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Lo ha detto anche il Guardian: gli americani sono i prossimi migranti climatici

I dati sulle migrazioni sono impressionanti: il pianeta è sempre più privo di spazi per abitare e sopravvivere decentemente. Nel 2015 In totale, il numero di persone che ha richiesto l’intervento dell’Unhcr ammontava a almeno 35.833.400. A metà 2018 stiamo assistendo ai più elevati livelli di migrazione mai registrati: 65.6 milioni di persone in tutto il mondo, un numero senza precedenti, sono state costrette a fuggire dal proprio Paese. Normalmente associamo l’immigrato ad una donna o uomo di colore proveniente dall’Africa. Ma il cambiamento di temperatura avvolge l’intero pianeta e riduce gli spazi vitali complessivi.

Chomsky in una recente intervista a “Il manifesto Alias” dell’8 Settembre, fa risalire al negazionismo climatico, sbandierato dalle élite mondiali, il clima di esclusione, respingimento, paura e involuzione democratica che prende corpo negli elettorati. Non sostengo che la questione migranti o l’attacco al lavoro e al welfare dipendono solamente dall’espulsione di un intervento di mitigazione del clima dall’elenco delle emergenze nell’agenda dei governanti. Tuttavia vorrei sostenere il collegamento sempre più vasto eppure sottaciuto tra crisi ambientale, immigrazione e esclusione. In effetti, non avere come sfondo la rigenerazione della Terra intera, serve ad accreditare un sovranismo chiuso a difesa di casa propria, ad espellere disumanamente migranti e rifugiati ambientali e a cercare illusorie soluzioni protezioniste anche quando la vendetta della natura sui nostri comportamenti comincia a colpire anche le nostre terre ricche.

Cominciamo da due notizie rilevanti.

Il gigante delle riassicurazioni Swiss Re (compagnia che vende polizze di assicurazione ad altre compagnie assumendosi una parte dei loro rischi) ha reso noto a Settembre 2017 un nuovo rapporto che fa la graduatoria globale delle città minacciate da disastri naturali e climatici e che quindi registrerà massicci spostamenti di abitanti. La classifica globale, che tiene conto della popolazione potenzialmente colpita espressa in milioni di persone è la seguente: Tokyo-Yokohama (Giappone) 57,1, Manila (Filippine) 34,6, Delta del Fiume delle Perle (Cina) 34,5, Osaka-Kobe (Giappone) 32,1, Giakarta Indonesia) 27,7, Nagoya (Giappone) 22,9, Calcutta (India) 17,9 Shanghai (Cina) 16,7, Teheran (Iran) 15,6. La collocazione prevalente è verso il mare (non nei deserti e nelle steppe già in parte abbandonati) proprio a causa dell’innalzamento delle acque e la violenza degli scambi termici (tifoni e piogge).

Da più di quindici giorni una testata prestigiosa come il Guardian raccoglie e pubblica dati esemplari sull’allontanamento dalle proprie terre e sull’impoverimento dovuto alle crescenti catastrofi climatiche nelle zone ricche del mondo. Partendo dall’America e con un titolo shock, “Americani: i prossimi migranti climatici”, descrive e quantifica sotto il profilo dell’abitare e sopravvivere gli effetti dell’uragano Sandy nel 2012 su differenti quartieri di New York e la distruzione recentissima da parte di “Florence” sulla North Carolina, che tratterò la prossima volta.

Gran parte delle abitazioni pubbliche di New York è circondata dall’acqua, a Red Hook, a Coney Island, a Lower East Side, ai Rockaways. Il quartiere di Brooklyn, una penisola circondata dall’acqua, si è rivelata una pianura alluvionale dopo l’uragano Sandy nel 2012. I valori di mercato delle case sono scesi, ma i più ricchi si sono spostati nella zona centrale dei grattacieli.

Red Hook ha uno dei più antichi e più grandi progetti di edilizia pubblica d’America. Più della metà dei dodicimila residenti di Red Hook sono inquilini della New York City Housing Authority. Nelle strade del quartiere le inondazioni sono state pesanti e secondo le proiezioni degli scienziati, i moli della città svaniranno sotto l’alta marea nel 2020. Entro il 2080, l’alta marea normale invaderà alcune strade. Una parte di Van Brunt Street, l’arteria principale di Red Hook, dovrebbe essere allagata ogni giorno. Qui, dove la gente è più povera, il mercato delle case danneggiato ha attirato compratori di ceto medio e speculatori per affari a breve termine.

Red Hook ha una storia di comunità solida e molti dei suoi abitanti non hanno intenzione di vendere la casa in cui sono cresciuti. Una migrazione verso zone rurali a basso costo potrebbe salvare i residenti sul lungomare di lunga data dall’innalzamento delle acque, ma non li salva dalla perdita delle loro case e dei rapporti cui sono affezionati. Senza investimenti governativi nella protezione dalle inondazioni, sono in imminente pericolo. Le megalopoli di Londra, Tokyo, Rotterdam e Shanghai hanno installato parapetti, barriere anti-tempesta, super-argini e anelli per tenere l’acqua fuori dalle strade. New York no e se lo facesse, li preserverebbe per un po’. Gli speculatori con cinismo assicurano che “si faranno parapetti prima di 30 o 40 anni e solo dopo la terra si allagherà.”

In sostanza, l’effetto dei più frequenti uragani in America si concretizza nel fatto che i ricchi possono permettersi di muoversi, mentre i poveri non ne hanno possibilità. L’effetto vale anche per la siccità e le temperature crescenti. Mentre le persone fuggono il calore intenso in Arizona per climi più miti, i valori di noleggio e proprietà salgono continuamente e le banche non allungano crediti a chi ha patrimoni irrilevanti o case minacciate. Alcuni residenti di una città progressista, Juad Suarez, a 300 miglia a nord del confine messicano hanno adottato lo slogan “costruisci il muro” di fronte a un’ondata di nuovi arrivati. Ma questi interlocutori percepiti sono nettamente diversi dall’immaginazione di Donald Trump. Sono americani, principalmente bianchi e stanno fuggendo dal caldo invivibile.

Lo chiamano un modello di gentrificazione (trasformazione di un quartiere popolare in zona abitativa di pregio, con conseguente cambiamento della composizione sociale e dei prezzi delle abitazioni) dettata dal clima. Fenomeno che si sta diffondendo negli Stati Uniti, poiché coloro che sono in grado di ritirarsi da inondazioni, tempeste, ondate di calore e incendi boschivi si spostano verso aree più sicure, portando con sé proprietà in ascesa e valori locativi. Ma dove andranno a vivere le persone a basso reddito? Basterà odiare, perseguitare e privare di diritti persone di colore diverso?

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Sanzioni all’Ungheria, uno schiaffo in faccia a Salvini

Ma quanti se lo aspettavano? Il Parlamento europeo ha fatto mercoledì 12 settembre un primo passo per imporre una sanzione storica all’Ungheria, raccomandando di applicare l’articolo 7 dei Trattati, che includerebbe come pena per il governo xenofobo e autoritario di Orban la perdita del diritto di voto al nel Consiglio dell’Unione Europea. Anche se la gran parte dei nostri media nazionali sono concentrati e quasi ammaliati dalle virtù più arroganti di Salvini, dovranno pur accorgersi che si è consumato un fatto politico di enorme portata: con 448 voti a favore e 197 contro, il Parlamento ha approvato una relazione che sostiene che il governo magiaro sta mettendo a rischio i valori fondamentali dell’Europa.

Solo ieri (12 Settembre) Stefano Folli su “Repubblica” affermava che “i leghisti ormai rappresentano lo spirito dei tempi” e che “dalla vicenda europea “Salvini avrebbe ottenuto una più solida egemonia sull’area di centrodestra”. Evidentemente era convinto che il voto in plenaria in Parlamento sarebbe stata una questione tra furbi e smaliziati e chi, secondo la nostra stampa, lo è più di Salvini o più di Orban nell’area di cetrodestra?

Invece, per la prima volta, un Parlamento, rappresentativo dei 27 Paesi membri, ha approvato a stragrande maggioranza un dossier considerato come “un’arma nucleare”, a causa della sua natura dissuasiva di fronte a derive autoritarie e agli evidenti rischi politici coinvolti nel suo utilizzo. L’approvazione del rapporto – che espressamente dice che sono forti le “preoccupazioni europee in merito all’indipendenza del sistema giudiziario, alla libertà d’espressione e ai diritti delle minoranze e dei migranti in Ungheria. Questi ultimi si trovano ad affrontare un regime sempre più repressivo a seguito dell’adozione di leggi che limitano fortemente le possibilità di richiedere asilo nel paese.

Dobbiamo stigmatizzare concetti contrari ai valori europei, quali “nessuna popolazione straniera potrà stabilirsi in Ungheria” o il reato di promozione dell’immigrazione clandestina destinato a colpire a Ong che offrono soccorso ai migranti” – ha già scatenato un’enorme crepa nel Ppe, la famiglia politica del partito di Orbán, ma anche della Merkel.

Il rapporto, redatto dalla parlamentare verde olandese Judith Sargentini, richiedeva il voto favorevole dei due terzi dei voti espressi, con un minimo di 376. Il risultato è sorprendente, perché Orban, Salvini, Kaczynski, gli esponenti di destra austriaci e bavaresi come Seehofer e Kurz ostentavano un patto per assolvere l’Ungheria, contando sull’improbabilità di una spaccatura così netta dei parlamentari del Ppe. Anche a costo della rinuncia ai valori sociali e democratici in un’Europa dove la grancassa dei sovranisti e dei populisti annuncia da tempo la fine di un processo di smarcamento dell’Unione rispetto al neoliberismo più smodato e alle intromissioni di Trump nelle fazioni europee legate dal patto di Visegrad.

Le ramificazioni politiche del caso ungherese sono di ampia portata, perché Orbán appartiene alla più grande famiglia politica in Europa, in cui militano leader nazionali come Angela Merkel, Silvio Berlusconi, Pablo Casado e Sebastian Kurtz, o autorità della comunità come Jean-Claude Juncker (presidente della Commissione), Donald Tusk (presidente del Consiglio) o Antonio Tajani (presidente del Parlamento europeo).

La foto di Orban e Salvini sorridenti non ha quindi entusiasmato abbastanza Bruxelles e Strasburgo e lo schiaffo alle aree estremiste è stato tonante, anche in vista delle prossime elezioni nella Comunità. Allora, perché i nostri media hanno quasi glissato sulla notizia e continuano a schiacciare i nostri ascolti e le nostre letture sulla diatriba DiMaio-Salvini con l’incomodo ministro Tria? Credo che si faccia avanti un’area potente, silenziosa e un poco sottotraccia, che cerca consensi lontano dalla democrazia rappresentativa, dall’angoscia per il clima, dalle disuguaglianze che caratterizzano il sistema, dalla politica che costituzionalmente dà potere ai cittadini e che mistifichi questi diritti con un’attenzione spasmodica alle lotte interne, alla banalità, ai personalismi che escludono partecipazione.

Il voto di mercoledì pomeriggio a Strasburgo sullo stato della democrazia in Ungheria e sullo smantellamento dello stato di diritto va realmenteinterpretato come un ricorso al diritto per combatterne il suo rovescio. Se l’esito della vicenda resta ancora tutto da scrivere, – il processo sarà molto complicato. La risoluzione del Parlamento, deve essere approvata da una maggioranza qualificata nel Consiglio dei ministri dell’Ue e Paesi come la Polonia, la Slovacchia, la Romania, Malta, la Repubblica Ceca o anche l’Italia, probabilmente resisteranno alle indagini sul governo di Orbán.

Possiamo tuttavia contare che, con tutte le riserve che abbiamo purtroppo sperimentato da Maastricht in poi, il diritto europeo può restare ancora una difesa della democrazia di fronte all’insorgere dell’autoritarismo. Ossia, la lotta del diritto contro il suo rovescio. Purché i cittadini ritornino ad essere partecipi e protagonisti: In gioco non c’è solo la tenuta dello Stato di diritto in Polonia e Ungheria, c’è la futura direzione dell’Unione e dell’Europa: aperta e democratica, oppure chiusa e autoritaria. In questo senso il pugno in faccia ad Orban è uno schiaffo a Salvini e alle illusioni che lui ama disinvoltamente a coltivare.

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Governo, il clima è una malattia. E la politica non la cura

Questa volta voglio prenderla alla larga visto che la crisi del rapporto tra politica e società viene sempre svelata ex-post; come una sorpresa superiore alle previsioni dei politici!

La dodicesima notizia più censurata negli Stati Uniti riguarda il problema della fine dei combustibili fossili. “Vivremo se l’80% dei combustibili fossili rimarrà sottoterra”, dice l’Ipcc report, ma gli americani e il resto del mondo non lo devono sapere. E, d’altro canto, di cosa discutono Matteo Salvini e Luigi Di Maio nelle loro apparizioni televisive? Hanno forse rimesso in discussione che l’Italia debba mirare ad essere l’hub del gas d’Europa e che la Sardegna debba essere metanizzata a suon di navi metaniere e rigassificatori?

Ma, davvero, se si escludono eccezioni, la questione del clima può essere sempre più impunemente travolta dalle corporation dei tubi e delle trivelle, dagli interessi finanziari delle multinazionali, da politiche neocolonialiste e dalle manovre di guerra? Sulla rivista After oil, Bill McKibben ha scritto che, per quanto riguarda il cambiamento climatico, il problema essenziale non è “industria contro ambientalisti o repubblicani contro democratici. Sono le persone contro la fisica“. Per questo motivo, i tipici compromessi e compensazioni offerti nella maggior parte dei dibattiti pubblici non funzioneranno abbastanza, perché “è inutile fare pressioni con la fisica”. E, al riguardo, la critica di Bill alla concorrenza, che il gas porta all’espansione delle rinnovabili è molto dura. La parola d’ordine del movimento dello scienziato statunitense “lasciamo sotto terra l’80% delle riserve di carbone, petrolio e gas” è stata censurata e fatta sparire da tutti i media internazionali, escluso il Guardian che l’ha invece ripresa con risalto.

L’invito di McKibben quindi, pur ragionevole ed essenziale, non muove fremiti quanto gli scandali della nomenclatura romana. Dice con naturalezza che “con alternative a combustibili fossili ormai sempre meno costose, per vincere non abbiamo bisogno di questa ostinata lotta per sempre tra climalteranti e sopravvivenza. D’altra parte, se possiamo tenere a bada lo sviluppo dei combustibili fossili (gas compreso!) “per qualche altro anno (…) avremo reso irreversibile la transizione verso l’energia pulita, il 100% di rinnovabili”.

A sostegno di questa scelta e di un percorso realizzabile entro il 2050, in La festa è finitaRichard Heinberg esamina tre livelli ragionevoli e praticabili di intervento anche in una fase di crisi. Interventi che non agiscono tanto sulla domanda, quanto sulle scelte politiche e di comportamento. In primo luogo, la transizione diventa un segnale di partenza vera quando si modificherà in modo sostitutivo la produzione di elettricità dalle fonti a contenuto di carbonio alle fonti di energia eolica e solare. Una volta che l’energia solare ed eolica generano elettricità, “ha senso elettrificare gran parte del nostro consumo energetico il più possibile” Oltre ad adattare gli edifici all’efficienza energetica e ad aumentare la quota di mercato degli alimenti biologici locali, il livello di cambiamento “potrebbe raggiungere almeno il 40% di riduzione delle emissioni di carbonio in 10-20 anni “. Occorre, ovviamente, praticare una politica industriale nella direzione delle fonti sole e vento, sostenuta da una forte spesa in ricerca.

Infine, poiché la produzione di cemento è necessaria e richiede alte temperature, queste potrebbero essere fornite dalla luce del sole, elettricità o idrogeno, ben sapendo che un simile cambiamento significherebbe “una ridefinizione quasi completa del processo di produzione non solo del calcestruzzo, ma anche della pianta urbana, della mobilità, delle modalità di relazioni e convivenza. A ciò andrebbe aggiunta la riprogettazione del sistema alimentare “per ridurre al minimo la lavorazione, l’imballaggio e il trasporto”. Naturalmente, investimenti, programmazione, formazione e lavoro dignitoso per accompagnarne una estesa diffusione.

Aggiungo che senza maggiori sforzi dei governi per promuovere la crescita dello stoccaggio delle batterie e delle interconnessioni energetiche tra paesi diversi, e senza finanziamenti verdi per favorire le utilities elettriche a migliorare i servizi energetici e della mobilità elettrica, il 2018 sarebbe un altro anno perso. Se avanzassero, come dovrebbero, la generazione distribuita, lo stoccaggio di energia e le abitazioni passive, i consumatori necessiterebbero di una tecnologia che consenta loro di gestire la produzione e il consumo di energia domestica con la massima efficienza e di vendere di nuovo alla rete. È il caso, ormai realizzabile, di veicoli elettrici messi in rete: Enel sta collaborando con il produttore di automobili Nissan per creare un sistema grazie al quale i proprietari di Nissan EV possono vendere energia immagazzinata nei loro veicoli alla rete per ottenere un guadagno.

Nulla di quanto qui riportato è assunto come asse strategico nel “contratto” del governo del cambiamento che sì è appena costituito. Mentre la scienza del clima ha fatto quanto poteva, rilevando i sintomi, individuando la patologia e formulando la prognosi, ora tutto è nelle mani del paziente: che sembra non voler guarire, abbandonando la politica ad esercizi di fiacco potere.

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