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Nel Piano Mattei avanti tutta col gas. Sull’energia pulita invece niente si muove

Come temevamo, il “Piano Mattei” è uno specchio per le allodole: ci fa sentire generosi espropriatori di risorse di paesi poveri, mentre si dà copertura ad una transizione energetica “che puzza ancora di gas”. Così, infatti l’hanno subito intesa Wwf, Legambiente, Kyoto Club e Greenpeace che sono uscite con un durissimo comunicato stampa consegnato All’Ansa il 30 gennaio. “Se la Presidente non lo ha esplicitamente nominato, in realtà è molto chiaro che nel Piano Mattei le rinnovabili non sono protagoniste, protagonista è ancora il gas, insieme ai disegni di Eni sui biocarburanti”.

E’ sempre più evidente il gioco, partito con Cingolani e poi ribadito in più sofisticate versioni da Pichetto Fratin e da Giorgia Meloni: dilazionare il più possibile nel tempo l’installazione di energia pulita, in attesa di progressi irrealistici delle tecnologie nucleari, sopperiti, alla bisogna, da nuovi rigassificatori, sparsi lungo le coste italiane e riforniti di metano d’oltre Mediterraneo. L’idea di trasformare la penisola in un hub energetico e di sequestro della CO2 attraverso una collaborazione che passa dall’Africa e dalle fonti inquinanti, rischia di compromettere definitivamente gli impegni per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C. Ma il discorso si fa ancora più insidioso se si riflette che il traguardo di una tanto incomprensibile insipienza in realtà punti a mantenere una struttura centralizzata del nostro sistema energetico, nelle mani delle lobby i cui Consigli di amministrazione discendono dallo spoil system che Giorgia maneggia con disinvoltura. Un ritardo così anomalo e insistito nel cambio di paradigma energetico finirebbe quindi col penetrare a tal punto nella cultura dei cittadini da scoraggiarli dal ricorso alle energie rinnovabili locali.

Proprio in questi giorni è uscito il decreto di lancio delle comunità energetiche, che risulta pasticciato e, ad ora, penalizzante per chi ha già messo mano a progetti e impianti in cooperazione. E fa impressione che nel 2023, nonostante la misura del 110%, la produzione di elettricità più diffusa tra le rinnovabili (il fotovoltaico per lo più installato motu proprio da cittadini privati) ha coperto solo il 10% della domanda elettrica nazionale, a fronte dell’obbiettivo di superare almeno il 43% di produzione lorda da Fer elettriche al 2030. Non si intravvede all’orizzonte un vero sostegno alle rinnovabili, sebbene esse rimangano una delle rare filiere di nuova occupazione e di lavoro qualificato.

Sembra che il dramma dell’Ilva non abbia insegnato alcunché. Mentre i rigassificatori galleggianti di Piombino e Ravenna sono stati autorizzati in nemmeno sei mesi, il decreto Energia deve ancora definire la realizzazione di approdi a mare da utilizzare per il montaggio delle pale eoliche galleggianti. Si tratta di porti già praticati e espandibili, come quello di Civitavecchia, dove è stato preventivato uno stanziamento di due miliardi di euro da una società mista italo-danese che ha presentato un progetto di eolico off-shore per 540 MW, a 30 Km dalla costa.

Poiché entro il 2025 verrà attuato il phase out dal carbone che oggi alimenta la centrale, dovrebbe essere consentito l’assemblaggio delle turbine in porto e, poi, il loro traino al largo, mantenendo ed anzi accrescendo l’occupazione dell’attuale impianto fossile e del suo indotto. Ma, anche qui, tutto sembra fermo.

Quando si pensa che l’eolico offshore in Europa gode di ottime prospettive di crescita – nel 2023 nella Ue sono stati installati 4,2 GW di nuova potenza, un record, con una crescita del 40% rispetto all’anno precedente – fa meraviglia che da noi, anche laddove le amministrazioni locali e i cittadini si sono battuti per progetti compatibili col loro territorio, la politica non decida per iniziative industriali che favoriscano la conversione energetica a vantaggio del clima.

La costruzione di un “retroterra” adatto offrirebbe la possibilità di avere a riferimento tutto il bacino del Mediterraneo. Tuttavia, il nostro Paese non dà cenni nemmeno per quanto riguarda la catena di fornitura, che registra invece nuovi stabilimenti produttivi in Polonia, Danimarca, Germania, Paesi Bassi e Spagna. Eppure, nel decreto Fer 2 sono previsti 3,8 GW come contingenti totali di potenza disponibili tra il 2024 e il 2028. Acquisteremo tutto da fuori, oppure non ne faremo nulla? Forse si vuole traccheggiare per arrivare al 2025 senza alternative, così da chiedere una proroga alla chiusura della centrale a carbone per “motivi occupazionali” e far sì che quegli stessi operai, che hanno scioperato per abbandonare i fossili, siano strumentalizzati magari per qualche sbocco nefasto dissimulato tra i progetti non certo virtuosi del tutt’ora misterioso “piano Mattei”.

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Piccoli reattori controllati con l’intelligenza artificiale: l’ultima tendenza dell’energia

La Cop di Dubai – un nulla di fatto a fronte dell’emergenza climatica – è passata per uno scialbo appuntamento presso una parte prevalente dell’opinione pubblica e, per l’industria dei combustibili fossili, ha rappresentato il migliore degli esiti possibili. Di fatto, ha reso evidente che l’assetto istituzionale uscito dagli Accordi di Parigi del 2015 non è in grado di contrastare con efficacia il cambio climatico.

Più che limitarmi ad analizzare l’insuccesso della Cop sulla base del peggioramento della situazione mondiale dal 2015 ad oggi (secondo le ipotesi disponibili dell’Emission Gap Report 2023, al 2030 emetteremo gas climalteranti per un 70% in più di quelle coerenti con l’obiettivo di non superare un Global Warming di 1,5°C, con un risultato atteso di +2, 7°C), vorrei qui sottolineare quanto le condizioni di cooperazione globale stiano venendo meno e quanto aspro sia il contrasto effettivo tra l’idea di un Trattato internazionale di non proliferazione dei combustibili fossili e il quadro geopolitico che globalmente abbiamo sotto gli occhi.

Dobbiamo quindi ripartire dal basso, non dalle Cop dei petrolieri, tenendo conto che il tempo viene a mancare, soprattutto in tempi di guerre diffuse e di imponenti consumi di elettricità. Per farlo, partendo dai nostri comportamenti quotidiani, occorre innanzitutto allentare l’assillo della crescita, iscritto nel cuore di un capitalismo sempre più alterante le condizioni di giustizia tra gli umani e tra essi e la natura. Nel corso della storia dell’umanità, diverse sono le epoche nelle quali la struttura della realtà ha subito netti cambiamenti nelle menti umane e molti sono i segni che indicano che ciò stia avvenendo anche nella nostra epoca. La scienza e le nuove tecnologie hanno accesso a livelli di potenza e a ampiezza di simulazioni del tutto sconosciute fino al secolo scorso ed ormai giunte ad un punto molto critico di avanzamento.

Gli sconvolgimenti politici e le catastrofi di questi decenni indicano di per sé che il baricentro del pensiero umano e le sue fondamenta si stanno da tempo sensibilmente spostando, mentre invece il mainstream tende a convincerci della possibilità di affrontare questo passaggio costellato di tragedie e minacce, mantenendo tutto come prima, e, anzi, aggiungendo emergenza ad emergenza e ricorrendo a densità energetiche (il nucleare!) e sistemi di informazione e comunicazione (l’Intelligenza artificiale!) che escono dalla possibilità certa di controllo della coscienza umana e possono pregiudicare l’esercizio del libero arbitrio anche nelle società democratiche così come le abbiamo conosciute.

Sotto questo profilo pongo all’attenzione due peculiari tendenze nel dominio dell’energia che sono in atto dai tempi più recenti e che non sono sufficientemente sotto controllo dell’opinione pubblica: a) la rincorsa a sfruttare in tutti i possibili luoghi del Pianeta il gas non convenzionale e da scisto; b) la richiesta affannosa di piccoli reattori nucleari (SMR) sparsi per il territorio per alimentare i “cloud” per l’impiego dei dati e degli algoritmi per l’intelligenza artificiale (IA).

Per quanto esposto in a), è notizia di questa settimana (v. Worldwide Gas di scisto Market) l’erompere di richieste di concessioni in ogni parte del Pianeta per perforazioni assai dannose ambientalmente al fine di estrarre gas da sabbie bituminose, rocce, fondali marini. Uno studio, che coinvolge come operatori le più grandi imprese fossili, come Eqt Corporation, Exxonmobil, Southwestern Energy, Antero Resources Corporation, Coterra Energy, Chesapeake Energy, Chevron, Cnx Resources Corp, Range Resources, Conoco Phillips, Sinopec, Cnpc, indica le convenienze, regione per regione, in tutti i cinque continenti e, di conseguenza, un invito a perseverare in una direzione calamitosa.

Per quanto paventato in b), va ricordato che l’energia nucleare ha svolto un ruolo importante alla Cop 28, con 22 nazioni che si sono impegnate a triplicarne la potenza entro il 2050, con una particolare attenzione ai reattori di piccola taglia (SMR). Questi impianti minori (attorno ai 400 MW) pongono un inedito problema di sicurezza, perché occorrerebbe trasportare attraverso i numerosi territori che si appresterebbero ad accoglierli, elementi di combustibile altamente tossico, per poi gestirne le scorie distribuite in innumerevoli depositi e tenendo conto che l’uranio da impiegare in questi impianti richiederebbe un elevato arricchimento (U-235 fino al 20%), al limite inferiore di quanto avviene per l’allestimento di bombe nucleari. Rientra quindi in gioco e su vasta scala il connubio tra uso militare e civile dell’energia atomica, associato ad un’alta dispersione dell’inquinamento, paragonabile a quanto è accaduto per l’industria chimica, ma, questa volta, più letale e sottoposta a norme e criteri altrettanto pervasivi di controllo militare.

Il mercato che attrae gli SMR è quello dell’espansione dell’IA. Infatti, il suo funzionamento richiede una disseminazione di data center e cloud proprietari nei territori che ne impiegano gli algoritmi con un elevato consumo di elettricità sia per i chip più avanzati che per il raffreddamento delle memorie dati.

Microsoft, Google. Apple e Amazon stanno valutando nei loro laboratori di ricerca la possibilità di apprendimento automatico della IA nell’ottimizzazione, nel controllo e nel monitoraggio di SMR che alimentino i loro data center in continuazione, con i big data su cui risiedono il Cloud e la IA proprietari. Per avere un’idea delle dimensioni del problema, la sola rete Microsoft collega più di 60 regioni di dati, 200 data center, 190 punti di presenza e oltre 175.000 miglia di fibre terrestri e sottomarine in tutto il mondo, che si congiunge al resto di Internet. Va aggiunto che tre dei migliori operatori sono in Asia con oltre 500 data center sparsi in Cina, Giappone e altre nazioni asiatiche ed altri ancora sono dislocati in Africa e Oceania.

Ma che fine faranno le comunità energetiche rinnovabili, che trovano così tanti ostacoli anche burocratici nella loro realizzazione, quando ci dovessimo trovare di fronte – là dove viviamo e abitiamo – ad un nugolo di SMR proprietari, alimentati dalla fissione atomica, sparsi nelle regioni dove anche il lavoro umano viene sostituito da macchine “intelligenti”?

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Pessime le credenziali dell’Italia alla Cop28: opaco il contrasto alla crisi climatica

All’avvio della Cop 28 il governo italiano arriva con un bilancio opaco sul contrasto alla crisi climatica, con segnali di grande sofferenza già sopportata da lembi assai vasti del territorio nazionale e, nonostante tutto ciò, con la pretesa di non cambiare rotta rispetto ai piani energetici che languono quasi immutati da oltre un lustro sulle scrivanie dei ministeri e degli enti energetici nazionali.

Da parte della maggioranza attuale le novità più rilevanti si collocano, da un lato, nell’avvicinamento e la promiscuità con quegli interessi europei che vorrebbero rilanciare il nucleare per ritardare la rivoluzione delle rinnovabili e, dall’altro, nell’aperta contraddizione di ridare fiato al gas facendo dell’Italia l’hub europeo non solo del metano, ma addirittura della CO2, da sotterrare in pianura padana o in Adriatico, trasportata da condotte provenienti anche da fuori dei nostri confini.

Occorre notare che l’Italia, dopo aver aderito alla dichiarazione della Cop di Glasgow, impegnandosi a porre fine a nuovi finanziamenti pubblici internazionali per progetti di estrazione, trasporto e trasformazione di carbone, petrolio e gas entro il 31 dicembre 2022, ha disatteso l’impegno, finanziando solo nei primi sei mesi del 2023 progetti fossili con oltre 1,2 miliardi di dollari di sussidi pubblici. E per di più, come denunciato da ReCommon, le istituzioni di finanza pubblica italiane continuano a promuovere il finanziamento di ulteriori progetti fossili sia sul suolo nazionale che, in particolare, in Africa, dove il binomio Meloni-Descalzi ha insediato un improbabile “piano Mattei” per dissimulare la continuità delle forniture di gas ben oltre i vincoli posti dallo stesso Green New Deal Ue.

In uno spaesamento generale del Paese entriamo alla conferenza di Dubai con pessime credenziali, nonostante la popolazione e i privati spingano responsabilmente per una crescita dell’energia rinnovabile. Intanto, mentre si allungano le ombre sul funzionamento delle assisi internazionali, tra ritardi sui vincoli climatici, assenti eccellenti e conflitti di interesse, anche l’Ue abbandona un ruolo di ambiziosa avanguardia, nascondendo sotto lo scudo dell’idrogeno “futuro” l’accettazione temporanea dell’espansione del gas, tuttora in promozione e allestimento in buona parte del continente.

Il capitolo italiano REpowerEU del Pnrr proprio in questi giorni è sceso da 19 miliardi di euro della proposta iniziale a poco più di 11. Inoltre, sul fronte Pnrr, la revisione stilata da Roma definanzia misure per oltre 15 miliardi, tra cui 6 miliardi per l’efficienza energetica nei Comuni, assieme ai fondi per gli impianti Fer innovativi e per l’idrogeno nei settori “hard to abate”. La cosiddetta “revisione al ribasso dei sussidi dannosi per l’ambiente” verrà immediatamente compensata da un sussidio per i costi di allacciamento alla rete del gas del biometano, con grande soddisfazione della Coldiretti.

Le grandi centrali a carbone di Brindisi e Civitavecchia verranno chiuse entro il 2025 – e questo è bene – ma nel contempo sulla costa tirrenica va a rilento l’intero piano complessivo per l’eolico off-shore di Civitavecchia, per cui ad oggi non sono previsti finanziamenti per l’allestimento delle strutture portuali adatte a farne l’hub per l’eolico nel Mediterraneo. E nemmeno è alle viste una adeguata azione di politica industriale per lanciare sul territorio laziale un complesso manifatturiero che sopperisca all’importazione di apparecchiature tanto innovative come le pale eoliche galleggianti.

Nondimeno, un complesso di istituti di ricerca e formazione dovrebbe fornire garanze di buona e duratura occupazione ad una popolazione che ha avuto il merito di lottare per la trasformazione energetica in una città che da oltre 70 anni sacrifica salute e fruibilità del territorio alla produzione di energia da olio minerale e carbone.

Tutti gli attori in campo (Enel compresa, anche se il suo piano industriale esce ridimensionato sulle rinnovabili nel passaggio da Storace a Cattaneo alla testa del gruppo) devono sentire come una conquista faticosa ma esaltante la transizione dal fossile all’energia pulita; lo stesso Ministero per le Imprese e il Made in Italy dovrebbe svolgere un ruolo propulsivo in tal senso, rendendo sinergico il coinvolgimento delle istituzioni accanto alle forze sociali vive che hanno partecipato dal basso ad aprire una strada nuova per minimizzare l’impatto ambientale e sociale e massimizzare le opportunità che devono essere colte oggi e non domani.

Quel che vale per Civitavecchia andrebbe consapevolmente esteso a tutto il Paese.

La presidente Meloni partecipa alla Cop 28 con un mandato della sua maggioranza (non del Parlamento!) in cui spicca l’assenza di un chiaro impegno su come accelerare la diffusione delle energie pulite e l’assenza di tempistiche per destinare lo 0,7% del Pil in aiuti allo sviluppo, di cui il 50% alla lotta al cambiamento climatico. Si cita “un percorso nazionale di graduale riduzione ed eliminazione dei sussidi alle fonti fossili”, da realizzare però “secondo modalità compatibili con lo sviluppo economico e sociale del Paese”.

Se si pensa poi che l’esecutivo dovrà anche incentivare le sperimentazioni “volte all’abbattimento delle emissioni e allo stoccaggio a lungo termine dell’anidride carbonica”, in modo da garantire lo sviluppo della filiera del sequestro di anidride carbonica, allora sarebbe bene che non solo gli ambientalisti, ma quanti hanno a cuore il futuro delle nuove generazioni smettano di accontentarsi di rincorrere la notizia del giorno che sposta quella del giorno precedente, per seguire più da vicino un processo partecipativo e di lotta per un mondo senza guerre, senza ordigni nucleari, che contrasti efficacemente il cambio climatico e si mantenga in armonia con la natura e il resto del vivente.

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Rilanciare il nucleare serve solo a prender tempo sulle rinnovabili. O per ragioni più prosaiche

Ora tutto diventa più chiaro: il rilancio sommesso, ma insistente, per il ritorno del nucleare in tempi imponderabili serve innanzitutto a procrastinare la reiterazione dell’impiego del gas fossile e a tenere a bada le soluzioni rinnovabili già certificate, pronte per le aste e anche economicamente convenienti. In questo contesto, l’ultima esortazione del Papa – Laudate Deum – è stata silenziata, forse proprio perché limpidamente incentrata sul blocco immediato delle emissioni dai fossili.

Il megafono del ritorno al nucleare – “faremo una centrale nel mio quartiere a Milano in cui scatterà l’interruttore nel 2032” – ha tutto il sapore della volgarità e dell’incompetenza di Salvini. Ma dietro all’incontinente ministro si muove qualcosa di molto più consistente e strutturato a favore delle lobby del gas e di un rilevantissimo spostamento di risorse verso l’atomo definito “pulito”. L’operazione si disloca su una vasta scala, addirittura europea e in parte internazionale. Ma qui vorrei occuparmi dell’impegnativo tentativo di un revival nazionale.

L’8 ottobre scorso Repubblica, che non gioca in campo neutro rispetto ai poteri dominanti da sempre, con una diligenza composta e contenuta, ha pubblicato un lunghissimo articolo (oltre 6 pagine!) a cura di Luca Fraioli in cui venivano per paragrafi distinte e illustrate le ragioni e le contrarietà per un ritorno all’atomo. Un recupero insidiato irrimediabilmente dall’esito dei referendum del 1987 e del 2011, ma, forse, riabilitato anche sul piano giuridico dall’evoluzione documentata di una tecnologia che aveva provocato l’emozione più viva dopo gli incidenti di Chernobyl e Fukushima. Si cerca di attestare una maggior sicurezza e una attrazione tecnologica affascinante, che si disloca tra la V o VI generazione “sicura”, fino agli “Small Reactors” (SMR) e, infine, alla “fusione” come avviene nelle stelle. Con un obiettivo sotteso, certamente condiviso dall’attuale governo e dall’Eni di Descalzi: confutare il fermo all’atomo imposto da paure irrazionali, perché in tutto il mondo la tecnologia avanza più rapidamente delle titubanti opinioni pubbliche.

Su questa stessa linea, che il quotidiano lascia trasparire come centro per una ripresa del dibattito, si muove cautamente il ministro Pichetto Fratin, che ha insediato una commissione il 21 settembre 2023 per incontrare i protagonisti del nucleare made in Italy. Soggetti del mondo universitario e industriale che hanno già in essere programmi di investimento nel settore nucleare “per valutare le nuove tecnologie sicure del nucleare innovativo”. La Commissione lavora in sedi istituzionali già con un suo programma e si chiama Piattaforma nazionale per un nucleare sostenibile (Pnns). In verità, la strada del ministro era stata prima spianata da due mozioni passate il 9 maggio scorso alla Camera dei Deputati presentate, rispettivamente, una dai partiti della maggioranza, l’altra da Azione e Italia Viva, che avevano dato legittimità parlamentare “all’opportunità di inserire nel mix energetico nazionale anche il nucleare, quale fonte alternativa e pulita per la produzione di energia”, nonché “alla partecipazione attiva, in sede europea e internazionale, a ogni opportuna iniziativa volta ad incentivare lo sviluppo delle nuove tecnologie nucleari”.

L’ambiente Ue, nel frattempo, si è inopinatamente spostato su una direzione meno rigida. Con il ritiro di Timmermans dalla presidenza per la transizione energetica,
il nuovo commissario Šefčovič si è impegnato a difendere il principio della “neutralità tecnologica” per ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030, attraverso “tutte le fonti energetiche che riducono sostanzialmente le emissioni, compreso il nucleare”.

Confutiamo allora questa linea, che sembra volersi opporre in sostanza ad una risoluta e rapidissima sostituzione del gas con le rinnovabili.

Le centrali di ultima generazione dovrebbero essere costruite e rese attive al massimo entro due o tre anni per evitare di superare la linea rossa del non ritorno sul clima impazzito. Olkiluoto in Finlandia, Flamanville in Francia e Vogtle negli USA hanno subito ritardi di decine di anni. In quanto agli SMR, Marco Ricotti, docente di Ingegneria nucleare del Politecnico di Milano, da coordinatore del gruppo di lavoro sugli Small Modular Reactors dell’Aiea (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica) ritiene realistica la possibilità di costruire una piccola centrale nucleare non prima del 2032. Per questi impianti minori, comunque, si pone il problema della sicurezza, dato che la gestione logistica diventerebbe persino più complicata rispetto a quella di un’unica centrale, perché occorrerebbe trasportare in giro per il Paese elementi di combustibile per alimentare i reattori e gestire le scorie. Inoltre, l’uranio da impiegare richiederebbe un massimo arricchimento (U-235 fino al 20%), al limite di quanto avviene per le bombe nucleari.

C’è poi la questione della CO2 che il ciclo dell’uranio non esclude affatto. Infatti, per operare un processo di arricchimento dell’ossido di Uranio, complessivamente il consumo di energia fossile è comparabile con quella emessa da un ciclo a gas combinato.

Per quanto riguarda la fusione risulta perfino prolisso continuare a mettere in discussione l’aleatorietà dei tempi di industrializzazione, del costo del kWh, la disponibilità del combustibile (trizio in particolare), la produzione di scorie (migliaia di tonnellate di materiale irraggiato da neutroni, trattabili e riducibili ad un volume molto minore ma ad un costo esorbitante), la proliferazione come arma.

Il lavoro un po’ sotterraneo sul nucleare italiano ha forse una spiegazione assai più prosaica: garantire progetti internazionali, sia di fissione che di fusione, in cui sono coinvolte un centinaio di imprese nazionali, grandi e piccole con commesse rilevanti. Una lobby cara al governo attuale, senza dubbio. Dice il premio Nobel Haro che “ormai i fisici, gli ingegneri e gli scienziati in genere, per ottenere i finanziamenti, sono forzati ad annunciare cosa otterranno e a condurre ricerche finalizzate a qualcosa di utile. Ma è bene essere chiari sul fatto che non sappiamo se e quando conseguiremo il risultato”. Mentre il cambiamento climatico richiede tempi brevissimi di soluzione e contenimento.

A meno che la si pensi come il presidente di Nomisma Tabarelli: “Investire, diversificare le forniture, produrre più petrolio garantendo investimenti alle compagnie petrolifere, riaprire il discorso sul nucleare”. Con buona pace di papa Francesco e delle nuove generazioni…

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Pichetto Fratin balbetta di un nucleare diverso ma sbaglia: il governo ha la testa all’indietro

di Mario Agostinelli, Alfiero Grandi, Jacopo Ricci, Massimo Serafini*

Il ministro Pichetto Fratin si gonfia come la nota rana e si autodefinisce il ministro più nuclearista che ci sia mai stato. Contento lui se la vedrà con il predecessore Scajola che aveva fatto approvare la legge che poi il referendum popolare del 2011 ha bocciato a grande maggioranza. L’attuale ministro, che sta all’ambiente come la volpe al pollaio, sembra consapevole che ben due referendum popolari in Italia hanno detto no al nucleare e dimentica che la Germania ha chiuso definitivamente le sue centrali elettronucleari.

Pichetto Fratin balbetta di un nucleare diverso da quello bocciato dai referendum e fa esempi ridicoli, ignorando che la sostanza del nucleare disponibile oggi è la stessa di prima e che non basta attaccargli un cartellino con un altro numero definendolo di nuova generazione per renderlo più sicuro. Le centrali nucleari sono un rischio in sé come ricordano, purtroppo, quelle ucraine che da tempo provocano incubi e terrore a causa dei rischi della guerra.

Gli obiettivi di aumento delle rinnovabili dell’Italia sono trascurati da un ministro che pensa solo all’enorme affare che rappresenterebbe la costruzione di una centrale nucleare, senza curarsi dei pericoli per l’ambiente e le persone. Eppure, sono depositati al Ministero molti progetti di investimenti nell’eolico, soprattutto off shore, come nel caso di Civitavecchia e sarebbe possibile rilanciare con un vero piano il fotovoltaico estendendo investimenti come quello di dell’Enel in Sicilia che cerca di contrastare la subalternità verso altri paesi dell’Italia e dell’Europa nella produzione dei componenti necessari per la costruzione degli impianti ftv.

Il ministro non si occupa del rispetto degli obiettivi in materia di rinnovabili ma si preoccupa degli interessi delle lobbies del fossile e del nucleare.

Questo governo non è solo conservatore ma ha la testa all’indietro ed è subalterno ai gruppi che hanno interessi sulle fonti energetiche fossili dimenticando che se l’Italia vuole raggiungere una maggiore autonomia deve puntare sulle energie da fonti pulite e rinnovabili, tutte senza esclusione, e spingere sull’acceleratore, altrimenti i disastri ambientali cresceranno e arriveremo al 2030 nel modo peggiore.

Giorgia Meloni dovrebbe porsi il problema se questo ministro che colloca il governo su posizioni tanto arretrate in materie decisive come ambiente ed energia sia compatibile con l’interesse dell’Italia. In ogni caso il referendum sul nucleare ci sarà se reso necessario da qualche trucco del governo per un ritorno al passato. Elettrici ed elettori possono, se necessario, ribadire ancora una volta che il nucleare in Italia non si farà.

* Osservatorio sulla transizione ecologica, promosso da Laudato Sì, Coordinamento Democrazia Costituzionale, NOstra, Ambiente Lavoro

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