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Fukushima, bombe, transizione ecologica: l’Italia rimane vittima di un governo incompetente

di Mario Agostinelli e Alfiero Grandi

Una notizia gravissima per l’ambiente, già sotto stress per la crisi climatica, come l’inizio del versamento nell’Oceano Pacifico delle acque inquinate dalla radioattività della centrale nucleare di Fukushima sta passando senza suscitare purtroppo le reazioni che merita.

L’incidente nucleare di Fukushima in Giappone non solo ha confermato la pericolosità delle centrali nucleari civili in quanto tali, perché sottoposte a pericoli di varia natura nel loro funzionamento, ma anche la possibilità di eventi naturali eccezionali come fu il terremoto e poi lo tsunami che ne seguì. Dopo 12 anni non solo il Giappone ha ripreso la produzione di energia attraverso il nucleare “dimenticando” vittime e un territorio enorme inquinato, ma ha scelto di gettare in mare una grande quantità di acqua inquinata da radioattività, finora custodita in grandi contenitori in territorio giapponese, scaricando su tutta la popolazione mondiale le conseguenze dell’incidente, incurante delle proteste e sicuro che la potente lobby del nucleare appoggerà questa scelta sciagurata, perché altrimenti dovrebbe ammettere i pericoli che gravano su tutta la popolazione mondiale.

Erano possibili altre scelte, senza mettere a rischio le acque dell’oceano Pacifico, con l’obiettivo di gestire in sicurezza le conseguenze dell’incidente nucleare.

Il governo italiano, come purtroppo tanti altri, nel sostanziale silenzio dell’Europa non ha preso alcuna iniziativa. Non risulta che l’ineffabile riunione del G7 abbia discusso l’argomento per dissuadere il Giappone dal fare una scelta pericolosa, le cui conseguenze possono essere devastanti, ad esempio minacciando di bloccare l’acquisto di pesce pescato dal Giappone e in particolare mettendo sotto sorveglianza quello proveniente dal Pacifico, per evitare almeno il sushi inquinato dal nucleare.

Un conto sono eventi naturali che non si è in grado di contrastare, altro sono scelte fatte a freddo che mettono a rischio una parte del mondo e forse non solo quella, visto che come sappiamo le trasmigrazioni di pesci (basta pensare al granchio blu) e di piante è all’ordine del giorno. Le relazioni sempre più strette e frequenti portano a situazioni sconosciute, se poi l’inquinamento radioattivo viene diffuso nelle acque le conseguenze potrebbero essere pesanti e diffuse.

Non solo il governo italiano non si è occupato di un avvenimento di prima grandezza come questo: non ha neanche trovato modo di dissentire dalle bombe all’uranio impoverito che la Gran Bretagna ha deciso unilateralmente di inviare in Ucraina, come se non ci fossero già stati migliaia di militari che li hanno usati, oltre che tanti civili, ammalati di cancro, anche italiani. Si poteva almeno ripetere il dissenso della presidente del Consiglio manifestato sull’invio delle bombe a grappolo inviate dagli Usa in Ucraina (vietate dalla convenzione internazionale) anche sulle bombe a uranio impoverito, invece silenzio di tomba.

Del resto questo governo si caratterizza per avere un ministro dell’Ambiente del tutto incapace e comunque senza peso politico. L’Italia dovrebbe puntare senza ritardi sulla scelta delle energie rinnovabili che darebbero un risultato di autentica autonomia nazionale dalle fonti fossili, invece il peso degli interessi legati ai combustibili fossili è sempre più forte e gli investimenti sulle energie rinnovabili, proprio perché dipendono da fonti naturali, sono in grave ritardo, come dimostrano i dati degli ultimi anni. In particolare non si capisce quale sia il coordinamento tra i ministri dello Sviluppo e quello dell’Ambiente che dovrebbero insieme costruire una strategia sull’auto del futuro, più in generale sulla mobilità, e su questa base cercare intese con le aziende e i sindacati sulle condizioni da realizzare per garantire una transizione ecologica accelerata, mentre ogni occasione è buona per cercare di ritardare, di rinviare, facendo rimanere l’Italia isolata dai paesi più avanzati in Europa.

L’unica novità è che il ministro Pichetto Fratin, immemore di ben due referendum popolari che hanno bocciato a larga maggioranza il nucleare civile, continua a chiacchierare di una nuova generazione di centrali che oggi non solo non esistono ma sono sostanzialmente simili a quelle esistenti, pericolose e inquinanti e per di più costosissime, di fronte a una penuria di uranio per farle funzionare.

Di questo passo il nostro paese rimarrà fuori dalle scelte più avanzate, non investirà sui settori del futuro e sull’innovazione del lavoro e rimarrà vittima di un governo che pensa di cavarsela sfruttando le maggiori entrate da inflazione senza capire che diventeranno presto maggiori spese e porteranno a una ulteriore divaricazione sociale tra redditi alti e redditi bassi. Ci mancherebbe solo che questo impasto di arretratezza e incompetenza italiana dopo le elezioni diventasse il modello per l’Europa.

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La transizione ecologica va fuori strada: subdole manovre di greenwashing lo dimostrano

In una puntuale riflessione apparsa su La bottega del barbieri di martedì 27 giugno sotto il titolo Una polemica disordinata, Giorgio Ferrari solleva una critica rivolta all’Ipcc e a molti ambientalisti per aver rappresentato la battaglia contro il cambiamento climatico come una mera surroga dei combustibili fossili con fonti di energia rinnovabile. In effetti, il confronto pubblico si è spesso fissato su questa semplificazione, ma, credo, più per colpa dei conservatori, ostinati ad associare ogni manifestazione vitale e di progresso alla potenza e all’efficienza di macchine e impianti alimentati da combustioni o addirittura reazioni nucleari, piuttosto che ispirate al criterio di sufficienza, caratteristico dei processi naturali sostenuti dall’irraggiamento solare. Un criterio che si indirizza a tempi più lenti e cicli meno dissipativi, compatibili con la conservazione della biosfera e associati a scorie frequentemente riciclabili.

Forse in nome di uno sviluppo e di una crescita che ormai fanno parte dell’archeologia della storia, la conversione ecologica richiesta dal brusco mutamento del clima non entra affatto nel lessico di governanti, ministri, esperti e dirigenti di vario calibro, che trattano le soluzioni all’emergenza come una questione da libro dei sogni. L’osservazione di Giorgio Ferrari tocca opportunamente il rischio di un probabile insuccesso nella lotta complessa contro il riscaldamento, dato che, non ponendosi nei confronti del capitalismo su uno spettro più ampio di quello delle tecnologie, non si esplicita molto oltre la rivendicazione di un’economia circolare e la ripartizione delle quote tra le fonti. Si arrischia così di oscurare quanto l’estrattivismo, che le rinnovabili portano con sé, finisca nel proseguire a sfruttare l’Africa e i paesi più poveri come una colonia per produrre elettricità e idrogeno da importare in casa propria.

Tuttavia, anche se la critica di adagiarsi su un orizzonte limitato alla sola questione energetica, intesa come la mera sostituzione delle fonti fossili, è un ammonimento di cui tener conto – ed è benevolmente rivolta anche a me – provo a mettere in conto come contrastare gli interessi intercapitalistici che tenderebbero a coprire con subdole manovre di “greenwashing” una rapida e salvifica uscita dall’Antropocene.

Parto proprio dalla necessità di cambiare rapporti e stili di vita in sintonia con la affermazione (imposizione?) di nuove tecnologie, che devono subire un’accelerazione in sintonia con una crescita di partecipazione, informazione e formazione che coinvolga in modo specifico un rapporto continuativo tra scuola, ricerca e lavoro. Nel caso dell’energia, trovo che non sia tanto una questione di cifre, quote o obbiettivi soltanto, ma di discontinuità con un sistema che ha il suo perno nella potenza e nell’efficienza anziché nella sufficienza.

Non si può allora restare indifferenti di fronte alla scelta del governo Meloni di riaprire il dossier nucleare, mentre lancia un “Piano Mattei” perché l’Italia diventi lo snodo del gas dal Mediterraneo all’Europa e la cloaca – dalla pianura padana alle dorsali appenniniche fino alla Basilicata – della CO2 sequestrata nelle caverne svuotate dal metano Eni e nutrite con condotte di gas climalterante provenienti dalle combustioni di metano da tutta Europa.

Parrebbe incredibile che, proprio mentre si registra al 3 luglio il giorno più caldo sulla Terra mai censito dall’uomo, un governo che ha preso in giro gli stakeholders sull’aggiornamento del nuovo Pniec con una finta consultazione, si pronunci con le sue più alte autorità per infrangere e sbeffeggiare le ultime raccomandazioni che proprio l’Ipcc ha consegnato ai governi, alle banche, alle imprese.

Dopo l’inserimento nella tassonomia “verde” di nucleare e gas, le incertezze della Commissione Europea rispetto agli stessi obbiettivi del Green Deal si sono rivelate convinzioni nella decisione di estendere la produzione di idrogeno al nucleare. Non deve stupire che entrambe le aperture siano state prese a cuore dal governo Meloni, che nel Piano Energia e Clima “sottoposto a consultazione” e inviato pochi giorni fa a Bruxelles, ha chiarito le vere intenzioni dei suoi ministri ispirati da Big Oil.

Lunedì 19 giugno 2023, l’Organizzazione Mondiale di Meteorologia (Omm), organismo Onu, e il Servizio sul Cambiamento Climatico Copernicus (C3s), della Unione Europea, hanno confermato che la temperatura media dell’Europa aumenta due volte più velocemente della media mondiale a causa della crisi climatica. Nel 2022 l’estate è stata la più calda mai osservata, con una deviazione di +0,79 °C dalla norma 1991-2020.

A giudicare della eco trovata sui media, per l’Italia si tratta di un’altra non notizia.

Ormai si comincia a dire all’opinione pubblica che gli effetti della mitigazione non saranno in grado di impedire ulteriori peggioramenti del clima, per cui la priorità passerà all’adattamento, traccheggiando quanto più possibile con il gas e il Ccs e mettendo sullo sfondo un nucleare inesistente e, magari, facendo l’occhiolino alla geoingegneria, come avviene per le improbabili nuvole di gesso, zolfo e acqua, suggerite da Bill Gates per riflettere nello spazio parte dei raggi del sole, limitando il riscaldamento globale.

Intanto, Pichetto Fratin promette un “cambiamento il più possibile rapido del mix energetico, con una transizione energetica realistica e non velleitaria”: ovvero un hub del gas e tante rinnovabili con un vasto programma di idrogeno verde, che – ove mai esisterà – potrebbe muoversi nelle stesse infrastrutture del gas, tipo la dorsale adriatica in via di appalto. Tutto e il suo contrario. “Certo, aggiunge, su questo siamo un po’ in ritardo per via delle ‘difficoltà autorizzative’”.

C’è poi un solido ottimismo sul nucleare, che “non emette climalteranti”. A tal proposito basta analizzare l’esposizione di Sergio Zabot dove si scopre che le quantità di CO2 emessa nell’intero ciclo di vita dell’uranio è comparabile con quella emessa da un equivalente ciclo combinato alimentato a gas naturale. Vero è che il pianeta Terra ha la febbre: ma la transizione energetica sta andando fuori strada. “Al momento non solo è a rischio l’obiettivo di contenere la temperatura entro il grado e mezzo rispetto ai livelli preindustriali, ma anche i due gradi sono a rischio”, ha messo in guardia il direttore generale di Irena, Francesco La Camera, secondo il quale l’aumento di 1,5 gradi potrebbe esser raggiunto già in un paio di anni!

Ma, sempre secondo quanto riportato dall’agenzia Reuters, il taglio delle emissioni previsto dal piano nazionale nei settori dei trasporti, dei servizi, dell’agricoltura e delle industrie a basso consumo energetico sarebbe del 35-37% rispetto al target del 43,7% fissato dalla Ue. Parrà strano, ma la viceministra dell’Ambiente Vannia Gava ha confermato l’approccio prudente del governo. “Basta con i libri dei sogni, serve concretezza, vogliamo arrivare a net zero nel 2050 ma dobbiamo farlo con le tecnologie disponibili, in modo graduale”. La stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha indicato, lunedì 3 parlando agli industriali, che “La transizione va fatta con criterio, non possiamo smantellare la nostra economia per inseguirla”, confermando le resistenze del governo italiano a livello Ue su temi come l’auto elettrica o l’efficientamento energetico degli edifici.

Se queste sono le idee, i contrasti e le emergenze in campo, si capisce come il 2022 sia stato l’anno in cui si è registrata una spinta record sulle rinnovabili, ma anche quello con i più alti livelli di sussidi ai combustibili fossili di sempre. La partita per una transizione ecologica è ineludibile, ma tutta da giocare: le destre in Europa hanno deciso di farlo su un fronte prettamente sociale, prima che tecnologico…

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La vera soluzione al problema delle armi nucleari non è la non-proliferazione ma la loro abolizione

di Mario Agostinelli e Luigi Mosca

Abbiamo tutti sentito dire e ripetere che il Trattato di Non-Proliferazione (Tnp) ha avuto un grande successo poiché tutti i paesi l’hanno firmato, eccettuati l’India, il Pakistan e Israele, oltre alla Corea del Nord che è uscita dal Tnp nel 2003. Questo trattato precisa che (articolo VI) “ciascuna delle Parti del trattato si impegna a portare avanti, in buona fede, dei negoziati su delle misure efficaci relative alla cessazione della corsa agli armamenti nucleari a una data ravvicinata e al disarmo nucleare”. I paesi non detentori delle armi nucleari hanno quindi interpretato questo trattato come un processo di eliminazione delle armi nucleari.

Ora, al di là dell’“entusiasmo” iniziale, il Tnp si è rapidamente rivelato inefficace: in effetti, il numero di Stati detentori dell’arma nucleare al momento della sua adozione nel 1968 – i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu con diritto di veto: Usa, Urss, Gran Bretagna, Francia e Cina – è pressoché raddoppiato, poiché altri quattro Stati (India, Pakistan, Israele e Corea del Nord) si sono anch’essi dotati dell’arma nucleare.

Come menzionato più sopra la Corea del Nord, che aveva firmato il Tnp, ne è uscita nel 2003, affermando che la sua “sicurezza” era minacciata. Questa possibilità è prevista nello statuto stesso del Tnp, cosicché questo ritiro potrebbe provocarne altri, a cominciare, per esempio, dall’Iran che, a seguito della violazione dell’Accordo di Vienna del 2015 da parte di Donald Trump nel 2018, ha ripreso l’arricchimento dell’uranio naturale in uranio fissile (U235) sino almeno al livello del 60%, il che significa che la soglia di circa il 90% per la produzione di bombe nucleari potrebbe essere raggiunto abbastanza rapidamente: si tratta soprattutto ora di una scelta politica.

Poi l’Arabia Saudita, che aveva finanziato il programma nucleare militare del Pakistan negli anni 90, è molto preoccupata per l’andamento del programma nucleare iraniano, che potrebbe spingerla a sviluppare un programma equivalente con l’aiuto del Pakistan (un “ritorno dell’ascensore”). Inoltre il Giappone, che si “accontenta” per il momento di rimanere sotto l’”ombrello” degli Usa, dispone però di una forma di “tacita deterrenza nucleare” grazie ai suoi impianti nucleari civili che hanno già permesso di produrre diverse centinaia di chilogrammi di plutonio di qualità militare e uranio altamente arricchito, che poi hanno consegnato agli Stati Uniti. In Corea del Sud, il presidente Yoon Seok-yeol ha recentemente emesso l’auspicio che gli Stati Uniti installino armi nucleari tattiche di fronte alla crescente minaccia della Corea del Nord, senza escludere la possibilità di produrle loro stessi. Inoltre, circa il 70% dell’opinione pubblica, sempre meno fiduciosa nell’“ombrello nucleare” statunitense, si dice favorevole a tali scenari.

Perché un bilancio così negativo del Tnp? In realtà non c’è da stupirsi: il Tnp è fondato su di una base che da un lato è ingiusta e, dall’altro, perversa. L’ingiustizia: in virtù di quale diritto i cinque Stati iniziali, già ampiamente in possesso di armi nucleari, potevano chiedere agli altri paesi di rinunciare definitivamente a qualsiasi arma nucleare se essi stessi non erano disposti a rinunciarvi realmente? È vero che il Trattato di Non Proliferazione includeva un impegno da parte delle cinque potenze nucleari di eliminare le proprie armi (come si è visto, attraverso l’articolo VI), ma questa promessa, a carattere non veramente costrittivo, non era altro che un inganno, come l’esperienza successiva ha ampiamente provato.

La perversità: il Tnp prevede un aiuto ai paesi firmatari che lo richiedono per sviluppare sul loro territorio il “nucleare civile”, condizione questa perversa poiché il nucleare civile può essere una via privilegiata verso il nucleare militare. In effetti l’“aiuto” allo sviluppo del nucleare civile ha, da un lato, rappresentato un’apertura di mercati a forte rendimento economico per i cinque paesi già nuclearizzati: si veda l’esempio degli Stati Uniti verso il Giappone, per di più con i risultati che si cominciano a vedere (Fukushima…). D’altro lato, le infrastrutture fornite dal Canada sono servite all’India per dotarsi dell’arma nucleare; la Francia ha collaborato, tra gli altri, con Israele su diversi aspetti… E attualmente un paese che si procurasse delle istallazioni per l’arricchimento dell’Uranio (centrifughe), oppure per la separazione del Plutonio, disporrebbe di mezzi importanti per sviluppare un programma militare.

Inoltre la malafede degli Stati dotati dell’arma nucleare è evidente soprattutto nelle loro attività per la modernizzazione delle loro armi. Mentre il Tnp prevede l’apertura di negoziati “in buona fede” in vista dell’eliminazione delle armi nucleari, la decisione di modernizzarle esprime invece chiaramente una volontà di non abbandonarle. È ad esempio il caso della Francia, che modernizza le sue attrezzature e addirittura ha aumentato la portata dei suoi missili da 6000 chilometri (gli M45) a 9000 chilometri (gli M51) in violazione flagrante del Tnp.

Quanto all’Italia, il fatto di “ospitare” delle bombe nucleari Usa, gestite in un quadro di cooperazione Usa-Italia, la pone in stato di violazione dell’Articolo II del Tnp. Inoltre le “vecchie” bombe B61, puramente gravitazionali, vengono attualmente sostituite dalle moderne B61-12, teleguidate e la cui potenza può essere regolata tra 0,3 Kton (50 volte inferiore a quella di Hiroshima) e circa 50 Kton. Ora questa possibilità anche di abbassare il livello della potenza rende queste bombe delle “mini-nukes”, molto più adatte a essere usate sul campo di battaglia!

La conseguenza evidente di tutto ciò è che la vera soluzione al problema delle armi nucleari non è semplicemente quella della “non-proliferazione”, ma quella dell’abolizione di tutte le armi nucleari. È ciò che ha stabilito sul piano giuridico il successivo Trattato di Proibizione della Armi Nucleari (Tpan), adottato dall’Assemblea Générale delle Nazioni Unite il 7 luglio 2017 ed entrato in vigore il 22 gennaio 2021, rendendo le armi nucleari illegali sul piano del Diritto Internazionale.

In conclusione, le dottrine della deterrenza nucleare sono intrinsecamente proliferanti: infatti, l’affermazione che il possesso di armi nucleari è essenziale per la sicurezza di uno Stato implica automaticamente che anche tutti gli altri Stati del mondo debbano possederle! Questo è quindi il principale “motore” della proliferazione nucleare. Invece, per garantire la sicurezza umana, non è la minaccia, ma esattamente il contrario che deve essere realizzato: come diceva giustamente Gorbaciov, “per ottenere la propria sicurezza, ogni Stato deve contribuire alla sicurezza di tutti gli altri”.

* Fisico delle particelle elementari e attivista di Ican

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Il governo ha riaperto il dossier nucleare e non possiamo restare indifferenti

Negazionismo climatico e opposizione alle politiche energetiche verdi saranno al centro dei programmi di molti partiti di destra nelle elezioni europee del 2024.

Non era certo prevedibile, prima della pandemia e della guerra in Ucraina, che l’Ue rallentasse il suo cammino da apripista dell’abbandono dei fossili. Dopo la prima svolta, nota come 20/20/20 (il “pacchetto clima-energia 20-20-20” varato dall’Unione Europea nel 2014) e il successivo programma Next Generation EU corroborato dal REPowerEU (approvati dopo il 2020 senza significative opposizioni), il percorso della decarbonizzazione sta incontrando ostacoli non previsti. Non tanto per la scontata ostilità delle “Big Oil”, quanto per la presa di distanza di forze di destra emergenti, che si caratterizzano, oltre che per l’arretramento sul fronte sociale, anche per un comportamento negazionista riguardo al cambiamento climatico. La loro è, in particolare, una dichiarata resistenza contro la mobilità elettrica e la penetrazione inarrestabile delle rinnovabili nel mix energetico di nazioni in cui cresce la loro rappresentanza. Goetz Kubitschek, ideologo neonazista, definisce addirittura gli ambientalisti un “nemico antropologicoda contrastare “concettualmente”.

Molto ha a che fare con una ripresa del nazionalismo in Europa, che induce a prese di posizione politiche di attacco alla scienza. Un insieme di discipline che validano su scala mondiale le emergenze in corso proponendo soluzioni che antepongono la salvezza della biosfera – cioè della maggioranza dell’umanità – agli equilibri geopolitici – che favoriscono la potenza delle armi e dell’economia di singoli blocchi. Non deve sembrare un caso che, ad esempio, la polemica tra scienziati italiani di chiara fama ed esponenti del nostro governo si sia fatta più insistente sulle due grandi emergenze che segnano il tempo attuale: la guerra e il clima (Rovelli, Pasini, Balzani e i 300 ricercatori che hanno inviato alle istituzioni un documento sull’origine antropica del cambio climatico).

Va considerato che gli interessi che collegano grande capitale e orientamento politico antiambientalista vengono portati alla luce sotto forme e narrazioni nuove rispetto al passato. Si parte dal sostenere la necessità di indipendenza energetica da potenze ostili e ricattatrici. Si prova, di seguito, a convincere che un orizzonte del 100% di fonti rinnovabili territoriali non sia praticabile perché richiederebbe di attenersi ad un criterio sociale “scomodo” di sufficienza nell’organizzazione degli stili di vita. Si conclude, pertanto, che il benessere della popolazione (in ovvia coincidenza con la massimizzazione dei profitti per le imprese), verrebbe assicurato solo con il ricorso ad ulteriore combustione di gas integrata da una disseminazione territoriale di “nucleare pulito”, sotto forma di grandi e piccoli reattori.

E qui il ragionamento si inceppa. Una pala eolica o un pannello solare hanno il loro impatto e si portano con sé un po’ di problemi, ma sicuramente non quelli di ripetere catastrofi come quelle di Chernobyl o Fukushima. Inoltre, sarà pur chiaro che il tempo per continuare a vulnerare con emissioni climalteranti (metano) la nostra atmosfera viene ormai a mancare e che la guerra in Ucraina, tra tante altre cose, ha scoperchiato l’estrema pericolosità degli impianti del “nucleare civile” in situazioni di stress e di conflitto. Ci sono legami così indissolubili tra il gas e i conflitti bellici, tra l’atomo “di pace” e quello “di guerra”, da prendere in considerazione una dimensione più ampia di quella strettamente nazionale.

Per tante ragioni, quindi, non si può restare indifferenti al fatto che quanto detto dal ministro Pichetto Fratin: “l’Italia per la conoscenza che ha rimane nel nucleare, nella ricerca e nella sperimentazione”, abbia poi dato seguito, neanche due mesi dopo, all’approvazione alla Camera di una mozione che impegna il governo “a inserire il nucleare nel mix energetico italiano e a partecipare a iniziative in Europa e alla produzione extraterritoriale, al fine di accelerare il processo di decarbonizzazione dell’Italia e di valutare l’opportunità di inserire l’atomo nel mix energetico nazionale quale fonte alternativa e pulita per la produzione di energia”. Si fa riferimento forse alla fusione o ai piccoli reattori modulari (SMR: Small Modular Reactor) che non esistono, anche dopo che la premier Giorgia Meloni ha affermato che “l’atteggiamento del governo rimane pragmatico, ispirato al principio di neutralità tecnologica”.

Il fatto è che l’interesse per l’alleanza nucleare a guida francese acquista slancio in Ue: senza clamore, il governo ha sottoscritto insieme ad altri Paesi dell’Ue (più il Regno Unito) un patto per il rilancio del nucleare in Europa, chiedendo che venga “sdoganato” come strumento nella lotta contro la crisi climatica. Sedici paesi europei (Belgio, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Finlandia, Ungheria, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Slovenia, Slovacchia, Estonia, Svezia, Italia e Regno Unito) che partecipano all’”alleanza nucleare” prepareranno una tabella di marcia per sviluppare un’industria nucleare europea integrata che raggiunga 150 GW di capacità di energia nucleare nel mix elettrico dell’Ue entro il 2050.

La volontà della nuova maggioranza di riaprire il dossier nucleare anche in Italia è chiara e questo mette in bieca luce il tema del blocco delle rinnovabili e le responsabilità delle istituzioni (in primis il governo ma in diversi casi anche Regioni e sovrintendenze) nel ritardarne il lancio. Occorre presa di coscienza il più ampia e generale, a cominciare da subito e ad estendersi nel tempo.

Al via il 9 e 10 giugno il weekend di mobilitazione organizzato nella Penisola da oltre 20 associazioni, movimenti ecologisti e studenteschi, con modalità provocatorie, ironiche e comunicative, sfruttando in maniera il più possibile scenografica la presenza di pannelli solari e pale eoliche (simboliche, di cartone) nelle piazze e strade antistanti le sedi decisionali per sostenere lo sviluppo delle fonti pulite oggi frenate da burocrazia, amministrazioni locali e regionali, sovrintendenze, comitati Nimby e Nimto e, soprattutto interessi legati alle fonti fossili e coperti da un intollerabile negazionismo

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Tra le istituzioni prende piede la versione più recente del negazionismo climatico

Il governo Meloni non tiene il passo del sistema di aiuti europei, non solo sul Pnrr. Il 27 giugno scade la data di aggiornamento dei piani nazionali climatici e sull’energia che fanno riferimento agli obbiettivi del Green Deal UE, che prevede la neutralità climatica per il 2050. Quali obbiettivi raggiungerà il nostro Paese?

Il consiglio di 28 accademie scientifiche nazionali degli Stati membri dell’Ue ha elaborato un documento in cui spiega l’urgenza di uscire dal gas, aggiungendo che per aumentare massicciamente la produzione di energia elettrica da rinnovabili occorre sostenere le famiglie e le imprese vulnerabili per limitare la povertà energetica e gli impatti derivanti da bollette energetiche elevate. Un programma dettagliato e ragionevole, in cui si esclude che investimenti in gas naturale vengano considerati compatibili con l’obbiettivo di contenere la temperatura del pianeta entro 1,5°C.

Eppure, il 23 maggio, il nostro Consiglio dei Ministri ha approvato, proprio nel decreto per le alluvioni in Emilia-Romagna, una norma che, all’art 6, consente di “realizzare nuova capacità di rigassificazione e di spostare, per utilizzarle altrove, se occorre, le navi che stoccano e rigassificano gas liquefatto”. La contraddizione è palese e contiene addirittura una provocazione: l’emergenza non si concentra solo sulle popolazioni colpite, ma viene in subdolo soccorso degli interessi di Big&Oil, tra i responsabili accertati degli eventi disastrosi cui assistiamo.

E’ ormai grande la distanza dei governi dalle emergenze epocali che la scienza segnala e a cui le nuove generazioni dedicano finalmente grande attenzione. Non si tratta più soltanto di una “Greta” da isolare quando contesta gli effetti letali delle combustioni fossili, ma di un’ondata in crescita di ragazze e ragazzi che hanno consapevolezza di quanto il presente non prepari per loro un futuro desiderabile.

Occorre rendersi conto che, con un lavoro assiduo e dietro le quinte dei comitati, dei think-tank e dei conferenzieri strapagati, ma anche dentro le commissioni istituzionali dei Parlamenti nazionali della Ue e dei vari G7, sta prendendo piede la versione più recente del negazionismo climatico: le rinnovabili consumeranno troppi materiali rari, non potranno raggiungere il 100% e dovranno obbligatoriamente cedere il passo ad un pesante soccorso di gas e nucleare per “scollinare” il 2050. Risulta così ancor più brusca la distanza tra la scienza (non solo quella di fisici eccellenti come Rovelli o Parisi, ma quella dell’intero staff globale dei climatologi dell’Ipcc) e i governanti, che si alleano per andare all’attacco degli accordi internazionali sottoscritti a Parigi nel 2015 e anno dopo anno infranti.

Le manovre di avvicinamento tra il Ppe (destre classiche) e i sovranisti (destra estrema), nella prospettiva delle prossime elezioni europee (6-9 giugno 2024), si stanno concentrando proprio sul freno al Green New Deal Ue. I contatti sono sempre più stretti e contano anche sulle convenienze di settori finanziari e industriali legati alle fonti fossili e nucleari e sulla influenza sui rispettivi governi (si vedano le nomine negli enti del governo italiano) di imprese partecipate che approfittano della guerra in Europa per accumulare extraprofitti da impianti obsoleti e drammaticamente nocivi. Un recente studio pubblicato da Reclaim Finance, ReCommon e Greenpeace ha calcolato che meno del 20% degli investimenti previsti da Eni nei prossimi anni andranno a finanziare progetti di energie rinnovabili, superando del 70% la prevista riduzione delle emissioni previste dalla IEA per il 2030.

La destra europea, compresa quella italiana, punta – dopo l’invasione russa dell’Ucraina – a mantenere gas e nucleare in una funzione cruciale nella transizione verso il “tutto elettrico”. E la ragione politica sfugge tuttora agli ambientalisti e alle sinistre: c’è un tratto di liberismo che è ampiamente sostenuto nel mercato energetico. Da quando i flussi energetici statunitensi hanno contribuito a sostituire buona parte del petrolio e del gas russi, l’aspetto proprietario dello shale gas americano fornito da produttori indipendenti ed estratto su terreni di proprietà privata viene giocato sul libero mercato. In tal guisa, il GNL diviene proprietà dell’acquirente non appena viene caricato su un’apposita nave cisterna e il carburante è considerato franco a bordo (FOB) in quanto all’acquirente è data la flessibilità di spostarlo in qualsiasi luogo desideri. Ciò significa spesso vendere il gas liquefatto nel luogo in cui il prezzo produce il maggiore profitto. Un danno per i consumatori, ma non per Eni e per le aziende private o ex municipalizzate che hanno interesse ad avere più gas in circolazione e a venderlo ovunque richiesto, in Italia o altrove, possibilmente sul mercato spot, perché questo massimizza i profitti.

Quindi, mantenere turbogas e condotte e puntare a fare dell’Italia “l’hub europeo del gas” (un punto di vendita nel caso di sovrabbondanza) significa badare ad interessi molto precisi, a danno, ovviamente, della sostituzione con energie da rinnovabili (ad uso misurato delle comunità locali). Il governo Meloni non vuole “scatenare le rinnovabili”, mentre non ha problemi a dare immediata via libera ad una nave “gasiera” – una fabbrica galleggiante che arriverà a giugno a Ravenna – mentre un impianto simile è arrivato a Piombino a marzo tra mille polemiche. Intanto è in costruzione un nuovo gasdotto tra Sulmona, in Abruzzo, e Minerbio, in provincia di Bologna, per nuova capacità di rigassificazione nazionale, qualificato come “opera di pubblica utilità indifferibile e urgente.

Ovviamente le compagnie del gas puntano ai fondi del Pnrr e di RePowerEu, o, almeno, ad ottenere garanzie pubbliche per un piano di investimenti che ci legherà ancora di più al gas negli anni a venire: non importa se la domanda interna diminuisce, si venderà altrove. E il clima e gli eventi catastrofici, ovviamente, renderanno ancora più insopportabili le guerre in corso.

Velocizzare l’installazione di impianti eolici e solari, sviluppare le “comunità energetiche”, agire sull’efficienza, riconvertire i consumi richiede mobilitazione e una coalizione sociale che sappia fare un’opposizione propositiva per giovani e lavoro. Le iniziative svolte il 27 a Roma e quelle in preparazione su tutto il territorio nazionale per la prima decade di giugno fanno ben sperare.

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