riarmato è la forma di competizione proposta ai popoli dentro i loro confini: nella Defence National Strategy Usa (Dns) la parola “nostra patria” compare 59 volte e i nemici sono chiamati “concorrenti”, mentre i militari sono definiti “forza lavoro” ed è l’esercito che deve occuparsi di “resilienza al clima”; da noi, più timidamente, il governo titola i nuovi ministeri con parole come “sicurezza energetica”, “sovranità alimentare”, “merito”, che non alludono certo all’inclusione e alla fraternità universale. Ne segue che la democrazia liberale e lo spirito imprenditoriale diventano l’orizzonte da estendere, ma non superare, affinché “tutti la pensino allo stesso modo” e la crescita prosegua per i più attrezzati.

In un cambiamento così denso di potenza è l’energia che fa da padrone, anche sotto la forma più incontrollabile delle armi. Così, se la bomba nucleare non è più solo un elemento di deterrenza – come lo è stata fino ad ieri dopo Hiroshima e Nagasaki – allora entra in gioco sia come dissuasore tattico che addirittura come occorrenza di “first strike” quando le minacce del nemico mettono in discussione una supremazia affermata e da esibire (“deterrenza integrata” è la ridefinizione nella Dns). Nella prospettiva di un mondo caratterizzato dalla presenza della vita, una tale discontinuità è enorme. In questo quadro “scosso” è facile far scivolare l’opinione pubblica verso il nucleare civile, da fissione o fusione che sia, raccontato come praticabile e difendibile quanto l’uso incontenibile delle armi – fino a quella atomica (si pensi che il presidente della Lombardia Fontana ha dichiarato di essere disponibile a valutare un reattore nucleare in Lombardia).

Assunto questo rischio, la guerra locale assume già dimensione globale. E il rilancio dei fossili fa parte di un “ritorno al prima” che la pandemia sembrava avere esorcizzato. Pertanto, mentre viene sanzionato e tolto di mezzo il gas russo, non si programma affatto il rilancio delle rinnovabili, ma si acquista addirittura metano liquido estratto da pozzi oltremarini e localmente rigassificato, con un bilancio energetico ed economico disastroso (il prezzo che gli europei pagano per il gas è quattro volte quello quotato negli Stati Uniti).

Ci si accorge solo ora che la transizione energetica in tempo di guerra sta diventando anche una guerra commerciale Usa-Ue (vedi l’articolo di F. Saraceno su Domani del 4 dicembre). Che l’energia sia un bene pubblico strategico è diventato chiaro con lo scoppio della guerra in Ucraina, che ha rotto le cuciture con la Russia del modello energetico tedesco e italiano e di altre regioni continentali, mentre un’estate di siccità e problemi di manutenzione in vari impianti hanno messo in discussione anche la riproducibilità del modello francese, progettato attorno al nucleare.

L’energia più economica è diventata un enorme vantaggio competitivo per le aziende americane. Biden ha varato una legge che prevede 800 miliardi di aiuti federali per un volume di investimenti industriali da 1.700 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Si tratta di un grande sforzo nella direzione della manifattura, per tutto ciò che ha a che fare con la transizione energetica: pannelli, turbine eoliche, idrogeno, nucleare, batterie, auto elettriche, cattura delle emissioni, biocarburanti, estrazione e raffinazione delle materie prime strategiche, auto elettriche, semiconduttori. Al confronto, il Recovery europeo da 800 miliardi – di cui gran parte solo per acquistare e installare tecnologie fatte all’estero – sparisce. Le aziende europee di grandi dimensioni stanno pianificando nuovi investimenti negli Stati Uniti o addirittura trasferendo le loro attività esistenti alle fabbriche americane: Enel (Italia), Safran (Francia), Northvolt (Svezia), Iberdrola (Spagna) e la multinazionale tedesca Basf ne sono un esempio.

C’è bisogno di un robusto ritorno della politica sul lavoro, l’occupazione, la riconversione ecologica, inserito nella ricerca ostinata della pace. Robert Habeck, vice-cancelliere tedesco, ha dichiarato all’AdnKronos: “È finita la fase in cui molti pensavano che i mercati comandassero e la politica dovesse starne fuori (…). Quando si tratta di energia, commercio, infrastrutture, non esistono decisioni impolitiche”.

In Italia, invece, si discute al più di condoni e mini-cunei fiscali, soglie del contante, quota 103 per la pensione, al più di aiuti in bolletta, perdendo di vista le politiche industriali e, per insana abitudine, cancellando il giorno dopo quel che è accaduto il giorno prima, come è avvenuto per la grande manifestazione del 5 novembre a Roma per il cessate il fuoco.

L’articolo Nucleare, tra le istituzioni è in atto una potente distrazione dell’opinione pubblica proviene da Il Fatto Quotidiano.

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