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Idrogeno e rinnovabili al posto del carbone a Civitavecchia?

Mentre le forze di maggioranza hanno scelto proprio la Giornata Mondiale dell’Ambiente per bocciare la mozione sull’emergenza climatica, che avrebbe dato accesso a quasi 50 miliardi tra contributi europei e fondi nazionali per fronteggiare sia le misure di adattamento che quelle di mitigazione del caos climatico nel nostro Paese, la Ue stimava il costo di un mancato adattamento tra i 100 miliardi di euro all’anno nel 2020 e 250 miliardi nel 2050, senza tenere in conto i costi sociali derivanti dagli eventi estremi. Pertanto, esigeva risposte urgenti ed adeguate da approvare nei piani nazionali da adottare. Il governo dei “litiganti per finta, ma negazionista per davvero”, non tiene in nessun conto l’emergenza climatica, dato che lucra già abbastanza voti e consensi dalle paure che una criminalità efferata e una invasione inarrestabile dei migranti stillano quotidianamente nelle “pance” degli italiani. Ma sul clima e sui fossili è difficile glissare.

Così capita che a Civitavecchia, nella città del carbone, la Lega si metta il vestito ambientalista e alle amministrative batta un Pd piuttosto ambiguo sul destino della centrale Enel. Senonché, appena eletto, il neosindaco del Carroccio, Ernesto Tedesco, si sente dire dal suo capo Salvini che “è finito il tempo dei ‘no’ a tutto” e che “con i soli ‘no’ non si campa”, ponendosi così in linea con i piani di phase-out dell’Enel che, nei siti di La Spezia, Fusina, Brindisi e Civitavecchia, vuole sostituire il carbone con il metano.

Con questi presupposti, il “polo delle rinnovabili dal 2025” di cui la nuova maggioranza ha parlato in campagna elettorale non si farà, a meno che la nascita e l’ottimo lavoro svolto da un Comitato locale che da No Carbone si è trasformato in “No al metano Si alle rinnovabili” mobiliti i cittadini e raccolga suggerimenti e conoscenze per dar vita ad un piano energetico territoriale sostitutivo del carbone.

Trovo di grande interesse, anche per il possibile coinvolgimento degli “studenti di Greta”, che laddove si aprano spazi per la riconversione ecologica, le forze che democraticamente vogliono riappropriarsi del territorio e stabilire attraverso la sua cura l’occasione per un miglioramento della vita, entrino in gioco per proporre una piena e stabile occupazione, una salubrità dell’aria, la vivibilità dei territori. Altro che patti Salvini-Blair per agganciare tubi di gasdotti come il Tap sulle nostre coste!

A questo proposito si è aperta in rete una discussione sul ricorso all’idrogeno per una alternativa alla combustione del carbone sulla costa tirrenica. Mi sono occupato a lungo di ricerca sulle celle a combustibile e sul ricorso all’idrogeno nel campo della mobilità e ne ho scritto nel mio primo blog sul fattoquotidiano.it.

Non avrebbe senso produrre energia con elettrolisi dell’acqua dal mare, nonostante i progressi avvenuti anche in questo campo. L’idrogeno, come vettore energetico, ha senso solo se prodotto con energie rinnovabili e assolutamente pulite (fotovoltaico e eolico), nella funzione di serbatoio dell’eccesso di energia accumulata cui ricorrere quando non c’è né sole né vento. Un serbatoio da trasformare in energia con buon rendimento attraverso celle a combustibile, molto interessanti per abitazioni o veicoli. Le reti intelligenti da porre in atto sul territorio dove insisteva la centrale fossile, potrebbero essere integrate con “accumuli di idrogeno” ottenuto quando c’è sovrapproduzione, per fare da compensatori negli scambi in rete di energia elettrica prodotta e consumata con fonti rinnovabili e in modalità cooperative. Ovviamente il sistema di fonti rinnovabili dovrebbe essere interamente dedicato e interamente integrato al sistema di consumi elettrici che “si appoggia” all’idrogeno da utilizzare come vettore.

Vanno certamente superati una serie di problemi di sicurezza e si potrebbe, nella fase di transizione, anche ricorrere all’idrometano, ovvero una miscela di idrogeno e metano fossile o bio che sia, che utilizza le linee già esistenti del metano per trasportarlo fino agli utenti finali. L’idrogeno ottenuto da rinnovabili che alimenta celle a combustibile è una buona soluzione già oggi per abitazioni e veicoli, se non fosse che il mercato vuole mantenere la prevalenza di un controllo centralizzato di tutto il settore energetico.

In Germania, con la carica di idrogeno pronto dall’esterno, sono in fase di sperimentazione alcuni treni su alcune tratte locali e l’industria dell’auto, oltre all’elettrico a pile, pensa seriamente all’idrogeno per motori elettrici e non termici. In Svezia stanno entrando in funzione stazioni di rifornimento di idrogeno solare per autoveicoli elettrici a idrogeno.

La partita è aperta e tocca enormi interessi. La mia esperienza dice che il cambiamento non viene dai cartelli dei produttori di veicoli o dalle corporation dei fossili, ma dall’attenzione delle popolazioni al loro futuro e alla salute dei loro figli. Ben venga quindi la discussione sulla eliminazione del carbone a Civitavecchia e non ci si fidi di amministratori pronti a rispondere ai richiami dall’alto anziché ai loro elettori. E benvenuto agli studenti di Fridays for Future, che in questa partita avranno molto da giocare.

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A Civitavecchia un comitato si batte per chiudere col carbone senza tuffarsi nel gas

Mario Silvestri racconta un episodio che svela la furbizia della classe dirigente quando è messa di fronte a decisioni ineludibili, in cui si affanna a salvare capra e cavoli. Eravamo nel 1957, ed era in palio il lancio del nucleare in Italia. Ad una riunione ufficiale negli States viene chiesto al professor Medi, alto funzionario del Ministero, “lei inclina verso i reattori ad uranio naturale o verso quelli ad uranio arricchito?”. Dopo un minuto di silenzio, Medi pronunciò la sua sentenza: «Enriched» (arricchito; ndr). Ma la domanda era precisa: “Quanto?”. Ed in un soffio venne la risposta: «Just a bit» (un pochino; nda).

L’aneddoto si ripropone a proposito della dismissione del carbone alla centrale di Civitavecchia. La SEN emanata nel 2017 dal governo Gentiloni prevedeva la dismissione di tutti gli impianti di produzione di energia dal carbone entro il 2025. L’ad di Enel, Storace, aggiungeva che Enel Green Power sarebbe stata in grado di installare 2500 Megawatt di rinnovabili all’anno per raggiungere il target di 0 emissioni di CO2 con 10 anni di anticipo rispetto all’obiettivo previsto dall’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. Ma nella campagna elettorale in corso, a Civitavecchia i candidati sindaci e i loro referenti al governo fanno un po’ come Medi 15 lustri fa, farfugliando promesse – un “pochino” di gas al posto del carbone – che, sul litorale tirrenico, si può temere siano “da marinaio”.

Proprio perciò si è costituito il 17 marzo in una affollata assemblea cui ho partecipato un comitato per NO al carbone e No alle fonti fossili, che spiazza completamente le offerte di Enel di chiudere col carbone magari al 2025 (cosa peraltro buona e auspicabile) per sostituire però l’offerta di potenza elettrica con un po’ di MW a gas fossile. Dietro al vago “just a bit”, c’è qualcosa di ben più corposo: l’approdo di navi metaniere al porto di Civitavecchia, la giustificazione della Tap in Puglia, la prospettiva di non rendere sostitutive ai fossili le energie rinnovabili e di non attivare un sistema decentrato al posto di quello centralizzato del petrolio, del carbone ed ora del gas.

L’assemblea di Civitavecchia è stata chiarissima nel definire i suoi obiettivi: salute (In Europa si stima che solo gli impatti sanitari connessi alla combustione del carbone costano 62 miliari di euro all’anno) come aspetto primario per chi vive nella bellissima area litorale e marina (siti archeologici, agricoltori, operatori turistici, operatori dell’energia, pescatori e pesci compresi) e nuova occupazione nelle fonti rinnovabili distribuite, aggregabili in forme di proprietà cooperativa, sviluppate con il sostegno di centri di ricerca e di nuove professionalità qualificate e stabili, collegate attraverso lo sviluppo delle reti intelligenti per l’innovazione e per i nuovi servizi ai clienti. Per il comitato dovrà esserci un immediato anche se graduale passaggio tra la produzione di energia elettrica avvenuta per decenni in modo tradizionale e l’impegno dell’Enel e del governo alla bonifica, a mantenere in loco siti per la ricerca e per la produzione ad impatto ambientale pari a zero, con un saldo occupazionale positivo. Il phase out dal carbone va quindi accompagnato non solo dall’esclusione di un intermezzo riservato al gas, ma anche da un’ampia riconversione delle attività portuali, della mobilità e da piani industriali inquadrati un piano energetico per la città che ancor oggi non è mai stato presentato.

D’altra parte, appare anche dal punto di vista economico azzardata l’insistenza su fonti fossili in un sito già provato da pesante degrado. Alla fine del 2017, la Banca Mondiale ha annunciato che non finanzierà più la prospezione e la produzione di petrolio e gas dopo il 2019 e che la promozione di sistemi di energia rinnovabile decentralizzati sarà al centro della sua strategia energetica. E sono molteplici le iniziative di “disinvestimento fossile”, annunciate a più riprese da banche, gestori di fondi, multinazionali, governi locali, con cui abbandonare progressivamente quei settori industriali maggiormente esposti alla perdita futura di remunerazione.

Lo stesso Comitato di Civitavecchia ha colto come il tema dei posti di lavoro come effetto della riconversione non possa essere eluso. Lo slogan coniato è: “I lavoratori vogliono essere al tavolo e non nel menù”, poiché si tratta di “fare la transizione con la gente, non contro la gente”. E le soluzioni ci sono: efficienza energetica; diffusione delle energie rinnovabili; mobilità pulita, sicura e connessa; competitività industriale e economia circolare; infrastrutture e interconnessioni; bioeconomia.

Questa battaglia va unificata con quella per rilanciare le rinnovabili. Secondo Legambiente per la prima volta dopo 12 anni nel 2018 in Italia è calata la crescita di energia pulita, prodotta da solare, eolico, bioenergie, e procedono a passo lento anche gli investimenti nel settore. Tutto ciò mette a rischio gli obiettivi al 2030 per il nostro Paese che, paradossalmente, si conferma tra le nazioni con le maggiori opportunità sul fronte delle rinnovabili grazie a risorse fossil-free diffuse e differenti da nord a sud. Questo è un pessimo segnale per il governo gialloverde, oltremodo litigioso su tutto e rivolto nelle sue dispute ben lontano dall’ansia con cui scenderanno in manifestazione il 24 maggio gli studenti di tutto il pianeta.

Confortati non dai governi, ma – si rifletta su questo – dalle inedite dispute all’ordine del giorno delle assemblee degli azionisti delle società energetiche. Greenpeace ha svolto manifestazioni davanti ai Lloyds di Trieste ed ha così monopolizzato anche gli scambi tra la dirigenza e gli azionisti di Generali preoccupati degli investimenti nei fossili. Non solo quelli tradizionalmente critici, perché a porre domande sul modus operandi del Leone di Trieste in relazione al global warming sono stati anche una mezza dozzina di azionisti “ordinari”. Durante poi l’Assemblea degli azionisti Enel, Re:Common ha ottenuto che il governo italiano si sieda ad un tavolo per negoziare dettagli concreti per rendere concreta la fase di dismissione del carbone, in particolare per quanto riguarda i due principali impianti che la compagnia ha, per una produzione totale di 4,5 GW, a Brindisi Sud e a Torrevaldaliga Nord (Civitavecchia). Ci sono timori che l’Enel non sia soltanto alla ricerca di una deroga, ma, sulla base dell’approccio già impiegato dalla tedesca RWE, stia utilizzando tali negoziati per chiedere alcune compensazioni. E’ evidente come l’eliminazione degli impianti a carbone sia materia altamente conflittuale: la trasformazione di queste impianti in nuove centrali a gas appare come un escamotage per vanificare il protagonismo e la presa di coscienza di studenti, lavoratori e cittadini in una fase di acuta crisi dell’intero pianeta.

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Casal Bruciato e la città di Roma alla prova del clima

Il recentissimo Rapporto del WWF e Global Footprint Network calcola che il 10 maggio 2019 sarà l’Overshoot Day per l’Europa: la data entro la quale, considerato il nostro stile di vita, i cittadini e le cittadine europee possono considerare di aver esaurito il budget di natura a loro disposizione.

Bisogna ricordare, infatti, che nonostante la popolazione europea rappresenti solo il 7% di quella globale, l’Unione Europea usa il 20% della biocapacità (la capacità degli ecosistemi di rinnovarsi) del pianeta. Per l’Italia, nonostante la profonda crisi della nostra economia dal 2008 in poi e la recente recessione, l’Overshoot Day cadrà soli 5 giorni dopo, il 15 maggio. Bisognerebbe ricordarsene nella campagna elettorale in corso, straziata dal dramma dei migranti e da un razzismo bieco che servono solo a distrarre dalle vere emergenze su cui cittadini e governi si devono confrontare.

Partiamo dalle immagini che riempiono ossessivamente i nostri schermi. Gli africani, bersagli di una accanita esclusione, sono responsabili solo del 3% delle emissioni climalteranti, ma stanno pagando con le desertificazioni il prezzo maggiore. I quartieri delle città, sedi di azioni violente contro gli “stranieri”, sembrano avamposti di lontane guerre tra civiltà, pur essendo, come Casal Bruciato, dentro una Roma sfilacciata e spesso abbandonata a se stessa. Ma se si guarda ai moli di approdo dei barconi in porti dotati di tutte le più aggiornate tecnologie o al quartiere romano, venendo dal centro e passando dall’ipermoderna stazione Tiburtina, si ha l’impressione di trovarsi nel cuore vitale di un Paese caotico ma in movimento, purtroppo frenato da false paure e dalla rimozione del futuro reale, previsto, accertato.

Mi sono chiesto, ad esempio, ma cosa pensa Roma – nelle sue istituzioni, tra i suoi abitanti, nell’impegno delle sue università, nella coscienza dei suoi studenti – del cambiamento climatico che la riguarda già ora? Ed ho trovato riscontro in un eccellente studio di Pierluigi Albini cui credo utile fare riferimento, per capire a quali sfide (non solo paure!) siamo sottoposti nel concreto. Non si prende mai in considerazione l’emergenza climatica come perno necessario di un insieme di competenze progettuali e di decisioni politico-amministrative in grado di pensare delle città a prova di clima. Oggi il nesso clima-urbanistica è diventato una questione di vita o di morte e da qui la necessità di applicare nella pianificazione (leggasi Piani Regolatori Generali e decisioni urbanistiche) la valutazione dei servizi ecosistemici come parte essenziale di una lotta di contrasto al cambiamento climatico.

E decisivo è intervenire sulla struttura delle aree urbane che oggi ospitano più della metà della popolazione mondiale, generando circa l’80% dell’economia mondiale e oltre il 70% del consumo energetico globale e dell’energia correlata alle emissioni. Secondo l’International Panel on Climate Change (IPCC), l’urbanizzazione incide per tre quarti dell’inquinamento del pianeta: tra il 71 e il 76% delle emissioni di CO2, secondo altre fonti per l’80%. Dunque, la questione delle città, della loro configurazione e del loro sviluppo è una questione centrale per una politica di contrasto climatico.

Roma, con i suoi quasi 3 milioni di residenti nel territorio comunale e con i 4,4 milioni della Città metropolitana, produce emissioni da fonti plurime ben superiori alla media nazionale per cittadino e produce più di 2,3 milioni di tonnellate di rifiuti urbani per la sola città di Roma, di cui sono note le assurde vicende. L’esaltazione delle soluzioni tecnologiche come soluzioni miracolistiche dei problemi lascia il tempo che trova: anche nelle Smart city il fattore umano rimane l’asse centrale, specialmente nelle città e non una variabile indipendente.

La città virtuosa, ovvero in grado di ridurre l’impatto ambientale delle proprie attività, che sa muoversi, ottimizzando i sistemi di trasporto e le reti di collegamento, ma anche la città che sa non muoversi (utilizzando servizi ICT), la città viva e dinamica, informata, con una diffusione capillare e comprensibile delle informazioni in grado di generare nuove attività, la città partecipata, che genera nuove forme di partecipazione, come la gestione dei Beni comuni e l’urbanistica “dal basso”, la città sicura, con soluzioni innovative di sorveglianza del territorio e di assistenza ai cittadini, la città ben governata, con un decentramento radicale delle funzioni pubbliche. la città abitabile, nel senso di una calmierazione dei valori fondiari e di una reale applicazione del diritto alla casa, ovvero all’abitare: ecco quel che ci meritiamo e quel che occorre, come spiega l’autore del saggio citato.

Non sembra che qualcuna di queste direttrici sia in corso di applicazione a Roma, che, tra l’altro è anche il più grande comune agricolo d’Europa con i suoi 50 mila ettari coltivati. La grande estensione, anche verde, del territorio romano potrebbe dunque svolgere una funzione importante nelle politiche di mitigazione del clima, se e solo se, si adottasse una svolta radicale, anche culturale, nelle politiche urbanistiche e di governo del territorio, vincendo resistenze e deformazioni cuturali e non facendo più prevalere interessi privati e speculativi sulla vita dei cittadini attuali e futuri

Senza sollevare qui questioni di portata globale, è ancora possibile ridurre l’ampiezza, l’incidenza e la velocità del cambiamento su scala locale, contrastandone gli effetti e costruendo delle “città a prova di clima”, meno vulnerabili. Roma ne è una prova documentata e le soluzioni, a partire dal documento citato, sono a portata di mano. Purché non si disperdano le energie umane, civili e naturali in scontri irreparabili, che ci separano dalla convivenza e dalla partecipazione. Questo è, a mio parere, il portato terribile e temibile della involuzione a destra in atto in tutto il Paese e che va contrastata con la straordinaria ripresa di un tessuto democratico e partecipato messo in pericolo.

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Dove era l’Italia quando a Washington si prendevano impegni sul clima?

A metà aprile si è svolta a Washington una riunione dei ministri delle Finanze di 26 paesi per lanciare una coalizione volta a promuovere una azione collettiva sui cambiamenti climatici. L’iniziativa, che ha preso il nome di “Coalizione mondiale dei ministri delle finanze per l’azione per il clima”, era stata lanciata a febbraio ad Helsinky dai governi dei paesi nordici per promuovere le azioni di pertinenza nazionali sul clima, in particolare attraverso la politica fiscale e l’uso delle finanze pubbliche. Come ormai è d’abitudine, a riunioni internazionali orientate a cooperazione e ad impegni condivisi per affrontare le emergenze, non era presente l’Italia. Dopo l’assenza dalla conferenza di Marrakesh sui rifugiati e il voto contrario in sede Onu sulla dichiarazione di illegalità del possesso di armi nucleari, di nuovo il nostro Paese ha seguito la strategia dei sovranisti guidati da Bannon in Europa e da Trump nelle due Americhe. Anche questa volta si trattava di promuovere politiche internazionali non aggressive e ispirate a solidarietà, ma noi eravamo assenti.

Non c’è giornale, o rivista o TG nazionale che abbia dato notizia che quella convenzione ha rappresentato l’unico atto intergovernativo politicamente impegnativo dopo l’allarme sollevato da Greta Thunberg e dagli studenti di Fridayforfuture. E non si trattava di un consesso clandestino di ambientalisti visionari, ma addirittura – e a sorpresa – di un evento organizzato dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario, allarmati per il collasso climatico in corso.

La partecipazione e l’adesione al documento finale di Austria, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Norvegia, Spagna, Svezia, Gran Bretagna e altri 14 Paesi pone un duplice problema: da che parte sta il governo gialloverde sul rispetto degli accordi di Parigi? E, inoltre, cosa intende fare per una urgente decarbonizzazione ed una conseguente riconversione ecologica dell’economia? Tutta la campagna elettorale e le apparizioni del trio di governo parlano d’altro: della difesa dei corrotti, delle coperture a CasaPound, della paura di migranti che vanno lasciati a morire, ma mai del futuro delle stesse generazioni che dovrebbero andarli a votare. E c’è una certa complicità della stampa se i nostri schermi, smartphone e giornali del mattino non fanno mai cenno al tempo che viene a mancare, mentre ci rimpinziamo di tweet e aggressioni verbali sparati al mattino e dimenticati la sera.

Vediamo allora di riempire questi vuoti dando notizia di un avvenimento, perfino moderato, ma talmente responsabile da non poter essere saltato nell’agenda politica di un governo di un Paese ancora rilevante sul piano mondiale

Con i ministri delle Finanze, invitati d’obbligo, a Washington dal 19 al 25 aprile hanno partecipato 2.800 delegati di paesi da tutto il mondo, 350 rappresentanti delle organizzazioni di osservatori e 800 membri della stampa e circa 550 membri della società civile. A conclusione dei lavori è stata lanciata una agenda di impegni in cui si riconosce che “il cambiamento climatico rappresenta una minaccia significativa per le nostre economie, società e ambienti, compresi i rischi per la crescita economica e la stabilità macroeconomica, e che è urgente accelerare l’azione per prevenirlo”. I titolari delle Finanze puntano ad accelerare una transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio e resiliente ai cambiamenti climatici e in particolare per: 1) Stabilire una tassa sulle emissioni di biossido di carbonio o altri gas a effetto serra, onde favorire il risparmio energetico e la diffusione di tecnologie a basse emissioni di carbonio. 2) Ricorrere a carburanti alternativi e disincentivare l’uso di carburanti fossili. 3) Ridurre o eliminare i sussidi per i carburanti fossili. 4) Indirizzare e favorire gli investimenti e lo sviluppo di un settore finanziario che supporti la mitigazione e l’adattamento alle catastrofi climatiche. 5) Impegnarsi attivamente nell’attuazione dei contributi determinati a livello nazionale (Nationally Determined Contributions, NDC) presentati ai sensi dell’accordo di Parigi.

Su quest’ultimo punto un dettaglio importante: dopo l’accordo di Parigi, le parti hanno concordato un obiettivo a lungo termine per mantenere entro il limite di 1,5°C l’aumento di temperatura medio del pianeta, in modo da non minacciare, tra l’altro, la produzione alimentare. Inoltre, hanno concordato di lavorare per rendere i flussi finanziari coerenti con un percorso verso basse emissioni di gas serra. I contributi determinati a livello nazionale (NDC) sono il fulcro dell’accordo di Parigi e rappresentano gli sforzi di ciascun paese per ridurre le emissioni nazionali. L’articolo 4 al paragrafo 2 impone a ciascuna parte di preparare, comunicare e mantenere entro i limiti dichiarati i contributi annuali determinati a livello nazionale, anno dopo anno, a cominciare dal 2020. Insieme, queste azioni climatiche determinano se il mondo raggiunge gli obiettivi a lungo termine dell’accordo di Parigi per raggiungere il picco globale delle emissioni di gas a effetto il prima possibile e procedere a riduzioni rapide in seguito. Per fare un esempio, la Svezia, oltre a impegnarsi a decarbonizzare la propria flotta di veicoli entro il 2030, ha comunicato di aver aumentato la tassa sul carbonio da $ 30 per tonnellata di CO2 emessa nel 1991 a $ 142 / tCO2e nel 2019, consentendole di diminuire del 26% le emissioni e di arrivare al 40% entro il 2020, per pervenire a zero emissioni nette entro il 2045.(Fonte: Ministero delle finanze, delle tasse e del Cusfoms, Svezia)

E In Italia che si fa? Cosa ne pensano degli NDC i governanti che hanno già messo in soffitta Greta con le manifestazioni dei giovani fino allo sciopero annunciato per il 24 maggio? Capisco che il povero ministro delle Finanze italiano Tria sia occupato a districarsi nelle varie flat tax e a sottrarsi agli schiaffoni congiunti dei due suoi vicepresidenti, ma, almeno, potrebbe dire dove era in quei giorni in cui a Washington si prendeva atto di una crisi epocale che riguarda il mondo intero?

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Dal fossile alle rinnovabili /3 – Decarbonizzare: servono fatti, non solo ordini del giorno!

Dobbiamo ringraziare i giovanissimi che sono scesi per le strade in questi mesi per mettere in comunicazione l’urgenza del tempo con l’esigenza di una educazione ambientale diffusa, che navighi tra tutte le materie e produca conoscenza, per una vita buona e la cura del Pianeta in cui essa si srotola tra difficoltà una volta impreviste. Trascurarne l’intuizione di una fase irripetibile e deluderli preluderebbe a un disastro irrecuperabile: questo si avverte quando capita di frequentarne le riunioni. Sono infatti trascorsi invano molti anni di appuntamenti intergovernativi, estenuanti quanto poco produttivi, e oggi la necessaria transizione energetica dai fossili alle rinnovabili di cui ho trattato anche nei due post precedenti – potrebbe non giungere a compimento prima di un drammatico sconvolgimento sociale e ambientale.

L’inconsistenza con cui la classe politica al comando tratta il passaggio epocale in atto non può più essere accettata. In Parlamento è ormai un fiorire di mozioni e ordini del giorno sul clima, infilati senza clamore né impegno vincolante nelle pieghe di un’agenda saturata dalla muscolarità con cui vengono sgomberati e respinti rom e migranti in mezzo a incendi e naufragi. Il 4 aprile la Camera si è addirittura superata, nell’accogliere in forma di auspicio l’azzeramento degli incentivi ai combustibili fossili!

La realtà è ben altra ed è alla sua durezza, insieme costrittiva e devastante, che si deve reagire. Se il riscaldamento globale deve rimanere ben al di sotto dei 2°C, sono diverse le attività a rischio, tutte strutturalmente e non innocuamente connesse allo sviluppo in corso, alle disuguaglianze vistose e agli stili di vita diffusi che non si vogliono abbandonare. Una parte sostanziale delle riserve di combustibili fossili deve essere bloccata sottoterra e ciò vale metaforicamente anche per il capitale delle imprese già investito nel settore. Inoltre, i bruschi cambiamenti del clima già osservati intaccano imprevedibilmente la valorizzazione e l’accesso al capitale fisico e naturale, che non risulta più durevolmente a disposizione, mentre l’incertezza delle previsioni climatiche mette fuori mercato investimenti e grandi opere nei settori densamente energivori o a maggior impatto naturale. Siamo a fronte della crisi irreversibile di un sistema fortemente radicato nella cultura e nella realtà materiale, resistente al cambiamento sia per l’eccessiva capitalizzazione, tuttora concentrata, sia per la consistente occupazione ancora impegnata, sia per l’imponenza delle infrastrutture da smantellare e riconvertire.

A riprova della profondità, della problematicità, ma anche dell’auspicabilità della riconversione energetica, occorre ricordare che secondo un recentissimo studio tre quarti della produzione di carbone degli Stati Uniti – combusta nelle centrali, nelle industrie e per il riscaldamento – è ora più costosa dell’energia solare ed eolica nel fornire elettricità alla popolazione americana. L’Eia, agenzia governativa statunitense, riporta a gennaio che metà delle miniere di carbone degli Stati Uniti ha chiuso negli ultimi dieci anni.

Il penultimo numero di Qualenergia annota che, per tagliare drasticamente le emissioni inquinanti come richiesto dall’ultimo rapporto dell’Ipcc, non si dovrebbe più investire in nuovi impianti fossili. Non si capisce allora come si possa concedere alle centrali a carbone di Civitavecchia e Brindisi di continuare fino al 2040 o, lo ripeto da tempo, al gasdotto Tap di approdare sulle coste pugliesi. Saremmo di fronte alla perpetuazione di un sistema che dà luogo a perdite imperdonabili. A meno che riguardi anche l’Italia lo “scoop” di un recente rapporto pubblicato da una coalizione di gruppi ambientalisti, che ha rivelato che 33 banche globali hanno fornito 1,9 miliardi di dollari in finanziamenti a società del carbone, del petrolio e del gas proprio dopo l’accordo sul clima di Parigi del 2015.

La situazione è allarmante ed è inevitabile adottare provvedimenti strutturali con estrema urgenza. Il rapporto McKinsey argomenta con dettaglio alcune proposte di sostituzioni drastiche nell’uso dei fossili nella produzione di elettricità, nei veicoli, nel riscaldamento e nelle industrie. Secondo gli autori, è indispensabile:

2025. Velocizzare il passaggio all’elettrico per gli autoveicoli e ridurre il ricorso all’auto di proprietà individuale: entro il 2050 il 100% della motorizzazione in Cina, Europa e Nord America dovrà essere elettrica e il 50% si dovrà diffondere nel resto del mondo. Si dovrà intervenire per una maggiore efficienza nel trasporto aereo e marino con riduzione del 50% di emissioni. Assieme all’improcrastinabile riduzione di plastica e al suo riciclaggio, la domanda di petrolio raggiungerebbe il picco prima del 2025.
2026. Diffondere l’elettrificazione del riscaldamento (almeno il 50% in Europa) e il ricorso alle pompe di calore. L’elettrificazione della cucina in Africa deve procedere anche se con maggiori difficoltà. Il ricorso al gas rimane sui livelli attuali e decresce dal 2050.
2027. Il ricorso all’elettricità in siderurgia e nei processi industriali, assieme a processi a temperature meno elevate nella manifattura, produce una riduzione della domanda di carbone, che scende al 19%.
2028. La riduzione dei costi delle rinnovabili e il ricorso a sistemi di immagazzinamento mette fuori competizione i fossili.
2029. Al 2050 la potenza installata viene ridotta almeno del 15%.
2030. Le emissioni di Co2 passerebbero da 32 Gton a 22 Gton nel 2050.

Uno sforzo enorme se teniamo conto del punto da cui partiamo. Eppure, dice McKinsey – tutt’altro che un’accolita di ambientalisti – avremmo bisogno di scendere a 13 Gton al 2050 per non superare i 2°C! Benvenuto allora allo sciopero mondiale del 24 maggio e alla ventata della nuova generazione. Senza di loro non ce la faremmo proprio.

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