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Clima, l’accordo di Parigi ha clamorosamente fallito

Al posto del carbone: gas o rinnovabili? In un editoriale su Il Messaggero del 4 dicembre, Romano Prodi definiva una svolta storica la firma di 196 Paesi all’accordo di Parigi 2015 sul clima, che prevedeva severi obiettivi e misure concrete per la riduzione della CO2 auspicata da tutti, Cina e Stati Uniti compresi. Tre anni dopo, a Katowice per la Cop 24, quegli stessi firmatari possono annunciare un clamoroso quanto angosciante fallimento. Le convenienze economiche hanno prevalso sugli impegni politici e il limite di 1,5° C di aumento della temperatura sembra allontanarsi.

L’escamotage degli inquinatori per aggirare i patti siglati, sta nel sostituire allo “sporco” carbone il finto “salvagente” del gas fossile, come se i naufraghi in vista della tempesta scampassero per magia, aggrappandosi a una ciambella bucata. Bruciare gas comporta un po’ meno emissioni dell’equivalente in carbone, ma è pur sempre un’aggiunta di climalteranti in atmosfera. Non doveva essere questa la via d’uscita dall’allarme climatico certificato da tutti gli scienziati, ma i corposi interessi del sistema centralizzato delle fonti fossili ha suggerito trucchi adeguati per continuare a legittimarsi agli occhi dei cittadini distratti. I negazionisti climatici hanno così estratto un “jolly” fasullo, tenuto nella manica, per calarlo sul tavolo a partita aperta. Una carta decisamente differente dagli assi indicati a Parigi per frenare l’aumento di temperatura e, invece, paragonabile a un due di picche, quale è la sostituzione del gas al posto del carbone. Bene, seguendo la metafora, andiamo allora a vedere il mazzo intero, per capire come mai tutti, governi e cittadini, si dichiarano disposti al cambiamento, ma alcuni non ne vogliono pagare il prezzo.

1. La domanda di energia si sposta verso Oriente

Lo scenario in termini di domanda globale di energia sta cambiando profondamente. Se solo nel 2000 Europa e Nord America rappresentavano il 40% della domanda mondiale e l’Asia il 20%, da qui al 2040 questa situazione si invertirà. Se solo 15 anni fa, le società elettriche europee erano le protagoniste nella top ten mondiale, ora sei delle prime dieci sono utility cinesi. Inoltre, la composizione del mix energetico globale vedrà salire la quota di rinnovabili dall’attuale 25% a oltre il 40% nel 2040, non comunque abbastanza da impedire a gas+carbone di rimanere la fonte principale. Come vedremo avanti, non a causa delle arretratezze degli asiatici, ma per la pressione formidabile che lo shale gas statunitense, tenuto a basso prezzo, impone sul mercato delle importazioni in Europa e in Asia.

2. Le fonti fossili crescono

Un quadro significativo di quanto accade e probabilmente accadrà lo offre l’International Energy Agency (Iea) attraverso il World Energy Outlook 2018. “Nei mercati dell’energia, le rinnovabili sono ormai diventate la tecnologia preferita, costituendo quasi due terzi delle capacità globali aggiuntive al 2040, grazie al calo dei costi e all’aumento della domanda derivante dall’economia digitale, dai veicoli elettrici e da altri cambiamenti tecnologici”. Secondo la Iea, il prossimo scenario energetico dipenderà dalle scelte politiche governative in tema di limitazione delle emissioni di CO2. Ma dopo Parigi si è fatto ben poco: dopo due anni sostanzialmente stabili, la CO2 è cresciuta dell’1,6% nel 2017 e i primi dati suggeriscono un aumento continuo nell’anno in corso. Il gas naturale è il maggior responsabile della loro crescita.

Nel 2017 gli investimenti energetici globali sono arrivati a 1,8 trilioni di dollari con un calo del 2% sul 2016, ma “dopo diversi anni di crescita, gli investimenti mondiali nelle rinnovabili sono calati del 7% nel 2017 rispetto all’anno precedente e gli investimenti globali combinati nelle energie rinnovabili e nell’efficienza energetica sono diminuiti del 3% nel 2017 e stanno rallentando ulteriormente nel 2018. Ciò a differenza degli investimenti in fonti fossili, che lo scorso anno sono saliti per la prima volta dal 2014, a 790 miliardi di dollari, contro i 318 miliardi delle rinnovabili. Il mattatore lo fa il gas naturale. Lo rivela l’ultimo studio World Energy Investment 2018  dell’Iea che definisce “preoccupante” un andamento che mette a rischio la sicurezza energetica e gli obiettivi di taglio all’inquinamento.

3. Lo spostamento verso l’elettricità

Il settore dell’elettricità sta vivendo, secondo la Iea, la sua trasformazione più drammatica dalla sua nascita più di un secolo fa. “Nel 2017 il settore elettrico ha attratto la maggior parte degli investimenti energetici, sostenuto da una forte spesa per le reti, superiore perfino a quella dell’industria petrolifera e del gas per il secondo anno consecutivo. L’energia elettrica è sempre più il “carburante” prescelto nelle economie che si affidano in modo crescente a settori industriali più leggeri e a servizi e tecnologie digitali”. La sua quota in termini di consumi finali a livello mondiale sta raggiungendo il 20% ed è destinata a salire. L’impatto dell’elettrificazione nei trasporti, negli edifici e nell’industria è una caratteristica irreversibile. L’elettrificazione apporta benefici, in particolare riducendo l’inquinamento, ma richiede ulteriori misure per decarbonizzare l’alimentazione elettrica.

4. E qui rispunta il gas

Le decisioni finali di investimento per le centrali a carbone da costruire nei prossimi anni sono diminuite per il secondo anno consecutivo, raggiungendo un terzo del livello del 2010. Tutto bene? Niente affatto, perché sull’altro fronte fossile il miglioramento delle prospettive per il settore statunitense dello shale gas sta lanciando questo prodotto in tutti i continenti. Con una base finanziaria più solida e sostenuto dal proprio governo, si è trasformato nel maggior concorrente mondiale nel mercato dei fossili con una produzione che, a dispetto dei danni sull’ambiente, sta crescendo al ritmo più veloce mai registrato.

Le compagnie e i governi sono alla ricerca continua di fonti fossili ancora intatte e a minimi costi concorrenziali, in barba alle preoccupazioni per la temperatura della Terra. La produzione di shale gas statunitense, che si è già espansa a un ritmo record, dovrebbe raggiungere più di 10 milioni di barili al giorno da oggi al 2025. Sarebbe come aggiungere una seconda Russia alla fornitura globale in sette anni, un’impresa storicamente senza precedenti. Per queste ragioni Trump ripudia Parigi e spedisce alla Cop 24 di Katowice autentiche comparse non certo dotate di poteri. Intanto, qui da noi, drammi o commedie si trasformano sempre in farsa. Governi, industriali, giornali e “madamine” di balzacchiana riesumazione duellano con le popolazioni locali sulla Tav e sulla Tap e si genuflettono alle “grandi opere” senza distinzione alcuna. Ci verranno mai a dire con quale impronta ecologica e con quale combustibile inquinante le faranno funzionare?

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Macron chiuderà 14 reattori nucleari entro il 2035. Una mossa d’immagine o molto di più?

Il cambiamento climatico è il tipo di minaccia di cui le nostre menti non sono in grado di preoccuparsi. Sembra distante e che possa accadere nel futuro e ad altre persone: è invece tempo che il pubblico si convinca della rilevanza e dell’urgenza del problema. Arrivare a occuparsene a tempo scaduto e con una situazione irrimediabile e pericolosa ci ridurrebbe a subire limitazioni e imposizioni d’emergenza, con danno della libertà e della democrazia. Lo ripetono i climatologi di tutto il mondo, ma non è un problema per il trio ConteSalviniDi Maio, tutto intento a respingere migranti. Eppure se ne è accorto Emmanuel Macron e se ne sta capacitando la Francia, dove è andato in scena il primo atto di una rappresentazione in cui finale e repliche sono imprevedibili.

Ridurre le emissioni richiede che le persone confidino in autorità competenti, oneste e giuste e che tengano conto, quando decidono, di tutte le opinioni. Le barricate dei “gilet gialli” contro il caro gasolio, calato da un governo assai poco credibile dopo che aveva imposto duri colpi sul versante sociale (Macron era sceso al 25% di gradimento quando sono scoppiati i disordini), hanno indotto il presidente a fare un tentativo un po’ maldestro di recuperare un’immagine di ingiustizia sociale con un po’ più di giustizia climatica. La questione energetica giocata di fronte alla piazza è così balzata all’onore delle cronache, pur con un carico di ambiguità che analizziamo prima di trarne qualche insegnamento.

L’aumento del gasolio alla pompa era stato presentato ai francesi come misura per ridurre le emissioni climalteranti e l’inquinamento. Dopo giorni di proteste a volte violente per i prezzi elevati dell’energia, Macron ha proposto un meccanismo per rivedere la tassa sul carburante nel caso di aumento dei prezzi del petrolio sul mercato globale. Barcamenandosi tra condanna dei “facinorosi” e comprensione dei “concittadini”, ha anche avanzato l’offerta di tre mesi di consultazione con i gruppi di attivisti e associazioni, sia per scoraggiare le manifestazioni sia per “trovare il modo migliore per gestire i crescenti costi energetici”.

Ma da dove vengono i costi più alti dell’energia fossile e nucleare se non dalle crescenti preoccupazioni per la tutela dell’ambiente, del clima e della salubrità della popolazione? Il 27 novembre Macron ha fatto, più o meno coscientemente, un passo di grande rilievo, forse non voluto, ma altamente significativo: ha disegnato la transizione energetica dal vecchio sistema centralizzato fossile e nucleare verso il decentramento della rete elettrica, alimentata in gran parte da sole, acqua e vento. L’annuncio ha invaso i media di tutto il mondo: “Entro il 2035 chiuderanno 14 reattori nucleari”. Un botto, visto che la Francia dipende dall’energia nucleare più di qualsiasi altro Paese, ricavando circa tre quarti della sua elettricità da 58 reattori distribuiti in 19 centrali atomiche. Un botto subito messo in relazione alla necessità di stoppare la vicenda dei “giubbetti gialli”. Tuttavia la cronaca e le reazioni, sotto una pluralità di punti di vista, mentre ridimensionano l’annuncio lo arricchiscono di molte varianti interessanti, anche se contraddittorie.

François Hollande aveva già dichiarato che la quota di nucleare nel mix energetico del Paese sarebbe scesa dal 71% circa al 50% entro il 2025. Lo afferma Emiliano Bellini, che descrive l’iter dei governanti francesi rispetto al moloch del nucleare. Il successivo ministero per la transizione ecologica e inclusiva (macroniano) ha previsto la chiusura di sole sei centrali nucleari entro il 2028, mentre altri sei reattori nucleari verrebbero chiusi entro il 2035. In questo progetto l’obiettivo del 50% verrebbe raggiunto più tardi del previsto e, in teoria, la quota di energia nucleare potrebbe rimanere invariata fino al 2028. Si tratta dello scenario più ottimistico per lo sviluppo di energia pulita, perché invece il ministero delle Finanze (anch’esso macroniano) prevede la chiusura di nove reattori entro il 2035 e la costruzione di quattro nuovi entro il 2040. L’obiettivo del 50% sarebbe raggiunto solo entro il 2040 con un contemporaneo svecchiamento e rilancio.

Macron si è mosso tra i due ministeri, trovando una posizione di mezzo: la Francia chiuderà 14 dei 58 reattori (il 50% della potenza totale) attualmente in funzione nel Paese entro il 2035 (tra quattro e sei entro il 2030), oltre ai due della centrale di Fessenheim – la più vecchia del Paese – che cesseranno di funzionare nell’estate del 2020. L’eredità di Hollande, sposata in campagna elettorale dal nuovo presidente, viene – quatta quatta – spostata di dieci anni in avanti. Le affermazioni di contorno poi, vanno lette con cura: “Ridurre il ruolo dell’energia nucleare non significa rinunciarvi”, anche se non verrà adottata nessuna decisione immediata sulla costruzione di nuovi reattori di ultima generazione. Tuttavia le chiusure previste avranno come condizioni che “la sicurezza degli approvvigionamenti sia assicurata” e che “i vicini europei accelerino la loro transizione energetica”. Macron ritarda la riduzione della quota nucleare di un decennio, ma, altro botto, annuncia un obiettivo solare di 45 GW entro il 2030.

Bisogna riconoscere subito un’importante novità: le fonti rinnovabili previste sono sostitutive di fossili e nucleare, anche se la Francia manterrà una quota di nucleare al centro del suo sistema elettrico. Tanti sono gli spunti su cui riflettere, mentre molto del nuovo strombazzato sulla piazza ha ancora un tratto aleatorio. Su tre questioni mi voglio comunque soffermare:

1. Il nucleare che conosciamo è finito anche in Francia. I reattori invecchiano, i costi di dismissione e stoccaggio sono incomputabili, mentre il costo del kWh rinnovabile è ormai definitivamente inferiore.

2. La questione climatica comincia ad assumere contorni che pesano sul quotidiano, non solo per i danni e il degrado naturali, ma anche per i costi da sopportare nell’immediato e nel lungo periodo. Il mondo rurale che usa l’auto a caro prezzo e gli indigenti che reclamano salari e pensioni più equi sono scesi in piazza reclamando maggiore potere d’acquisto e occupazione dignitosa. Gli uni e gli altri non credono che l’odierno modello di sviluppo inalterato li porti lontano.

3. Il settore nucleare francese dispone oggi di 220mila posti di lavoro. Da qui al 2035 la metà di essi verrà riconvertita con un saldo occupazionale aggiuntivo se saranno sostituiti da efficienza e rinnovabili. Lo stesso non si può automaticamente dire dei rami manifatturieri che saranno falcidiati dai sistemi 4.0.

Arnaud Gosseement, un noto avvocato specializzato in legislazione ambientale, dopo aver apprezzato la chiusura certa di Fessenheim ai confini tedeschi, ha affermato che l’importanza degli annunci del 27 novembre è relativa, in quanto forniscono solo linee guida generali su una bozza di strategia energetica. Può darsi, ma io segnalo una discriminante rispetto al passato, dovuta ai fatti e alle novità del tempo assai più che alle furbizie politiche.

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Tap, per dire no bastava scegliere di ridurre i consumi

di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

Ci sono elementi che da sempre sono stati considerati alla base di una buona politica energetica: la diversificazione delle fonti, la riduzione della dipendenza dalle forniture estere e, nell’ambito della fornitura di fonti fossili, la diversificazione dei fornitori per non essere ostaggio di nessuno. Elementi fondamentali per un Paese come l’Italia, affamato di energia, ricca di fonti naturali, ma senza grandi giacimenti di petrolio e gas fossili. La progressiva incidenza delle Fer e la riduzione dell’intensità energetica hanno contribuito, negli ultimi anni, alla riduzione della dipendenza del nostro Paese dalle fonti di approvvigionamento estere. La quota di fabbisogno energetico nazionale soddisfatta da importazioni nette rimane elevata (pari al 76,5%) ma più bassa di circa sei punti percentuali rispetto al 2010. Quindi, generazione da Fer ed efficienza energetica sono le migliori armi per ridurre la dipendenza dall’estero e aumentare la propria indipendenza. Una considerazione banale ma troppo spesso trascurata.

Dopo un decennio di riduzione dei consumi energetici però, lo scorso anno, la domanda di energia primaria è tornata a crescere (+1,5% rispetto al 2016); e l’energia in più di cui abbiamo avuto bisogno è venuta soprattutto dal gas, il cui contributo al bilancio energetico nazionale è salito al 36,2%. 

Le rinnovabili, come segnalato in precedenti post, continuano a essere stazionarie, nel 2017 segnano un lievissimo aumento passando dal 19,1% al 19,2% del bilancio energetico nazionale, il resto è fossile. Di conseguenza, aumentando la domanda e non aumentando proporzionatamente le fonti Fer, il nostro grado di dipendenza dall’estero, è peggiorato.

Ma torniamo al gas. Nel 2017 la domanda di gas naturale è stata pari a 75,2 miliardi di metri cubi, con una crescita di circa 4,3 miliardi (+6,0%) rispetto ai 70,9 miliardi del 2016. Tale domanda è stata coperta per il 7% dalla produzione nazionale e per il 93% attraverso l’importazione. In particolare, la produzione nazionale di gas naturale è stata pari a 5,5 miliardi di metri cubi in riduzione del 4,3% rispetto al 2016, l’importazione è stata pari a 69,7 miliardi di metri cubi con un incremento del 6,7% rispetto al 2016. L’unico dato positivo da segnalare è che circa 9 milioni di metri cubi di gas sono stati prodotti dall’impianto di biometano di Montello (Bg).

Le importazioni via gasdotto sono state pari a 61 miliardi di metri cubi, ma dai nostri “tubi” con l’estero abbiamo una capacità di import pari a circa 114 miliardi di mc l’anno (Fonte Mise). Quindi molto più che sufficienti. Da dove è venuto l’aumento dei consumi? Soprattutto dalle centrali termoelettriche (2,5 miliardi di metri cubi in più (+10,5%). Quindi in sintesi la nostra scelta è di bruciare più gas per fare elettricità, piuttosto che installare più pannelli solari o pale eoliche. Questo dicono i numeri. Da quattro anni il numero dei nuovi pannelli installati è sufficiente solo a compensare il degrado di quelli installati dieci anni fa, mentre per centrare i target Ue al 2030 si dovrebbero installare in media 4 Gw di nuovi impianti all’anno, contro i 0,4 (400 Mw) che installiamo.

La scelta fossile è esplicitata dalle politiche: l’ok al Tap, anche da parte di chi lo ha sempre contestato a fronte di nessuna misura di incentivazione alle fonti rinnovabili è un messaggio chiaro. Dall’inizio di questa legislatura energia e clima sono sparite dal dibattito politico, azzerate. Eppure, per dire no al Tap non serviva alcuna analisi, bastava scegliere di ridurre i consumi decidendo di fare elettricità con sole, vento e terra. Se oggi abbiamo capacità di import pari quasi al doppio dei consumi basta decidere di non farli aumentare di più scegliendo di portare avanti quella rivoluzione energetica che il nostro Paese aveva iniziato anni fa, lasciandola poi languire negli ultimi anni. Ma, soprattutto, serviva scegliere di proteggere il clima, di far qualcosa non solo propagandistico di fronte alle coste devastate della Liguria o ai milioni di alberi morti nel bellunese o ai morti in Sicilia nell’ondata di maltempo che ha violentato alcune nostre terre.

Anche perché il metano è una delle molecole più climalteranti, molto peggio della CO2; l’Ipcc stima che sia responsabile del 20% del riscaldamento climatico e studi pubblicati anche sul prestigioso Nature hanno rivelato che il 2,3% del metano estratto riesce a “scappare” in atmosfera. Investire nel clima sarebbe stata l’occasione anche per investire soldi generando lavoro (in un anno “scarso” come il 2017 si stima comunque che alle attività legate alla realizzazione e gestione di nuovi impianti alimentati da Fer siano corrisposte circa 70mila unità di lavoro permanenti e 44mila temporanee), riducendo l’inquinamento dell’aria, avviando finalmente anche nel nostro Paese lo sviluppo della mobilità elettrica che deve andare di pari passo con l’aumento della generazione da fonti rinnovabili perché ne è complementare.

Il nostro è uno dei Paesi col più alto tasso di motorizzazione, cioè col rapporto più alto fra cittadini e numero di automobili: 62,4 auto ogni 100 abitanti, dato che ci pone al sesto posto della classifica mondiale. Quindi tanto lavoro da fare. Nei primi 10 mesi dell’anno sono state immatricolate 1.649.678 automobili, di cui elettriche pure solo 4.167, +150% rispetto al corrispondente periodo dello scorso anno ma comunque pari allo 0,3% del totale. Il precedente ministro delle attività produttive aveva annunciato un milione di auto elettriche entro il 2022. Ma rimane un annuncio, che nemmeno l’attuale ministro ha in qualche modo ripreso, mentre resta al palo la creazione di una rete nazionale di colonnine di ricarica, nelle mani al più delle iniziative delle singole imprese elettriche, che guardano al di là del naso del trio di governanti intenti a litigare e riappacificarsi subito dopo con grande dispendio di energia.

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Cambiamenti climatici: gli scienziati mandano un messaggio terribile, ma i governi non ascoltano

Non ha trovato molto spazio sui mass media la notizia della pubblicazione (l’8 ottobre scorso) della Sintesi per Decisori Politici dello Special Report on Global Warming of 1,5 °C, che costituirà il riferimento scientifico per la Conferenza delle Parti (Cop24) della Convenzione quadro dell’Onu sui Cambiamenti Climatici (Unfccc), che avrà luogo in Polonia il mese prossimo (Katowice, 2-13 dicembre 2018).

L’aumento di temperatura dovuto all’azione antropogena sarà duraturo e non uniforme sulla Terra: in effetti durerà per secoli (per la stabilità della CO2) e continuerà a causare ulteriori cambiamenti nel sistema climatico anche a lungo termine. D’altra parte, un riscaldamento superiore alla media annuale globale viene già ora sperimentato in molte regioni della terra e in diverse stagioni, in particolare nell’Artico. Il riscaldamento è generalmente più alto sui continenti che sui mari e purtroppo si registra con più intensità in regioni terrestri molto abitate e in genere assai povere.

Agli scienziati che per conto della Nazioni Unite seguono le vicende dei cambiamenti climatici, era stata chiesta un’analisi sulle reali possibilità di contenere l’innalzamento della temperatura globale al di sotto dei 2 gradi (rispetto ai livelli preindustriali), limitando l’aumento a 1,5 °C. Le loro conclusioni sono allarmanti. Si stima che le attività umane abbiano già causato circa +1,0 °C di riscaldamento globale. Se la temperatura continuasse ad aumentare al ritmo attuale, con un andamento che dal 2000 non è ormai più lineare, è probabile che si raggiungano +1,5 °C tra il 2030 e il 2052. L’inquietudine degli scienziati si manifesta nel monito che un aumento dagli effetti irrimediabili può essere evitato solo se le emissioni globali di CO2 iniziano a diminuire ben prima del 2030, cosa del tutto improbabile.

Lo studio compara i risultati a +2 °C con quelli auspicati di mezzo grado in meno. Ad esempio, entro il 2100 la crescita media su scala globale del livello del mare sarebbe più bassa di 10 cm. Un ritmo più lento di innalzamento del livello del mare consente maggiori opportunità di adattamento nei sistemi umani ed ecologici nelle piccole isole, nelle zone costiere basse e nei delta (Venezia e Aquileia). Le barriere coralline con un aumento di 1,5, diminuirebbero del 70-90%, mentre con 2 °C se ne perderebbe praticamente la totalità (oltre il 99%) e si registrerebbe la scomparsa di un numero elevato di ecosistemi. I rischi legati al clima per i sistemi naturali e umani diventerebbero più elevati e differenti da luogo a luogo. Con dettagli e grafici, il report dimostra che il problema del cambiamento climatico ha una relazione diretta con migrazioni e povertà, mentre suggerisce vivamente politiche di transizione rapide e di vasta portata nel sistema energetico e nell’agricoltura oltre a una particolare attenzione a città, infrastrutture (incluso trasporti ed edifici) e sistemi industriali (economia ciclica).

Le transizioni di sistema che vengono richieste sono senza precedenti in termini di scala e implicano riduzioni delle emissioni in tutti i settori, un ampio portafoglio di opzioni di mitigazione e un significativo spostamento degli investimenti su opzioni ambientali.

In Italia la situazione è di stasi totale: tutto fermo nella decarbonizzazione del sistema energetico; si vive della rendita del boom del solare del 2011 (governo Berlusconi IV) e su quella scia si sono raggiunti con cinque anni di anticipo i target europei del 2020. Ma quelli stabiliti per il 2030 al momento rimangono una chimera. Lo continuano a ricordare i rapporti trimestrali dell’Enea. Il terzo del 2018 ribadisce che per il quarto anno consecutivo, la quota di Fer sui consumi finali potrebbe perfino ridursi, continuando ad oscillare intorno al 17,5% raggiunto nel 2015. Rimaniamo inchiodati a quell’anno. Secondo le elaborazioni dell’osservatorio Fer (su dati Terna) la nuova potenza eolica, fotovoltaica e idroelettrica connessa nei primi sei mesi del 2018 è stata pari a 334 MW, una variazione inferiore del 39% rispetto ai 551 MW installati nella prima metà del 2017.

Quello che si registra di nuovo è solo l’ok al gasdotto TAP, quindi un atto perfettamente in linea con le linee pro-gas di tutti i precedenti esecutivi (in un nostro precedente post abbiamo parlato della necessità di ribaltare quella decisione nonostante le tonnellate di dichiarazioni contrarie).

Salvini aveva commentato che col nuovo gasdotto le bollette degli italiani sarebbero state meno care. In verità il prezzo del gas è aumentato di parecchio quest’anno e di conseguenza anche quello dell’elettricità perché “a fare” il prezzo dell’elettricità è ancora il gas, essendo oggi in Italia il re della generazione. A settembre il prezzo dell’energia in borsa (il Pun) ha toccato i massimi da ottobre 2012, salendo a 76,32 €/MWh, più che doppio rispetto ad un anno fa (+57,0%.)

Il Rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia sugli investimenti energetici globali ha confermato che tutto il mondo procede a un passo che non permetterà di raggiungere gli obiettivi energetici e climatici, fissati dall’Agenda Onu 2030 e dall’Accordo di Parigi. Gli investimenti globali combinati nelle energie rinnovabili e nell’efficienza energetica sono diminuiti del 3% nel 2017, quelli nelle energie rinnovabili, che rappresentano i due terzi delle spese per la produzione di energia elettrica, sono addirittura calati del 7%.

Terribile che gli investimenti delle imprese di proprietà statale siano rimaste più legate a petrolio e gas e alla produzione di energia termica di quanto non lo siano state le imprese private. È la discesa dei costi del fotovoltaico passati dai 72$ per MWh dell’asta 2014 in Brasile ai soli 18$ dell’asta 2017 in Arabia Saudita a rendere il fotovoltaico competitivo e “amato” dalle utility: è il fatto che col vento e col sole il ritorno degli investimenti è semplicemente più rapido rispetto alle fossili.

Agire dunque per evitare il peggio, questo è il messaggio inascoltato che viene dagli scienziati dell’Unfccc. Messaggio terribile, da recepire in un mondo di irresponsabili e dilettanti al potere, inebriati dal fatto che non si raccolgono voti praticando responsabilità e visione del futuro.

Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

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Tap, quanto conviene costruire un gasdotto che nasce obsoleto?

Se si vuole riconquistare il cuore delle persone e una coscienza collettiva responsabile, non si può nello stesso giorno titolare le prime pagine con il disappunto per le devastazioni climatiche e sferrare attacchi violenti a chi si oppone all’approdo di un ulteriore gasdotto sulla Penisola, oltre i sei già attivi. Bloccare la Tap riguarda una questione non certo locale, ma un passaggio essenziale della strategia energetica futura del Paese. Alle argomentazioni nettamente contrarie alla decisione del governo, che con forza sono state già evidenziate in molti interventi (per tutte si vedano i documenti riportati in questi giorni dal sito www.labottegadelbarbieri.org) e che vengono da tempo articolate in numerosissime prese di posizione di comitati, associazioni e movimenti, voglio aggiungere qui tre ordini di riflessioni che espongono a verifica a tutto campo la marcia indietro dei 5Stelle.

Clima, Tap e transizione energetica

La transizione energetica già in rapido movimento, certamente limiterà i combustibili fossili. L’obiettivo dell’Accordo di Parigi 2015, concordato da oltre 200 nazioni indipendenti sul pianeta, è di mantenere il riscaldamento globale sotto i 2°C. Se la società lo farà, la maggior parte delle riserve di combustibili fossili dovranno rimanere sottoterra, incombuste. In particolare, le raccomandazioni della TCFD (la task force sulle informazioni finanziarie relative al clima, presieduta da Bloomberg, non certo un “sognatore”) mirano a offrire agli investitori, ai finanziatori e agli assicuratori visibilità su come il rischio di cambiamento climatico interesserà le singole imprese e una tabella di marcia alternativa a quella delle lobbies energetiche meno previdenti. Le aziende dovrebbero allineare i loro modelli di business ad un futuro al di sotto di 2°C. Dal momento che le aziende stesse considerano tutte le loro riserve come aventi un valore finanziario, devono contare su riserve che minimizzano l’alterazione del clima e, di conseguenza, non investire denaro in una risorsa che non si può “realizzare” in quanto potenzialmente incombusta. In caso contrario il rischio sarebbe di contribuire a creare una “bolla di carbonio”.

I governi dovrebbero fare ciò che hanno promesso di fare a Parigi anche solo per il buon andamento delle loro imprese e per una sana finanza globale. Gli stessi operatori del settore se ne preoccupano. In merito al futuro a medio termine del gas, Francesco Starace, amministratore delegato di Enel e presidente di Eurelectric, la federazione europea per l’elettricità, intervistato da Euractiv, ha affermato di pensare al gas solo come sostegno residuo alla transizione dei prossimi venti anni e ha aggiunto di essere addirittura perplesso sulla convenienza della costruzione di una nuova centrale a gas dato che “anche molte aziende non lo fanno”. “Penso – ha riflettuto nella conversazione – che l’industria abbia perso un po’ di tempo nel tentativo di resistere a ciò che è successo nella tecnologia e nel negare ciò che è accaduto nell’ambiente. Dobbiamo recuperare il tempo perso, visto che abbiamo finalmente una comprensione piena delle sfide”. Non certo – dico io – importando con la Tap dall’Arzebajan ulteriori 10 miliardi di metri cubi di gas dal 2020 per poi passare a 20, sapendo che quei giacimenti nel 2023 saranno in declino e che le rinnovabili saranno sempre più economiche.

Costi attuali e previsioni per il futuro

L’analisi del costo medio di nuova energia eolica e solare in 58 economie dei mercati emergenti – tra cui Cina, India e Brasile – dimostra che l’energia solare dallo scorso anno, per la prima volta, sta definitivamente e stabilmente diventando la forma più economica di elettricità nuova (v. Bloomberg, 18 dicembre, 2017). Di conseguenza, l’intera categoria di utilizzo del petrolio si sposterà dal mercato globale entro dieci anni. Si sta fuggendo dai combustibili fossili proprio come le industrie dei combustibili fossili manovrano i loro cappi alla Casa Bianca e contano sul gas come mantenimento di un sistema in crisi. Le ragioni si spiegano: non esiste una progettazione di mercato in grado di proteggere un’installazione obsoleta o una tecnologia che incomincia a non funzionare. Pertanto, oltre ai costi di una riconversione di filiera (che andranno indirizzati ad un futuro che garantisce occupazione, decarbonizzazione e riduzione “ vera” delle tariffe e delle bollette) e alle eventuali penali di dismissione (tutte da vedere e in capo ad un procedimento di arbitrato internazionale dove gli interessi sociali e le motivazioni, in particolare quelle climatico-ambientali, dovrebbero confluire) bisognerà considerare che l’Europa ha fissato per il 2050 al massimo la “carbon neutrality”, che comporta che ogni installazione fossile vada commisurata alla vita residua e, possibilmente, sostituita in risparmio o rinnovabili. E’ allora ancora necessario e conveniente un gasdotto nuovo per soddisfare adesso equilibri geopolitici e interessi di nuovi fornitori?

Se la geopolitica sovrasta la biosfera

Le ragioni di natura geopolitica, molto spesso, tendono a cedere il passo ad altri criteri come la posizione geografica dei fornitori, la stabilità politica e le disponibilità degli acquirenti. In Europa il problema più acuto rimane il passaggio o meno dei tubi dall’Ucraina. Politici di grande fama internazionale, a fine carriera hanno fatto da tramite per gli interessi dei due grandi contendenti del gas: Russia (esportatore) e America (ormai produttore). Brezinsky e Kissinger per le condotte dall’Azerbajan, Shröder per il gasdotto del Baltico, Blair per la Tap, hanno assunto responsabilità dirette e ben retribuite ai fini della realizzazione delle condotte fossili. In particolare, Blair, il lobbista ingaggiato dal consorzio che cura l’approdo in Puglia, ha incontrato Salvini il 4 settembre a Roma, sapendo che – a dispetto dei diversi trascorsi politici – incontrava l’interlocutore più forte del governo, che avrebbe fatto capitolare Di Maio come avvenuto. Geopolitica contro biosfera e benessere dei cittadini e al diavolo il sovranismo. Salvini, da par suo, ha dichiarato che “si tratta di spostare quattro piante”. Davvero?

L’articolo Tap, quanto conviene costruire un gasdotto che nasce obsoleto? proviene da Il Fatto Quotidiano.

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