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Cambiamenti climatici, il nazionalismo ostacola la lotta: ecco perché va depotenziato

Leggendo con attenzione il saggio di Daniele Conversi, Cambiamenti climatici, Mondadori Education, ho colto l’importanza di un aspetto della resistenza al cambiamento climatico finora poco analizzata: il nazionalismo, sentimento ormai prevalente in tutte le aree del pianeta. Mi sono così tornate alla mente le parole pronunciate 61 anni fa da Gagarin, il primo cosmonauta: “Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere e confini…”. Immerso in quella straordinaria e irrinunciabile fascia di atmosfera che rende possibile la vita sul nostro pianeta, Jiurij si accorse che da lassù si sfuocavano quei solchi profondi – di diversa natura: etnica, geopolitica e talvolta perfino interiore, spirituale e religiosa – che hanno segnato la storia dei popoli sparsi e spesso divisi e in armi su grandi e piccole tratti di territorio. Cos’erano, a fronte di un globo multiforme e dinamico perfino nei suoi colori cangianti, mai osservati prima in così rapida successione, quelle “nazioni” trattenute dai loro confini, cui Daniele Conversi nel suo bel libro attribuisce parte della miopia nel non rendersi conto delle emergenze globali di questa nuova era?

L’autore confuta il nazionalismo – l’ideologia sottostante le realtà degli Stati-nazione – come copertura determinante della sottovalutazione dell’incombente crisi climatica, dell’espandersi dei conflitti, di una ingiustizia sociale mai tanto ferale quanto all’alba del nuovo millennio. In questa identificazione del paesaggio terrestre ridisegnato dai confini con istituzioni e poteri colpevolmente ripiegati su se stessi e in esasperante competizione, sta molto della drammaticità “epocale e antropogenica” di un futuro prossimo in cui il tempo viene a mancare.

Siamo così messi di fronte ad un difetto culturale strutturale, che pervade tuttora largamente la formazione e l’informazione a tutte le latitudini: la mancanza di un approccio interdisciplinare che acquisisca oltre all’umanesimo la descrizione scientifica della realtà. L’interdisciplinarietà irrobustirebbe la presa d’atto della catastrofe che si profila e non lascerebbe spazio ad un perverso negazionismo, con cui pressoché l’intero mondo politico riduce ogni giorno di più il tempo e le risorse per l’azione pubblica.

Dopo un puntuale riscontro dei drammi cui andiamo incontro senza slanci di adeguata preoccupazione, si lamenta una narrazione del presente privata delle grandi conquiste intellettuali e conoscitive delle nuove scienze, affacciatesi da Newton in poi. Basterebbe pensare di non essere più gli unici osservatori – nemmeno al centro di un universo che ha 14 miliardi di anni (e la vita è apparsa solo qualche miliardo di anni fa) – per sbarazzarci dell’indifferenza antropocentrica verso la natura, che fa ancora da perno nell’istituzione scolastica d’impronta determinista e nell’ostinata cultura della crescita. In fondo, come non capire e perché non insegnare fin dalle elementari che siamo vivi e parte del vivente perché sovrastati da un velo di gas che anche fisicamente ci accomuna (solo una sessantina di km di atmosfera)? Un velo che filtra l’energia di una stella lontana, degradandola fino ad essere riemessa nello spazio cosmico dopo aver “rimbalzato” attraverso molteplici processi entropici, che hanno nutrito la vita, consentito la riproduzione, ingentilito e talvolta inasprito gli eventi atmosferici senza che ciò richieda l’esistenza di grandi differenze di temperatura sul pianeta.

Quella stessa energia solare può vedersi mutato il proprio bilancio, interagendo con sovrabbondanze o carenze di materia o alimentandosi di combustioni, di cui è responsabile l’attività antropica che si è andata accumulando già dalla rivoluzione industriale. L’uso dei fossili, sempre più massiccio, porta ad emissioni di gas serra le cui molecole si agitano colpite dai raggi infrarossi del sole, finendo con aumentare la temperatura che inaridisce i campi, scioglie i ghiacci e aumenta il livello dei mari, acidificando gli oceani, disturbando e corrompendo il ciclo clorofilliano. In effetti, se si tratta il pianeta come un manufatto, sostituendo irresponsabilmente l’ecosistema naturale con un ecosistema artificiale, si tranciano connessioni indispensabili alla riproduzione delle nostre vite, lasciando sì immutato l’Universo, ma spegnendo per sempre la nostra presenza di osservatori vivi e coscienti del “mondo stellato sopra di noi”.

A questo punto, Conversi cerca nell’ideologia del nazionalismo, con i suoi insormontabili confini, la giustificazione che i popoli ricchi trovano nel ritenere che non ci sia posto per tutti sulla Terra e che quindi le migrazioni ambientali e le guerre abbiano una loro inconfessata scusante, fino all’accettazione di una polarizzazione della società sulla base del censo. E ciò con la conseguente mimetizzazione del capitalismo sotto le insegne del nazionalismo, capace di recuperare gli abitanti di un territorio ad un’identità rinsaldata anche quando le istituzioni sono a rappresentanza elitaria: non importa se la gente non va a votare, purché gli interessi dei possidenti rimangano inalterati e garantiti. Lo scopo dell’organizzazione umana viene fatto coincidere con la produttività e il primato tecnologico, mentre la crescita dello Stato-nazione viene posta al di sopra – egemone – rispetto ai suoi “concorrenti”. Perché mai il prossimo decennio dovrebbe essere dedicato alla supremazia tra Cina e Usa, mentre gli altri 7 miliardi di terrestri starebbero a fare da spettatori o fiancheggiatori?

Mentre la dimensione geoetica si contrappone alla dimensione geopolitica, dominata dagli Stati-nazione di cui è intrisa la pratica e la disciplina delle relazioni internazionali, non si può che annotare come il nazionalismo – ostile a fissare limiti anche locali allo sviluppo – abbia costituito un ostacolo all’avanzamento dei negoziati multilaterali sul clima e tuttora, anche sotto la copertura delle guerre in corso, distolga più risorse verso le armi e i fossili che non verso la salute dell’intera biosfera.

Una certa speranza di modificare l’impianto nazionalista viene da un riconoscimento di uomini e donne in una propria storia più frugale, più comunitaria. Ma si tratta tuttavia di sub-nazionalismi, in buona parte vanificati nei loro obiettivi una volta incorporati nelle istituzioni dello Stato-nazione. A meno che nel lungo periodo possa nascere una traiettoria per cui la conservazione del clima possa rinsaldare l’autostima e la gratificazione dell’orgoglio nazionale. E’ in parte il caso di sub-nazioni come la Scozia o la Catalogna, o della costruzione di una “nazione ambientale” come fino agli ultimi anni sembrava poter diventare la costruzione della Ue, almeno fino a che ha prevalso la pace.

In conclusione, la mitigazione del clima può progredire solo se le politiche sono coordinate multilateralmente a tutti i livelli di governance e – io aggiungo – di movimento organizzato. Non sono tanto le istituzioni statali, ma le loro articolazioni a livello territoriale, municipale e cittadino, con il sostegno della democrazia diretta, a dover depotenziare il nazionalismo oggi imperante.

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Cingolani, il fisico più inviso agli ambientalisti risulta il politico più affidabile per Meloni e Descalzi

Probabilmente Roberto Cingolani, fisico, esperto e manager multiforme, si era già “recato” sul Sole dove aveva acclarato il verificarsi del fenomeno della fusione che prometteva per il prossimo decennio sulla Terra, senza contare che si trattava di fenomeni e condizioni assai differenti. Infatti, l’enorme gravità della stella consente di compenetrare in abbondanza e con naturalezza – alla distanza di 150 milioni di km da noi – atomi di idrogeno che si trasformano in elio e non di dover creare apparati artificiali improbabili di enorme potenza soltanto per fondere per una frazione di secondo isotopi rari dell’idrogeno, come il trizio e il deuterio. Insomma, un impreciso diversivo pur di non affrontare il precipitare del cambiamento climatico.

“Ritornato” come se niente fosse sulla Terra, si è distinto nel dilazionare i tempi di passaggio alle rinnovabili insediandosi nella capitale in veste di Ministro per la Transizione Ecologica. Risultato: il Pniec è dopo un lustro ancora in revisione e la rincorsa al gas da ogni dove, gradita a Draghi e poi suggellata da Meloni e dal suo “vicepremier” Descalzi, è stata avviata nei suoi uffici. Dobbiamo molto a lui se una strategia energetica di fuoriuscita dal fossile – nonostante i favori che il Pnrr attribuisce all’Italia – non è nemmeno confrontabile con quella elaborata in Spagna o nei paesi nordici e se il conto terrificante delle emissioni di CO2 dovuto alle guerre in corso (un giorno di combattimenti in Ucraina equivale alle emissioni della provincia di Bologna) non lo turba affatto nel trasferirsi nella funzione di amministratore delegato di Finmeccanica, la massima industria bellica italiana. Quindi, il fisico più inviso agli ambientalisti risulta il politico più affidabile per Meloni e Descalzi, determinati al punto di offrirgli un banco di prova per una politica economica estera, dove i pagamenti avvengono spesso tramite il commercio di armi.

Sull’incredibile ritardo accumulato sulle rinnovabili è apparsa il 13 aprile su Italia Libera una lettera a Schlein e Conte, inviata da quattro ambientalisti protagonisti della svolta antinucleare italiana – che invito a leggere e che andrebbe spedita all’intera area (non solo Pd e M5S) – che sostiene un futuro di ecologia integrale: Gianni Mattioli, Vincenzo Naso, Massimo Scalia e Gianni Silvestrini rivendicano di essere stati tra i protagonisti di un percorso di transizione ecologica nato in Italia prima che in altri Paesi, ma che ora ha bisogno di un “aggiornamento”, di un obbligo rispetto all’accelerazione dei drammatici fenomeni innescati dal global warming. Non si può che condividere la richiesta di un impegno serio e possibile nelle fonti rinnovabili, rispetto al “bacino” dei 180 GW che già tre anni fa risultavano a Terna come richieste di allaccio alla rete e che avrebbe ottenuto ad oggi una quasi totale indipendenza dal gas russo.

Mentre “uno dei vicepremier –si legge nella lettera – si balocca su proposte tempestive e altamente attendibili come il ‘ponte sullo Stretto’ o il nucleare da fare ‘a Baggio’, sua residenza, mentre l’altro si fa espropriare gli interventi più importanti di politica estera dal ceo dell’Eni, Claudio Descalzi, che in verità, più che sembrare, è il vero dominus dell’Amministrazione Meloni. Infatti, si trascurano i suoi risibili obiettivi – 15 GW di rinnovabili entro il 2030, a fronte dei 100 GW della Total e di 50 GW della Bp – mentre propone l’Italia, forte della sua posizione nel Mediterraneo, come hub del gas per tutta l’Europa del Nord. Subito accompagnato dal cinguettio omofono di Giorgia Meloni, in nome della sovranità energetica nazionale”.

E’ del tutto da condividere il dar vita ad un grande progetto per la riconversione ecologica dell’economia e della società, come da decenni richiedono in tutto il mondo i movimenti ambientalisti, per la pace e per la giustizia sociale. È un impegno gigantesco, che necessita della partecipazione diretta dei cittadini, in forme di rappresentanza diretta, indiretta, partecipativa, associativa e sindacale, già in atto peraltro in alcune situazioni europee, che rimonti l’attuale disgusto per la politica così impietosamente misurato dalla costante crescita dei non votanti alle elezioni.

Si può e si deve fare: ne va sempre più drammaticamente del futuro nostro, dei figli e dei nipoti. Una risposta come quella realizzata a Civitavecchia, di cui sono stato testimone, ha costruito l’alternativa rinnovabile alla centrale a turbogas lungo la costa tirrenica e innescato nuovi progetti anche manifatturieri con grandi benefici per il lavoro, la sua riqualificazione e la salute del territorio.

Intanto, anche sulle spinte qui illustrate, nel Paese si incomincia ad avviare un percorso il più possibile largo e partecipato – con lo slogan in prima approssimazione “voi bloccate le rinnovabili, le rinnovabili bloccano i vostri uffici” – per un appuntamento di mobilitazione a inizio giugno sul tema del fermo delle rinnovabili nel nostro Paese. Finalmente anche l’Italia unisce le forze per impedire – come insidiosamente si palesa anche in alcuni incoerenze che spuntano nella stessa Commissione Ue – che la guerra, il pericolo nucleare e la crisi climatica rendano invivibile il pianeta che abbiamo ottenuto in prestito.

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Civitavecchia, dal gas al vento e al sole: una grande conquista dei cittadini di cui non si parla

In questi giorni è passata sotto silenzio una notizia di notevole rilievo che – a mio parere – potrebbe non solo influenzare ma qualificare il prossimo decennio dell’assetto del sistema energetico nazionale. Mentre la guerra in corso spinge i nostri ministri e capi di governo, affiancati dall’immancabile ad di Eni, De Scalzi, a siglare accordi per l’approvvigionamento di gas fossile proveniente dai pozzi e da regioni lontane dalla nostra penisola, con bilanci energetici ambientali e implicazioni finanziarie e politiche pesantemente sfavorevoli, il 22 marzo una serie simultanea di comunicati ufficiali – sottolineati con enfasi dalle sigle in calce di tre grandi imprese Eni, Cni, Cdp e Cip – hanno inondato le redazioni italiane e europee, senza tuttavia che le notizie in essi contenuti fossero in particolar modo amplificate da giornali, social o tv.

Il 22 marzo è stata formalizzata la costituzione di una colossale joint venture tra Eni, Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) e un forte partner danese (Cip) – il più grande gestore di fondi dedicato agli investimenti verdi nelle rinnovabili – per rendere operativi a regime 3 GW di nuova capacità verde, ottenuta con eolico galleggiante a 30 km dalle coste del Tirreno (Civitavecchia) e delle grandi isole italiane.

Deve sempre sollevare apprensione la presenza di grandi interessi economici e finanziari nell’esecuzione di progetti decentrati e a carattere territoriale, ma credo che, nel caso della fruizione dell’elettricità, l’attenzione dei cittadini e il loro diritto a condeterminare le scelte partecipando e cooperando tra di loro possano risolvere ogni prevaricazione. Forse si può capire perché la comunicazione della nuova Joint Venture per l’eolico offshore sia stata data un po’ sotto traccia – come un improvviso colpo di fulmine da appannare dopo scoccato. In effetti, essa non poteva che risultare del tutto contraddittoria rispetto al rilancio del gas e del sistema centralizzato di approvvigionamento e combustione dei fossili per produrre energia, cui ci ha abituato il sistema che puntiamo a cambiare.

Siamo nel mezzo di una disputa aspra tra cittadini locali e rappresentanze istituzionali riguardo all’approdo in rada di enormi rigassificatori a Piombino e Ravenna. E il tenue clamore per un irreversibile rilancio delle rinnovabili, attraverso una partnership robusta e credibile, è del tutto spiegabile con il coinvolgimento e la compromissione dei nostri governi con la vecchia politica energetica. In questi stessi giorni viene rilanciato il progetto di sequestro di CO2 in Romagna, sotto l’egida di Eni e del Presidente della Regione, mentre la presidenza del Friuli mostra arrendevolezza nell’accettare la riconversione della Centrale a carbone di A2A a Monfalcone con un più potente turbogas.

Di conseguenza, un impegno così rilevante su eolico e fotovoltaico troverà resistenze e imbarazzi nel constatare che settori energetici, finanziari e industriali si muovono verso positive ricadute occupazionali, manifatturiere e ambientali fin qui ignorate dal Pniec (v. https://www.mase.gov.it/), dal maggior ente energetico nazionale e dai governi romani.

In ogni caso, non si può fare a meno di constatare che l’avvio di una riconversione dal gas al vento e al sole è maturata a Civitavecchia in un contesto di straordinaria partecipazione democratica che, andando oltre alla mera opposizione al metano, ha saputo costruire le condizioni per una coalizione sociale che ha favorito l’incontro di cittadini, studenti, sindacati, ricercatori e tecnici e ha tradotto in politica la pressione sociale per liberarsi dall’inquinamento.

Di questa premessa nei comunicati usciti il 22 marzo non c’è traccia, mentre sta proprio in essa il valore aggiunto dell’approdo cui si sta pervenendo e che richiederà passi ulteriori verso la solarizzazione delle strutture del porto, le comunità energetiche e la mobilità sostenibile.

La stima del progetto complessivo è data a circa 5 TWh (2 milioni di famiglie ai consumi attuali); la sua operatività è prevista tra il 2028 e il 2031 a valle della conclusione dell’iter autorizzativo e dei lavori di installazione da compiere. La realizzazione sarà affidata a un team di lavoro congiunto affiancato da Nice Technology e 7 Seas Wind Power, società italiane che si avviano a consolidare la loro esperienza nel comparto offshore incoraggiando la crescita occupazionale e professionale anche della filiera produttiva locale.

Forse comincia a traballare l’ipotesi propria del governo Cingolani-Draghi e, probabilmente, di quello attuale di dilazionare i tempi per l’abbandono del gas entro il 2050. E perfino l’Eni, dopo la rinuncia dell’Enel al turbogas di Torrevaldaliga, si comincia a rendere conto che non abbiamo più tempo per mantenere un mix fossile di fonti energetiche oltre la metà del secolo.

In conclusione, la risorsa che nasce dalla partecipazione e dalla democrazia dal basso dimostra che si possono far convergere sulla conversione ecologica interessi riluttanti a riprogettare l’erogazione di energia sulla base di un nuovo paradigma duraturo e desiderabile, in armonia con la biosfera, come si conviene in una fase di drammatica emergenza climatica e sociale.

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Le auto elettriche abbatteranno il rumore e le emissioni inquinanti. Allora perché tanta ostilità?

Riprendo l’articolo pubblicato il giorno dopo la decisione del Parlamento Ue sull’auto elettrica con alcune osservazioni che vanno al di là della cronaca e attestano ancora una volta l’inadeguatezza dei nostri governanti a mantenere un minimo di coerenza con le linee di fondo sul clima adottate dal Parlamento Europeo. A Strasburgo il centrodestra italiano (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia) ha votato compattamente contro il termine del 2035, oltre il quale si potranno immatricolare solo auto elettriche.

Già il governo Draghi si era battuto per il principio della “neutralità tecnologica” sostenendo che sarebbe stato un errore puntare su una mobilità esclusivamente elettrica. Si tratta non di un fatto estemporaneo o di un timore giustificato per l’occupazione, ma di una linea di fondo di non percezione dell’urgenza di un cambiamento complessivo delle produzioni e dei consumi in un tempo che viene ogni giorno sempre più a mancare e che necessita di un impegno altrettanto urgente per la giustizia sociale e la difesa del lavoro.

E’ significativo come perfino un redivivo Roberto Formigoni abbia oggi sentenziato contro il limite fissato al 2035 dimenticandosi forse che fin dal 2004 un gruppo allargato di ricercatori dell’Enea, sotto la supervisione del Nobel Rubbia, avesse presentato alla Regione Lombardia un articolato piano per la mobilità sostenibile fondato sulla riconversione a idrogeno dei motori degli autoveicoli e sull’estensione di sistemi di logistica intermodale in cui prevalesse il trasporto pubblico. Si trattava di riconvertire l’intera area Alfa Romeo in una manifattura prestigiosa e all’avanguardia e finita, invece, dopo estenuanti confronti, con l’ospitare il più grande supermercato d’Italia – “Il Centro” di Arese – il cui azionista di maggioranza è da sempre vicino alla Compagnia delle Opere. La povertà di visione di chi ci governa (in Lombardia ormai da 30 anni) riduce perfino la politica industriale a interessi di parte e ad un gioco di poteri stantii.

Qui vorrei inquadrare il salto di qualità che i due provvedimenti adottati dal Parlamento Ue (Fit for 55 e Stop al 2035) cercano di imporre, sempre che la Commissione e i capi di governo non ne attenuino il significato, come è avvenuto sulla “tassonomia europea” e come sta profilandosi sulla riduzione della quota di rinnovabili da varare entro il 20230 – dal 45% al 40% secondo la Commissione. E’ in atto, purtroppo, un pericoloso scostamento tra gli esecutivi e il Parlamento, che Ursula von der Leyen tratta con troppa disinvoltura e con un ascolto non irrilevante delle lobby fossili.

Il settore dei trasporti è responsabile del 30% delle emissioni totali di CO2 in Europa. Dal punto di vista delle fabbriche automobilistiche, le principali difficoltà tecniche per alleggerire l’inquinamento da traffico consistono innanzitutto nella riduzione delle emissioni di anidride carbonica e, inoltre, nel contenimento degli ossidi di azoto (NOx) per le alimentazioni diesel e del numero di particelle microscopiche (PN) per le alimentazioni a benzina a iniezione diretta, emissioni pesate come anidride carbonica equivalente (CO2 eq.).

Da fine degli anni 90 gli approcci ai regolamenti sui gas serra per i veicoli commerciali si erano concentrate sulle emissioni dal condotto di scarico. Così, in tutta la trafila di classificazioni per gli autoveicoli da Euro 1 a Euro 6 si sono fissati limiti di emissioni del combustibile impiegato misurati “al tubo di scappamento”. Invece dal 2035 facendo riferimento esclusivamente al vettore elettrico anziché continuare ad andare esclusivamente nella direzione di combustibili a minor emissioni di carbonio, ci si muoverà verso le nuove fonti di alimentazione dei motori, come i gruppi motopropulsori elettrici delle batterie, che ottengono la loro energia dall’elettricità con cui si caricano. E qui entra in gioco non solo il gas misurato allo scappamento del veicolo, ma anche quello immesso in atmosfera dal mix di fonti con cui si alimentano le colonnine di ricarica. Il passaggio all’elettrico ha quindi un significato che va oltre il settore automobilistico: anche per l’inquinamento dovuto alla mobilità diventerà sempre più rilevante il percorso con cui si procurerà l’elettricità trattenuta nelle batterie o come verrà prodotto, eventualmente, l’idrogeno (verde o grigio) che alimenterà le celle a combustibile montate sui veicoli.

In sostanza: il salto di qualità sta nel porsi un obbiettivo più esteso: il vettore (elettricità o idrogeno) che consente al motore elettrico di abbassare drasticamente gli inquinanti rispetto al motore a combustione termica andrà a sua volta ottenuto da fonti rinnovabili a bassissime emissioni anziché da fonti fossili, grandi emittenti di climalteranti e gas inquinanti (o radiazioni nel caso del nucleare). La cosa interessante da notare è che per la prima volta un Regolamento europeo sulle emissioni nel settore automotive cita la metodologia dell’intero ciclo di vita (Lca). Puntando – corroborato dal contributo degli obbiettivi del “Fit for 55” – a diminuire drasticamente anche le emissioni a monte legate alla produzione dell’energia elettrica o dell’idrogeno impiegati dal veicolo.

L’obbiettivo è molto ambizioso e condivisibile: un sostanziale assorbimento di energia elettrica per il settore stradale può fungere da driver per aumentare la quota di energie rinnovabili nel mix di fonti energetiche Ue. E, parimenti, “l’inverdimento” del mix di reti aiuta anche “l’inverdimento” del settore stradale. In base alla penetrazione delle rinnovabili (fissate dalla Ue almeno al 45% al 2030) è possibile stimare che le emissioni clima-alteranti (in tutto il ciclo di vita) dei veicoli saranno almeno quasi dimezzate al 2035. Per di più, i veicoli abbatteranno radicalmente il rumore e le emissioni inquinanti (NOx, CO, PM, HC) in ambito locale. Perché allora tanta ostilità e insensibilità climatica da parte dei nostri ministri e governanti?

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Anche la decarbonizzazione produrrà CO2. Il fattore decisivo? I tempi

In un lungo e documentato articolo, un gruppo di scienziati e tecnici statunitensi del Pnas valuta il rischio pagato in adattamento e aggravamento climatico in funzione della rapidità con cui si rendono operative le fonti rinnovabili per abbattere le emissioni fossili. Il testo, ricco di grafici e di tabelle, rileva come non sia stato ancora sufficientemente discusso un bilancio relativo alla quantità di energia e materiali “sporchi”, che continueranno a causare inquinamento e surriscaldamento anche solo per costruire e rendere operativi nuovi impianti alimentati da acqua, sole e vento, oltre ad allestire batterie, nuovi sistemi di reti elettriche locali, fino a barriere costiere a riparo dell’innalzamento dei mari.

Solitamente non si prende in considerazione quanta CO2 e quanto CH4 “non contabilizzato” occorreranno per modificare a fondo, trasformandolo, l’attuale sistema energetico. In effetti, la decarbonizzazione che viene fissata per obbiettivi da raggiungere in vari stadi da qui al 2100, va contabilizzata puntualmente tenendo anche conto di una quota di emissioni dovute all’impiego di fossili necessari– almeno all’inizio – per costruire i nuovi impianti. In sostanza, la diffusione delle rinnovabili si traduce in una domanda di energia per tutto il 21° secolo, inizialmente soddisfatta principalmente dai combustibili fossili, poi sempre più dalle fonti rinnovabili stesse, diventate, secondo la definizione di Georgescu Roegen, finalmente “prometeiche”.

I diversi pericoli del cambiamento climatico indotto dall’uomo richiedono due grandi sforzi a livello internazionale:

1) Ridurre le emissioni di gas a effetto serra (Ghg) in misura sufficiente a mantenere il riscaldamento al di sotto di un limite prefissato;

2) Adattare le infrastrutture e le altre attività umane al cambiamento che ne risulta in base al limite effettivamente raggiunto. Per ottenere una previsione quantitativa affidabile dei risultati di tali sforzi occorre, in primo luogo, stimare l’effetto delle emissioni di Co2 del settore energetico attuale con cui si ottiene una costruzione di massa di capacità di generazione di elettricità rinnovabile (anche la più rapida diffusione di energie rinnovabili richiede emissioni di climalteranti dovute all’impiego delle fonti fossili con cui attualmente vengono fabbricate). In secondo luogo, va valutato come e quanto il riscaldamento climatico dovuto alle emissioni storiche e nel futuro – il più prossimo possibile – renderà necessario il raffreddamento degli ambienti in nuove regioni e aumenterà la durata e l’intensità del suo ricorso a livello globale;

3) In terzo luogo, va preso in considerazione l’innalzamento del livello del mare causato dalle emissioni storiche e future, che richiederà la costruzione di difese contro le inondazioni e il trasferimento di alcuni insediamenti costieri.

In definitiva, ciascuno di questi tre interventi richiederà energia per essere approntato e funzionare e, poiché la capacità rinnovabile è attualmente insufficiente, questa energia che definiamo “incorporata” deve essere inizialmente alimentata da combustibili fossili con conseguenti emissioni di CO2 incorporate. Dallo studio citato emerge come fattore decisivo l’abbreviamento dei tempi di sostituzione dei combustibili fossili che, se non drammaticamente accelerati entro il 2025 e praticamente conclusi entro il 2050, porterebbero a un innalzamento della temperatura del Pianeta oltre 2.7°C a fine secolo.

L’analisi del Pnas fornisce una stima dettagliata delle emissioni di CO2 incorporate, che potrebbero derivare dalla mitigazione e dall’adattamento durante la transizione climatica per gli anni dal 2020 al 2100. Per farlo vengono quantificate primariamente e come riferimento le emissioni incorporate nella transizione in un percorso energetico e climatico futuro graduale e coerente con una ipotesi di aumento della temperatura di +2 °C. Quindi, si confrontano queste emissioni incorporate in uno scenario rapido (1,5 °C) e in uno ritardato (2,7 °C).

Per quanto riguarda i risultati a fine secolo, la rapidità di sostituzione delle fonti fossili risulta rilevantissima. Avendo preso a riferimento un percorso di decarbonizzazione graduale che limiti il riscaldamento a 2 °C (limite che molto probabilmente rischieremo di superare), gli interventi selezionati relativi all’adattamento (coibentazioni degli edifici, dighe sui litorali, arretramenti di insediamenti etc.) emetteranno ~1,3 GtCO2 fino al 2100, mentre le emissioni derivanti dall’energia utilizzata per distribuire la nuova capacità rinnovabile sono assai rilevanti: ~95 GtCO2. Insieme, queste emissioni equivalgono a oltre 2 anni delle attuali emissioni globali e all’8,3% del restante budget di carbonio per non superare i 2 °C.

Le emissioni di transizione incorporate totali vengono invece ridotte di circa l’80% (a 21,2 GtCO2) con un percorso rapido che limita il riscaldamento a 1,5 °C, con un picco nel 2025 a 3,8 GtCO2/anno prima di diminuire drasticamente, mentre raddoppiano (all’incirca a 185 GtCO2) in un percorso ritardato, purtroppo coerente con le politiche attuali e corrispondente a 2,7 °C di riscaldamento entro il 2100.

Ne segue che, in risposta alle guerre già intrinsecamente climalteranti, sia un pessimo annuncio quello di reiterare con nuovi approvvigionamenti l’impiego del gas e del carbone nelle centrali (rigassificatori e revamping di centrali fossili) e l’utilizzo del petrolio nella motorizzazione, come traspare anche dalle mosse del nostro governo.

Nonostante la crescente minaccia dell’effetto serra è in atto un consolidamento dei centri di potere legati ai fossili: colossi “pubblici” che, sulla base dei loro profitti, suggeriscono al governo del proprio Paese come operare e quali alleanze stipulare. Anche in Europa il ruolo delle lobby sta avversando una svolta ancora timida verso l’autoproduzione da fonti naturali, il decentramento territoriale, il risparmio, le forme di consumo comunitarie al punto che a inizio 2023 i governi dei 27 Paesi si sono fatti riluttanti a impegnarsi per un obiettivo di rinnovabili al di sopra del 40% per il 2030.

In conclusione: nell’ambito del percorso di decarbonizzazione rapida, il tasso di installazione della capacità rinnovabile è in media di 5,9 TWp/anno dal 2020 al 2050, il 30% in più rispetto al tasso per il percorso graduale, con picchi forti negli anni 2020 a oltre 10 TWp/anno. I combustibili fossili sono virtualmente eliminati dal mix energetico entro il 2030 e la diffusione delle energie rinnovabili è successivamente alimentata dal reinvestimento (prometeico) di energia rinnovabile, mentre il livello del mare aumenta del 14% in meno rispetto alla graduale decarbonizzazione verso i +2°C (43 cm entro il 2100).

Purtroppo, il confronto tra i tre scenari riflette accuratamente l’attuale divario globale tra impegni e azioni per il clima. Mentre gli accordi internazionali affermano obiettivi di riscaldamento massimo ben al di sotto di 2 °C e idealmente di 1,5 °C, le politiche nazionali sono complessivamente più coerenti con lo scenario di transizione ritardata di ~2,7 °C, con impatti inimmaginabili per la geopolitica, l’economia e il clima.

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