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Clima, le emissioni non sono calate abbastanza col virus: bisogna puntare alle energie naturali

Difficile misurare e prevedere la diminuzione di climalteranti dovuti al blocco delle attività in tempo di coronavirus, perché essa dipende da quali settori dell’economia hanno chiuso e le aspettative di ripresa nel corso dell’anno. Benjamin Storrow, in un documentatissimo articolo spegne alcuni entusiasmi sulla caduta delle emissioni durante la pandemia.

Se si calcola che ormai 4 miliardi di persone in tutto il mondo si sono fermate per contribuire ad arginare la diffusione del virus, il confronto con le previsioni dei meteorologi (poco oltre il 5% nel 2020), pur rappresentando il più grande calo annuale mai registrato, rimane al di sotto del calo del 7,6% che gli scienziati dicono che è necessario ogni anno nel prossimo decennio per impedire che le temperature globali aumentino di oltre 1,5 gradi Celsius.

Non c’è proporzionalità diretta tra calo dei prodotti e abbassamento delle emissioni. Quindi perché le previsioni non prevedono un calo maggiore di CO2 durante una delle peggiori catastrofi economiche della vita? Nei fatti la pandemia sta causando una caduta libera economica che differisce dalle precedenti recessioni.

Solo se le riduzioni di anidride carbonica non ripartissero secondo il cosiddetto “ritorno alla normalità” che sta a cuore di tutti i governi (si pensi da noi agli aiuti a Fca e Alitalia e al mantenimento delle centrali a carbone) registreremmo un obiettivo in linea con l’auspicio dell’Ipcc. Ma occorrerebbe un grande movimento che prema sui governi del mondo e sulle multinazionali e una svolta dalla produzione energivora alla cura dell’intera biosfera e un cambio degli stili di vita.

Sia negli Stati Uniti che in Cina il lockdown non è stato utilizzato per mutare il segno dell’eventuale ripresa, ma solo per tenere in vita con la manutenzione indispensabile il modello che riprodurrà quanto prima le emergenze in corso. I cali in Cina e Usa sono stati solo del 25% e del 14% nel mese di maggior diffusione del virus e la maggior parte dei meteorologi ipotizzano che l’economia riprenderà nella seconda metà dell’anno, spingendo le emissioni verso l’alto con un rimbalzo.

Anche in uno scenario in cui le emissioni sono diminuite del 25%, i tre quarti della produzione globale di CO2 continuerebbero durante un blocco annuale. A differenza delle recessioni passate, il trasporto sta guidando il calo delle emissioni. La spedizione è rimasta costante e la produzione è stata lenta a chiudere. Molte acciaierie e centrali a carbone hanno continuato a funzionare per tutto l’arresto, sebbene spesso a livelli ridotti.

Al contrario è calato il traffico di trasporto individuale delle persone: del 54% nel Regno Unito, del 36% negli Stati Uniti e del 19% in Cina, mentre i viaggi aerei, nel frattempo, sono diminuiti del 40%, con un riflesso drastico sul calo del petrolio (-65% kerosene; -41% benzina). Eppure, l’economia globale sta ancora consumando molto petrolio, sia per gli usi militari e per il mantenimento degli slot da parte delle compagnie aeree, sia per il trasporto su ruota e ferro con diesel.

Poi ci sono prodotti petrolchimici, che sono stati colpiti in modo diseguale dalla crisi. Le materie plastiche utilizzate nella produzione automobilistica sono in calo, ma quelle usate per l’imballaggio alimentare sono in aumento. I numeri mostrano quanto sia intrecciato il petrolio con l’economia globale e quanto sarà difficile decarbonizzare l’economia semplicemente attraverso l’adeguamento comportamentale. Le auto e gli aerei possono essere parcheggiati in massa, eppure il consumo di petrolio diffuso continua.

Questa prima fase di pandemia è stata pagata più dal trasporto aereo e di auto, ma meno dall’elettricità e dal gas naturale. Il carbone, anche se demonizzato in epoca di pandemia, rimane cruciale per la generazione di elettricità in tutto il mondo e rappresenta il 40% delle emissioni globali di CO2, più di qualsiasi altro combustibile. Assieme al petrolio, rimane un ingranaggio centrale nella produzione economica in tutto il mondo.

Ma mentre comincia ad essere matura una lotta per la conversione delle centrali a carbone e gas nelle economie avanzate, la pandemia sottolinea la necessità di rendere da subito accessibili le energie naturali per le parti in via di sviluppo del mondo su cui potrebbe essere riversato l’eccesso di fossili continuamente estratto.

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Energia, il Covid sarà un’insormontabile ‘pietra d’inciampo’. L’era delle fonti fossili è al declino

La scorsa settimana l’Agenzia Internazionale per l’Energia ha pubblicato la sua Global Energy Review 2020, un’analisi dell’impatto della crisi di Covid-19 sulla domanda globale di energia e le emissioni di CO2.

Vengono analizzati gli sviluppi della caduta di produzione e domanda di energia nei primi quattro mesi del 2020, con la conseguente previsione di possibili traiettorie per il resto dell’anno. I riscontri registrati ed i messaggi lanciati sono assolutamente impressionanti e fanno essi stessi piazza pulita di ogni svista nel presumere che la salute e la cura del Pianeta possano convivere con la crescita economica illimitata e che la loro tutela sia compatibile col modello di globalizzazione fondato sulla combustione delle fonti fossili che ha caratterizzato fin qui l’era “dell’Antropocene”.

La pandemia ha accelerato una crisi già in corso e l’ha fatta precipitare secondo modalità già annunciate, ma mai esplose ai livelli attuali e mai così drammaticamente all’ordine del giorno di centri studi e istituzioni internazionali tutt’altro che eccentriche rispetto al sistema.

È importante osservare come L’IEA non consideri affatto la crisi attuale, ben più profonda e diversa da quella finanziaria del 2008, come un evento passeggero, ma la valuti come un’insormontabile “pietra d’inciampo” nell’evoluzione della civiltà industriale. Si tratta infatti di una crisi che ha connotati speciali: la tradizionale relazione tra Pil e domanda di energia non regge più a causa della natura non strettamente economica dello choc. Alcuni usi energetici, ad esempio, il riscaldamento a gas residenziale o l’uso di elettricità per server o apparecchiature digitali non sono stati interessati a fondo, mentre, sempre ad esempio, il kerosene per aerei, o il carbone per la siderurgia sono crollati molto più rapidamente del declino del Pil.

L’applicazione di misure differenziate di lockdown ha provocato balzi differenziati nei prezzi delle fonti energetiche e picchi di diversa intensità a seconda delle aree geografiche e dei paesi che prendevano misure di confinamento, blocco delle attività, o annunciavano segnali di ripresa. Sotto questo profilo il sistema energetico dei fossili e del nucleare, a struttura fortemente centralizzata e con filiere di approvvigionamento extraterritoriali, ha sofferto assai di più della componente alimentata dalle rinnovabili, che si sono rivelate più flessibili, a costi costanti e contenuti oltre che programmabili e con effetti di minore impatto sulla salute e sull’inquinamento ambientale.

Per avere un’idea dell’effetto Covid -19, si pensi che nella prima metà di aprile il 50% del consumo globale di energia è stato esposto a contrazione, rispetto al 5% della prima metà di marzo. Dato che a maggio molti paesi stanno avviando, anche se solo parzialmente, alcuni settori dell’economia, aprile potrebbe essere il mese più colpito del 2020, a patto che non riprenda il contagio da coronavirus.

I paesi posti in stato di blocco totale stanno registrando un calo medio del 25% della domanda di energia a settimana, mentre i paesi in blocco parziale registrano comunque un calo medio non inferiore al 18%. Se si esaminano i grafici di consumo esposti dall’IEA si nota che “ogni giorno è domenica: la forma della domanda assomiglia lungo l’intera settimana a quella di una domenica prolungata”. La domanda globale di carbone è stata la più colpita, scendendo di quasi l’8% rispetto al primo trimestre del 2019. Tre sono le ragioni che spiegano questo calo: la Cina, un’economia basata sul carbone, è stata la nazione più colpita da Covid-19 nel primo trimestre; gas a basso costo e crescita continua nelle energie rinnovabili altrove hanno sfidato il carbone; il clima mite ha limitato il consumo per riscaldamento.

A metà aprile, l’attività globale di trasporto su strada era quasi del 65% inferiore alla media del 2019 e per l’aviazione inferiore all’80%. Di conseguenza, la domanda di petrolio è diminuita di quasi il 5% nel primo trimestre, ed è crollata del 55% ad inizio del secondo trimestre. L’impatto sulla domanda di gas è stato più moderato, anche se si è accentuato a cominciare da aprile. Le energie rinnovabili sono state l’unica fonte che ha registrato una crescita della domanda (+ 1,5% su base annua), trainata da una maggiore capacità installata (+ 160 GW) e dal dispacciamento prioritario in rete. In definitiva, le riduzioni della domanda hanno aumentato la quota di energie rinnovabili anche per quanto riguarda la fornitura di energia elettrica.

Per l’intero 2020, anche nel caso di un recupero graduale, la domanda globale di energia si contrarrà – secondo le previsioni – del 6%, il più grande calo in 70 anni in termini percentuali e il più grande mai registrato in termini assoluti. L’impatto di Covid-19 sulla domanda di energia nel 2020 sarebbe oltre sette volte maggiore dell’impatto dovuto per la crisi finanziaria del 2008 sulla domanda globale di energia.

Mentre nel computo annuo fossili e nucleare tornerebbero a livelli non superiori a quelli del 2012, si prevede che la domanda di energie rinnovabili debba aumentare, sia per i bassi costi operativi sia in ragione dell’accesso preferenziale a molti sistemi di alimentazione (+ 1% per la domanda totale di energia; + 5% per la domanda di energia elettrica).

Infine, per quanto riguarda le emissioni di CO2, la previsione è di un contenimento dell’8%, ai livelli di 10 anni fa e due volte più grande del totale combinato di tutte le riduzioni precedenti dalla fine della seconda guerra mondiale. Ancora troppo poco e con il rischio che il tentativo ostinato di riavviare l’economia “come prima” non provochi dall’autunno un letale rimbalzo. Per questo la decarbonizzazione deve rimanere al centro della necessaria riconversione ecologica e di una modifica degli stili di vita. Una cura indispensabile per il Pianeta e la salute umana che richiede – tra l’altro –infrastrutture energetiche più pulite e più resilienti. Mi torna sempre il pensiero alla riconversione del sito carbonifero di Civitavecchia, dove è maturo un salto di progettualità di cui proverò ad occuparmi in un prossimo post.

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Coronavirus, la fonte energetica più tradizionale si sta spegnendo: siamo in un’era nuova

La crisi da pandemia ci restituirà un mondo diverso. Lo si dice da più parti, anche perché si sta spegnendo, anche per una ragione di convenienza, la fonte energetica più tradizionale, che aveva reso possibile una crescita che, al più, si sarebbe dovuta governare, non rapidamente accantonare.

Da settimane i principali indici dei prezzi del petrolio oscillano, con brusche cadute e leggere risalite, fino ad assumere valori negativi, ben oltre quindi la grande crisi finanziaria del 2008 e 2009. Bloomberg ha titolato Il mercato del petrolio è in pezzi al punto che esiste il rischio di far saltare gli assetti geopolitici del mondo e, con un eccesso di offerta a prezzi stracciati, di dare la stura al mantenimento per un lungo periodo delle centrali termiche e dei veicoli a combustibile, ulteriormente vanificando gli sforzi per tenere sotto controllo il riscaldamento climatico.

In effetti, siamo di fronte ad una situazione assai complicata: è in corso, anche a causa dell’epidemia, una recessione globale e pesante; si è affacciato sul mercato un prodotto competitivo estratto in modo non tradizionale (lo “shale oil” prodotto negli Stati Uniti con la tecnica del fracking), e c’è il rifiuto dell’Arabia Saudita, impegnata in una faticosa alleanza con la Russia, di sobbarcarsi da sola il compito di tenere alti i prezzi del greggio per indebolire la concorrenza del prodotto estratto al di là dell’Atlantico.

Fino a questo ultimo mese il saliscendi del prezzo dei fossili sembrava tutto giocato all’interno della filiera degli idrocarburi, nella contesa sostanzialmente tra i due maggiori esportatori concorrenti dotati di tecniche tradizionali (Arabia e Russia) e il nuovo arrivato (Stati Uniti) che si rifornisce in casa propria di olio di scisto.

Ma il dilagare del coronavirus, che dall’inizio del 2020 sta mettendo in quarantena intere popolazioni e riducendo al lumicino le attività produttive e gli stessi consumi, non si direbbe solo una questione economica o sanitaria: con una aggressività inedita e una rischiosità imprevedibile evoca l’incertezza della permanenza della nostra vita sulla Terra. È così profondo il turbamento provocato da far pensare ad un “dopo” in discontinuità con il “prima”.

Rivedere a fondo il modo di produrre richiederà senz’altro anche un’accelerazione nei processi di decarbonizzazione. Il che porta a propendere più per lo smantellamento della poderosa rete dei fossili, anziché correre ai ripari con ingenti investimenti sulla salute, che sarebbe comunque destinata a peggiorare a velocità maggiori delle capacità di contenimento dell’inquinamento e delle catastrofi climatiche dovute al ricorso ai combustibili climalteranti.

Tanto vale allora vendere tutto il vendibile prima possibile, e investire i proventi in qualcos’altro (magari fonti rinnovabili, batterie, reti intelligenti etc.). Il lockdown di un paese dopo l’altro, con auto ferme, fabbriche chiuse e stop dei voli, ha provocato lo stop a nuovi investimenti nel settore estrattivo, il riempimento delle riserve strategiche disponibili e perfino la navigazione in acque extraterritoriali di grandi petroliere noleggiate e riempite di greggio.

Due sono le possibilità di uscita: usare prezzi stracciati dei fossili con l’inevitabile aumento delle emissioni di CO2 o, al contrario, accelerare verso la transizione alle fonti rinnovabili e al risparmio, disponendo di un sistema decentrato sul territorio, che si approvvigiona e consuma in forme cooperative e che riduce gli sprechi e gli effetti sull’ambiente e la salute.

La recessione in corso, a prima vista, fa pensare che energia a bassi costi sia un obbligo da sfruttare, almeno in un’ottica capitalista e aziendale. Ma l’opinione pubblica – ferita dall’esperienza e dalla genesi del coronavirus, non certo separabile dagli stili di vita e dal degrado presente nell’atmosfera – non sarà più facilmente disponibile a giocarsi il futuro di figli e nipoti per riprendersi tal quale un presente, oltretutto precario, insalubre e giocato sul filo delle guerre commerciali.

La pandemia ha spostato lo scenario in cui si discuteva della possibile carenza di fonti esauribili come petrolio, gas e carbone: il picco di Hubbert sarà quasi sicuramente raggiunto prima dalla domanda che non dall’offerta e lo stop e il prezzo degli idrocarburi non saranno determinati dallo svuotamento dei pozzi, ma dal rifiuto di impiegarli per i danni che hanno a che fare con la biosfera prima che con la geopolitica.

Nei fatti, ci si è preoccupati a lungo e sbagliando di prevedere prima di tutto il “peak oil”, il momento in cui la produzione avrebbe toccato il massimo per poi iniziare a diminuire: invece, al ,punto in cui siamo, si è capito che sarebbe arrivato prima il “peak demand”, il momento in cui la domanda mondiale sarebbe cominciata a calare. Non è una rivoluzione da poco, anche nel nostro modo di pensare: siamo in un’era nuova. E chi non ne vuole tener conto, vuole che l’Antropocene, in cui presuntuosamente diciamo di essere entrati, duri davvero poche generazioni.

Avanzano pensieri e visioni nuove che non avremmo pensato di veder piovere sulla Terra così presto e con così tanta angoscia. Peggio sarebbe però insistere e riproporsi di continuare a progettare il Pianeta come un proprio manufatto. Un mondo tutto sotto controllo, disconnesso dalla natura e dal resto del vivente, da consumare solo da parte di pochi, con un meccanismo vorace e predatorio, da cui ci si separa sempre più di rado.

Colpisce che tra le attività che non sono state poste in lockdown dal Governo durante la pandemia ci siano quelle estrattive e che, a quanto mi giunge notizia, stiano per attraccare a Civitavecchia carboniere di grandi dimensioni, per il cui scarico potrebbero circolare centinaia di autotreni dal porto verso la centrale, con spargimento di pulviscolo inquinante, consegnando all’Enel una città in ginocchio proprio quando la riconversione dell’area a fonti non fossili e a immagazzinamento di idrogeno potrebbe essere dietro l’angolo!

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Aerei da guerra ‘indispensabili’? Leonardo non si ferma ma le condizioni non convincono i lavoratori

Travolti dalla tragedia in corso e dall’affanno che ci opprime, diamo scarso rilievo a fatti straordinari, che indicano probabilmente il cambio di direzione del nostro futuro, reso precario da comportamenti ormai insostenibili e illusoriamente proiettato a non convivere con la natura la pace ed il diritto ad un lavoro sano e dignitoso.

Non ha avuto adeguata risonanza un fatto che per me, che abito vicino alle fabbriche aeronautiche di Varese che producono in prevalenza armamenti, rappresenta una svolta nel sentire e nell’agire popolare. All’Alenia Aermacchi (oltre 1000 dipendenti) tra sostegno alla salute in emergenza pandemica e difesa della produzione bellica, le lavoratrici e i lavoratori hanno scelto la prima. Rifiutandosi di stare al lavoro lo scorso fine settimana, nonostante la dichiarazione del Prefetto di Varese di “indispensabilità” delle loro prestazioni anche in tempi di coronavirus, hanno aperto un conflitto ed un confronto fin qui inedito. Eppure, Alessandro Profumo, ad di Leonardo – il gruppo cui appartengono Aermacchi e Agusta (caccia ed elicotteri ad impiego militare) – , sul Corriere della Sera era uscito con un titolo perentorio: “Tecnologia e sicurezza nazionale, Leonardo non si può fermare”.

Ma anche dopo “l’aiutino” del quotidiano lombardo l’azienda, di fronte alle resistenze dei dipendenti, si è dovuta rassegnare ad una trattativa con Fim, Fiom, Uilm locali e nazionali per il rallentamento della produzione, il rispetto delle esigenze personali e l’utilizzo delle compensazioni salariali per le fermate della produzione, da concordare con la presenza diretta dei delegati di fabbrica. L’accordo raggiunto sabato 28 marzo smentisce le motivazioni del Prefetto di Varese e le dichiarazioni della Direzione (che vede lo Stato come primo azionista) e che si possono riassumere in affermazioni che escludono ripensamenti a fronte della crisi epocale in corso. Infatti, nell’intervista sopra citata, l’ad afferma che “mai come in questi giorni ci siamo resi conto di quanto sia imprescindibile garantire i nostri confini” e – aggiunge – “Seguiamo con attenzione il dibattito che sta toccando anche il nostro settore, polarizzandosi sempre più verso una dicotomia salute-lavoro”. Ma “grazie al senso di responsabilità e al sacrificio di molti colleghi, che desidero ringraziare personalmente, Leonardo – in costante raccordo con il Ministero della Difesa in primis e con gli altri interlocutori istituzionali – ha continuato a garantire l’operatività e il funzionamento di servizi strategici ed essenziali per il Paese”.

Perché allora, ci dovremmo chiedere, non l’ha fatto direttamente con chi ogni mattina lascia la propria casa, si accompagna ad altri su sistemi di trasporto con pericolo di contagio e poi, al lavoro, si pone a contatto con altre persone a rischio per produzioni non “indispensabili”? Come si può perpetuare, senza un minimo di esitazione ed un irrinunciabile progetto di riconversione, la sopravvivenza della produzione di velivoli da guerra in quanto incorporano un “sistema industriale e la continuità di competenze di altissimo valore tecnologico, eredità di investimenti in ricerca e sviluppo”, che proprio perciò sarebbero da destinare ad emergenze sociali ed ambientali non più procrastinabili?

È un merito indubbio del sindacato unitario quello di aver retto e diretto la spinta delle lavoratrici e dei lavoratori senza recedere rispetto al loro diritto alla salute, e – chissà mai nel dibattito che si è aperto – alla pace e all’uscita dal sistema dei fossili, su cui continua a basarsi ogni attività che ha a che fare con le armi. Le buone ragioni esibite in questo frangente hanno dato già primi frutti. Leonardo ha comunicato di aver intrapreso una serie di iniziative per sostenere lo sforzo di tutti coloro i quali stanno garantendo con il loro impegno quotidiano le attività per il contenimento del contagio da Covid-19, nonché l’assistenza ai malati e alle loro famiglie. Perciò ha messo a disposizione della protezione civile velivoli ed elicotteri ed ha “lanciato la produzione di un primo lotto di valvole per supportare il progetto di valvole in materiale plastico, che consentono di modificare un particolare modello di maschere per la respirazione”.

Forse la scossa che viene dal lavoro, anche quando è autonomamente e democraticamente conflittuale con l’impresa, può aprire una strada inesplorata per la riconversione ecologica e la salvezza del Pianeta. Lo dice anche uno stuolo di firme, a partire da Silvio Garattini, Don Colmegna e Gino Strada, per bloccare in questa fase drammatica e ripensare a breve la destinazione delle attività non insostituibili. Un appello che conta ovviamente anche e proprio sul mondo del lavoro. A questo riguardo, non può che essere confortante che l’accordo sindacale per l’Aermacchi si concluda così: “Si conferma l’attivazione in sede locale di incontri di verifica e applicazione di quanto previsto nel presente protocollo anche alla luce dello sviluppo organizzativo delle attività produttive, che saranno condivise con le Rsu/Rls per garantire il massimo livello di sicurezza e prevenzione a tutela della salute dei lavoratori”. Di questo, aggiungono Fim, Fiom, Uilm, si ringraziano i lavoratori e le loro rappresentanze elette in fabbrica.

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Il trattato di non proliferazione nucleare compie 50 anni. Ma le grandi potenze continuano a tendere i muscoli

Il 6 e 9 agosto 2020, il mondo commemorerà il 75esimo anniversario dei bombardamenti atomici statunitensi di Hiroshima e Nagasaki. Quasi in concomitanza, i giochi olimpici – se il coronavirus fosse debellato – si dovrebbero concludere a Tokyo il 9 agosto.

Poiché il Trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari (Npt) celebra oggi – 5 marzo 2020 – 50 anni dalla sua entrata in vigore, questo e quell’anniversario costituiscono un’occasione unica per educare le persone sulle catastrofiche conseguenze umanitarie delle armi nucleari e sul significato del nuovo Tpnw (Trattato delle Nazioni Unite per la proibizione delle armi nucleari), sostenuto dall’Ican (la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari), rendendo pubblico sostegno al lavoro per vietare ed eliminare le armi nucleari.

Il mondo non è fermo al contesto del Npt, ma una nuova spinta propulsiva viene dalla iniziativa dell’Ican. Una proposta ancora più avanzata, che prevede un trattato di divieto di possesso e gestione delle armi nucleari e che finisce col rafforzare di fatto il Npt, messo in discussione unilateralmente dal presidente Usa Donald Trump.

Ma le grandi potenze continuano a tendere i muscoli: una nuova corsa agli armamenti nucleari è già in corso. Non si tratta tanto di armi in fase di progettazione o sviluppo, ma del rischio che una nuova corsa agli armamenti nucleari tra la Russia e gli Stati Uniti rappresenta per il mondo. Nell’agosto scorso gli Stati Uniti hanno mandato un segnale eloquente, ritirandosi dall’Intermediate Nuclear Forces Trea­ty (Inf) sui missili nucleari a corto e medio raggio, ed è noto che allo stato attuale è difficile che Stati Uniti e Russia rinnovino il Trattato New Start sulla riduzione delle armi nucleari strategiche, quando scadrà nel 2021.

Parimenti, nessuno dei due Paesi ha sottoscritto il Tpnw lanciato nel 2017. Cosa ancora più significativa, le strategie difensive della Russia e degli Stati Uniti continuano a consentire l’uso di armi nucleari contro minacce non nucleari, acuendo il rischio di un conflitto irreparabile. La Russia considera apertamente le proprie armi nucleari una difesa contro il dominio detenuto dagli Stati Uniti e dalla Nato quanto a capacità bellica convenzionale. Nell’ultima Nuclear Posture Review (Npr, i Rapporti del Pentagono sulla strategia nucleare degli Stati Uniti) del febbraio 2018, l’opzione nucleare è stata prevista contro gli “attacchi strategici significativi” non nucleari, compresi i terroristi e le armi biologiche e chimiche globali.

Tranne la Cina, nessuna potenza nucleare ha assunto l’impegno al No First Use, cioè a non ricorrere per primi all’impiego delle armi nucleari. In questo contesto la Conferenza di revisione del Npt, prevista per la prossima primavera, rischia di tramutarsi in una sorta di mischia generale diplomatica in cui gli Stati non nucleari rinfacceranno a quelli che posseggono armi nucleari, firmatari del Trattato (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Cina), di aver violato il loro impegno al disarmo ai sensi dell’articolo VI.

L’appuntamento sarà senza dubbio occasione di dibattiti e controversie, ma da essa potrebbe arrivare una spinta per rilanciare iniziative già approvate nelle Conferenze precedenti e tuttora da promulgare: per esempio, l’istituzione di una Nuclear Weapons Free Zone in Medio Oriente, così come un rinnovato impegno collettivo per sostenere il Npt.

La Conferenza Onu del 2017 sulla proibizione delle armi nucleari ha mostrato che c’è un consenso globale sulla loro abolizione tra gli Stati non nucleari, compresa la Santa Sede, e le organizzazioni della società civile. Nel corrente anno verrà organizzata una conferenza per trarre un primo consuntivo dell’azione intrapresa. Nel percorso di preparazione è emersa la resistenza della maggioranza non nucleare al “bullismo” degli Stati in possesso di armi nucleari, così come la volontà della maggioranza dei Paesi Onu di procedere per conto proprio alla definizione dei termini di sicurezza internazionale, fino a quando le grandi potenze, i loro alleati e alcuni “Stati ombrello” non saranno pronti a unirsi a essi.

Mentre a livello delle grandi potenze è in atto un indiscutibile processo di erosione del sistema di controllo degli armamenti nucleari; a livello internazionale è emersa invece una grande novità: su pressione dell’Ican è stato negoziato presso la sede delle Nazioni Unite a New York un nuovo trattato, con la partecipazione di oltre 135 stati e membri della società civile. Il 7 luglio 2017 la stragrande maggioranza degli Stati (122) ha adottato un accordo storico: il Trattato sul divieto delle armi nucleari (Tpnw).

Si tratta di una convenzione vincolante aperta alla firma dal 20 settembre 2017 e che entrerà in vigore dopo che almeno 50 Stati lo avranno ratificato. A partire dal 25 novembre 2019, 80 stati hanno firmato e 34 stati hanno ratificato questo trattato. Prima di una sua assunzione, le armi nucleari rimarrebbero le uniche armi di distruzione di massa non completamente bandite, nonostante le loro catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali.

Questo nuovo accordo colmerebbe un’importante lacuna nel diritto internazionale, “vietando ai paesi di sviluppare, testare, produrre, fabbricare, trasferire, possedere, immagazzinare, minacciare di usare armi nucleari o consentire lo spiegamento di armi nucleari nei territori”. La prospettiva aperta è entusiasmante: potrebbe addirittura avverarsi che nell’anno del 50esimo del Npt venga ratificato il Tpnw da almeno 50 Stati. “50+50” può essere lo slogan del pacifismo, anche se viene occultato dai media che operano per l’establishment muscolare che governa il pianeta e che traccia una line di continuità tra potenza militare, distruzione della natura. cambiamento climatico, controllo della popolazione, respingimento dei migranti.

Non a caso papa Francesco ha dichiarato che “è da condannare con fermezza la minaccia dell’uso delle armi nucleari, nonché il loro stesso possesso”. Ma, oltre alla sua determinazione, occorre convincere tutti noi, credenti e non credenti, che la pace, il disarmo e la giustizia climatica e sociale possono ancora risanare il pianeta malato.

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