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Energia rinnovabili, il Covid-19 non ne ferma la crescita. Due studi ci spiegano perché

La terribile vicenda della pandemia in corso ha scosso le fondamenta di un rapporto tra scienza, informazione e democrazia che si era andato deteriorando, fino a mostrare l’inadeguatezza del rapporto che i cittadini hanno con il consenso legittimo che questi poteri possono e devono rappresentare. I processi di conoscenza e di interpretazione della realtà quotidiana, della vita dei cittadini, si sono ormai separati dalle nozioni che gli specialisti apprendono in modo non più interdisciplinare, fino a ricorrere a metodi di indagine così oscure ed a conseguenti decisioni che sfuggono al processo di partecipazione cui ogni comunità deve avere diritto.

Questo non vale solo nel caso dell’impalpabile azione distruttiva di un virus tanto minuscolo quanto onnipresente: vale anche quando ci si deve occupare dei meccanismi del cambiamento climatico o della conservazione della natura o, come nel caso che prendo qui in esame, degli effetti sulla salute o sul lavoro della progettazione di impianti che trasformano l’energia di fonti fossili o rinnovabili che siano.

Da tempo scrivo su questo blog della vicenda della conversione della centrale a carbone di Civitavecchia. Anziché aprire una discussione per garantire una presa di coscienza della popolazione sul futuro che le spetta, precipitano sul territorio decisioni o progetti che poco hanno a che fare con la ricerca consensuale del bene comune. Data l’importanza di passaggi come questo, che segneranno la vita di generazioni, mi limito qui a fornire qualche elemento di valutazione, il più accreditato possibile.

Sono di recentissima uscita due importanti studi sulle prospettive delle rinnovabili e sul sostegno dell’idrogeno e delle batterie alla loro efficienza e diffusione: il primo proviene dalla Iea e il secondo da Irena , l’uno e l’altro prestigiosi istituti, le cui analisi non saranno certo sfuggite ai dirigenti di Enel ed Eni che progettano e gestiranno gli impianti energetici dell’alto Lazio in una prospettiva temporale di almeno 20/30 anni, quando, cioè, secondo il Parlamento Europeo le emissioni di CO2 dovranno essere azzerate.

Il contenuto di questi due complessi ed esaurienti documenti, corredati di dati e grafici da chiunque rintracciabili in rete, mostra che la crisi del Covid-19 sta danneggiando, ma non ferma, a livello globale la crescita delle energie rinnovabili. Mentre l’economia globale e la vita quotidiana sono state frenate, le tecnologie per la generazione di elettricità da fonti rinnovabili, hanno dimostrato più flessibilità e maggiore resistenza alla crisi, rispetto agli impianti alimentati da fonti fossili.

Secondo le previsioni e in netto contrasto con tutti gli altri combustibili, le energie rinnovabili utilizzate per generare elettricità cresceranno nel mondo di quasi il 7% nel 2020, “annus horribilis”. A dimostrazione di questa previsione, nell’ottobre 2020, le azioni delle società solari in tutto il mondo erano più che raddoppiate di valore dal dicembre del 2019. Spinta da Cina e Stati Uniti, la capacità rinnovabile netta installata non solo ad uso elettrico crescerà di quasi il 4% a livello globale nel 2020, raggiungendo quasi 200 GW.

Ovvero, con l’aggiunta di energia eolica e idroelettrica la crescita di capacità rinnovabile globale raggiunge un nuovo record in quest’anno tremendo, rappresentando quasi il 90% dell’aumento della capacità totale di energia in tutto il mondo, con un forte incremento nei settori industriali, ancor più che negli edifici.

L’Europa e l’India guideranno un’impennata successiva delle energie rinnovabili nel 2021, valutata attorno a + 10%. Per l’Ue, questo è principalmente il risultato di progetti eolici e solari fotovoltaici su scala industriale precedentemente venduti all’asta in Francia e Germania (non in Italia!) e la cui crescita è supportata dalle politiche degli Stati membri per raggiungere l’obiettivo del 60% di energia rinnovabile al 2030 grazie anche al Recovery Fund dell’Ue che fornisce finanziamenti e sovvenzioni a basso costo. Potremmo quindi dire che le energie rinnovabili resistono alla crisi del Covid-19 ma non alle incertezze politiche…, come nel caso italiano.

Nonostante le sfide emerse dalla crisi del coronavirus, i fondamenti dell’espansione delle energie rinnovabili non sono mutati. Il solare fotovoltaico e l’eolico-onshore sono già i modi più economici per aggiungere nuovi impianti di generazione di elettricità nella maggior parte dei paesi.

I due studi citati affermano che nei paesi in cui sono disponibili buone risorse e finanziamenti economici, gli impianti eolici e solari fotovoltaici metteranno già alla prova gli impianti a combustibili fossili esistenti, non solo i nuovi. I progetti solari infatti ora offrono l’elettricità con il costo più basso della storia. Forse è bene segnalare ad Eni ed Enel (e, ovviamente, informare i cittadini spesso ignari) di riferirsi al grafico qui riprodotto. Come si può vedere, la capacità totale installata eolica e solare fotovoltaica è destinata a superare quella del gas naturale nel 2023 e del carbone nel 2024.


Il continuo calo dei costi delle energie rinnovabili sta cambiando il panorama degli investitori e il ruolo delle politiche. Irena prevede che il costo del KWh da (rinnovabili +batterie o idrogeno) sia già inferiore nel 2027 al costo del KWh da fonte fossile. Inoltre, va ricordato che le misure di stimolo economico incentrate sull’energia pulita possono sostenere direttamente o indirettamente le energie rinnovabili e lo stoccaggio in idrogeno. Sebbene la maggior parte dei miliardi di euro siano destinati dalla Ue in pacchetti finalizzati a fornire sollievo economico a breve termine, la previsione è che circa 300 miliardi di essi siano legati al risanamento del clima.

Infine, gli stessi studi citati rilevano che per un investimento di 1 milione di euro si producono 7,49 posti di lavoro a tempo pieno nelle rinnovabili e 7,72 posti nell’efficienza, contro solo 2,65 nei fossili. Ne vogliamo parlare sul serio a Civitavecchia e nelle Regioni che stanno approvando i Piani energetici? Oppure in Parlamento, dove si deve rivedere il Pniec e tra i cittadini elettori, che sono messi sotto tutela dai tecnici di Enel ed Eni e delle grandi ex-municipalizzate? Tutti appiccicati alle scelte obsolete della combustione del gas, pagato in bolletta sotto le spoglie arcane del “capacity market” e con il contributo dei cittadini consumatori.

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Armi nucleari, ok alla ratifica del trattato per la proibizione. Ma manca la firma dell’Italia

La notizia rimbalza nascosta ma inoccultabile sui media di ogni Paese. Incredulità e disattenzione sembrano gli effetti cui si abbandonano in questi giorni gli opinionisti, i politici, perfino gli intellettuali, che in questo mondo civile hanno spesso dato per scontato che la vita e la sopravvivenza di intere popolazioni – o addirittura del genere umano – potessero essere esposti alla mancanza di controllo di pochi irresponsabili, disposti a risolvere con la forza nucleare più distruttiva le contese e i conflitti internazionali.

In fondo, dopo 75 anni, la nemesi di Hiroshima e Nagasaki ricade su chi ha cercato di interpretare sotto il profilo dell’annientamento la figura del nemico sconfitto. Forse solo così si spiega la mancanza di sollievo e la noncuranza con cui la maggior parte dei cittadini delle potenze nucleari del mondo o che ospitano sui loro territori ordigni atomici (è il caso dell’Italia) ha accolto una svolta storica sul piano legale, anche se non ancora conquistata su quello politico.

Dopo che il 7 luglio 2017, 122 paesi avevano votato in sede Onu a favore del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, il 24 ottobre 2020 il Tpan ha raggiunto i 50 Stati firmatari richiesti per la sua entrata in vigore, dopo che l’Honduras l’ha ratificato, appena un giorno dopo la Giamaica e Nauru.

Nel mondo, a partire dalla voce dei Paesi minori, sta succedendo qualcosa di nuovo e proprio quando la pandemia sembrerebbe sopire le grandi speranze. Sono milioni i cittadini – anche italiani – che si sono mobilitati per vietare le armi nucleari con una legge di validità internazionale e il ruolo della Campagna Internazionale per Abolire le Armi Nucleari, l’Ican, è stato decisivo. Tra 90 giorni, nonostante l’opposizione degli Stati Uniti, verrà ratificato il divieto categorico delle armi nucleari, oltre a quelle batteriologiche e chimiche.

Decenni di attivismo hanno raggiunto quello che molti hanno detto essere impossibile. Tutti e 50 gli Stati hanno dimostrato una vera determinazione, affrontando livelli di pressione senza precedenti da parte degli Stati armati nucleari per non aderire. Una recente lettera, resa pubblica solo pochi giorni prima della cerimonia, dimostra come l’amministrazione Trump abbia esercitato pressioni dirette sui 50 Stati, affinché si astengano dall’incoraggiare altri ad aderirvi.

Beatrice Finh, premio Nobel per la Pace, ha dichiarato: “I 50 paesi che ratificano questo Trattato stanno dimostrando una vera leadership nella definizione di una nuova norma internazionale secondo cui le armi nucleari non sono più solo immorali bensì totalmente illegali”.

Il trattato richiede che tutti i paesi che lo ratificano “mai in nessuna circostanza … sviluppino, testino, producano, fabbrichino e altrimenti acquisiscano, possiedano o accumulino armi nucleari o altri dispositivi esplosivi nucleari”. Vieta inoltre qualsiasi trasferimento o uso di armi nucleari o ordigni esplosivi nucleari – e la minaccia di utilizzare tali armi – e richiede alle parti di promuovere il trattato in altri paesi.

Purtroppo, il cammino reale è ancora lungo e insidioso, anche se la ratifica ha un significato storico e dirompente. Ci sono oltre 14.000 bombe nucleari nel mondo, migliaia delle quali sono pronte per essere lanciate in un istante e la potenza di molte di quelle testate è decine di volte maggiore delle armi sganciate su Nagasaki e Hiroshima. Nessuna potenza nucleare l’ha firmato, e solo 6 dei 49 stati europei hanno approvato e ratificato il trattato: Austria, Irlanda, Malta, San Marino Liechtenstein e lo Stato del Vaticano. L’Italia non ha firmato né ratificato il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, pur essendo uno dei cinque stati europei che ospitano testate nucleari statunitensi nell’ambito di accordi Nato presso le basi aeree di Aviano e di Ghedi.

Settantacinque anni e le lotte per la pace non sono passate invano. Ora abbiamo più chiara una visione delle interconnessioni che regolano non solo la sopravvivenza, ma anche l’orizzonte praticabile di una giustizia sociale e possiamo ancor meglio interpretare gli allarmi “romantici” con cui Albert Einstein, Bertrand Russell, Philip Morrison, Omar Bradley, Joseph Rotblat, cercavano di disinnescare il pericolo tutt’altro che irreale di un conflitto atomico.

Stiamo lasciando l’era nucleare per entrare, ci auguriamo, in quella solare. Per molti aspetti l’era solare oggi è al punto in cui si trovava l’era del carbone quando venne inventata la macchina a vapore. In quell’epoca il carbone era usato per riscaldare le abitazioni e per fondere materiale ferroso, mentre era appena agli inizi l’idea di usare motori a vapore alimentati a carbone per fornire energia alle fabbriche o ai sistemi dì trasporto.

Quando si considerano le tecnologie solari, gli attuali leader politici, ancora affascinati dal carbone e dall’energia nucleare, si comportano come gli scettici del XVIII secolo nei confronti del motore a vapore. L’era solare non può che coesistere con la pace e in tale contesto la connessione tra nucleare civile e militare ha continuato a rappresentare ancor oggi una contraddizione irrisolta.

Sappiamo quanto siano in atto tendenze ambientali che minacciano di alterare a fondo il pianeta e che mettono in pericolo la vita di molte specie che lo abitano, compreso l’uomo. Ogni anno nove milioni di ettari di suolo produttivo si trasformano in arido deserto; ogni anno vengono abbattuti oltre undici milioni di ettari di foreste, che equivarranno in un quarto di secolo a una superficie pari a quella dell’India. In un tempo che viene a mancare è di segno positivo lo slancio dei primi 50 Paesi per bandire il nucleare.

Ora tocca a noi, alla pressione che sapremo fare a cominciare dai nostri Comuni, le nostre Regioni, il nostro Governo. Nell’ultima enciclica “Fratelli Tutti” Francesco sembra anticipare l’avvenimento del 24 ottobre scorso, quando scrive: “Mai più la guerra! E che l’obiettivo finale dell’eliminazione totale delle armi nucleari diventi una sfida e sia un imperativo morale e umanitario. E con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per sconfiggere la fame e la povertà”. Basterà uno sforzo congiunto, non solo a sconfiggere il coronavirus, ma anche a non tornare più a come eravamo prima?

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Green deal, per il sequestro del carbonio servono tempo e denaro. Ma l’emergenza clima è qui

[Continua da qui]

di Mario Agostinelli e Angelo Consoli

Va detto che i costi delle tecnologie per l’idrogeno “blu” non sono affatto prevedibili. In altre parole, mentre sappiamo benissimo quanto sia sempre più competitiva la generazione rinnovabile, quanto costi un elettrolizzatore e quanto potrà variare tale prezzo nel corso del prossimo futuro, nessuno ha mai detto esattamente (e soprattutto nessuno ha mai dimostrato) quanto costa sequestrare sottoterra una tonnellata di CO2 in modo efficace e, soprattutto, sicuro.

La Commissione, pur di schiudersi alle pressioni di Gasnaturally, ha affermato che “al momento attuale né l’idrogeno rinnovabile, né l’idrogeno da fonti fossili con cattura del carbonio sono competitivi se paragonati all’idrogeno fossile”. E, pur ribadendo che “La priorità per l’Ue è lo sviluppo di idrogeno rinnovabile, prodotto utilizzando principalmente energia solare e eolica e che la scelta dell’idrogeno rinnovabile aumenta la capacità industriale europea nel settore degli elettrolizzatori, dispiega nuovi posti di lavoro e crescita economica in Ue” ritiene opportuna “una maturazione della tecnologia e della diminuzione dei costi di produzione”.

Una chiara concessione alle lobby fossili che insistono sul reforming sporco del metano e che non ha nulla a che vedere con il riconoscimento della mancanza di tempo cui l’emergenza climatica ci chiama. E’ chiaro il salto logico: occorre ammettere che, a tutt’oggi, nessuno è in grado di dire quale sia il reale costo del processo di Ccs e, quindi, di affermare che esso sia inferiore o superiore al costo dell’idrogeno da fonti rinnovabili.

Cominciamo col dire che una ricerca internazionale pubblicata di recente su Nature Energy che ha confrontato l’Eroei (il tasso di ritorno energetico di un impianto comparato all’energia necessaria per costruirlo e gestirlo) di impianti a fonti fossili dotati di Ccs con quelli a fonti rinnovabili dotati di sistemi di accumulo ha trovato che gli impianti Ccs hanno un ritorno energetico di gran lunga inferiore. Ma oltre che sul piano energetico, con la Ccs il piatto piange soprattutto su quello economico. Infatti ci sono vari modi di catturare e stoccare la CO2, con diversi livelli di sicurezza. Naturalmente gli impianti di Ccs più economici sono i meno sicuri, e viceversa, i più sicuri sono i meno economici.

Si tratta di un processo che richiede la costruzione di gasdotti particolarmente costosi per il trasporto della CO2 e dell’idrogeno, la cui lunghezza non può essere valutata finché non sia stata decisa la dislocazione dei depositi temporanei, che pure devono essere costruiti appositamente, perché richiedono determinate condizioni geologiche e sismiche che allarmano le popolazioni.

Non tutti sanno che nel 2007, in coincidenza con la strategia energetica sostenibile varata con gran convinzione dalla Merkel durante il suo semestre di presidenza europea (il famoso pacchetto Clima Energia 20 20 20), le lobby del fossile ottennero in compensazione 1 miliardo di euro per realizzare “la costruzione e la messa in funzione nell’Ue, entro il 2015, di 12 impianti di dimostrazione per la produzione commerciale di elettricità con cattura e stoccaggio del carbonio (Ccs)”. A tutt’oggi non se ne ha più alcuna notizia, come è stato certificato da una apposita relazione della Commissione che ha ammesso il fallimento del programma.

Inoltre è intervenuta anche la Corte dei Conti dell’Unione Europea che ha concluso che i finanziamenti ai progetti dimostrativi della Ccs sono stati uno spreco per l’Europa, perché sei progetti non sono stati neanche finanziati per mancanza delle basi minime per accedere ai finanziamenti europei, mentre per gli altri sei il programma “non ha realizzato i propri ambiziosi obiettivi in materia di cattura e stoccaggio del carbonio, poiché nessuno dei progetti che hanno ricevuto finanziamenti dall’Ue ha dimostrato la fattibilità della tecnologia su scala commerciale” (cfr. paragrafi 20-22). Un bilancio catastrofico, dunque, sia sul piano tecnologico che su quello economico, certificato dalla stessa Commissione e dalla Corte dei Conti Europea.

Nel caso esplicito delle dismissioni degli impianti a carbone occorre avviare subito un confronto democratico a partire dai comuni, dai territori e dalle Regioni fino al livello nazionale, per evitare che i prossimi 30 anni siano occupati dal rilancio di una infrastruttura fossile che contrasterà irreversibilmente la transizione europea verso gli ambiziosi obiettivi di idrogeno da rinnovabili. Si avvierebbe così un grande processo di risanamento del territorio e di valorizzazione delle risorse naturali, delle risorse economiche, umane e occupazionali a cui le forze politiche democratiche e i sindacati dei lavoratori non possono sottrarsi.

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Green deal, la strategia europea per l’idrogeno ha luci e ombre. E c’è chi ne approfitta

di Mario Agostinelli e Angelo Consoli

L’8 luglio di quest’anno la Commissione Europea ha pubblicato “A hydrogen strategy for a climate neutral Europe”, la tanto attesa strategia per l’idrogeno, complementare alla nuova strategia industriale proposta a marzo scorso, come parte del pacchetto di misure per il Green Deal europeo, annunciato a dicembre scorso con l’obiettivo della neutralità climatica (emissioni zero) entro il 2050.

La Commissione afferma senza ambiguità che la priorità viene data all’idrogeno verde (ossia quello prodotto unicamente da fonti rinnovabili), mentre l’idrogeno da fonti fossili viene scartato, salvo che si tratti di idrogeno “blu” (ossia ottenuto dal gas naturale fossile senza emissioni di CO2, catturata e sequestrata con un processo di cattura, detto Ccs, che non la rilascerebbe in atmosfera).

Questa fantomatica tipologia Ccs finirebbe col giocare, come vedremo più avanti, un ruolo di pura copertura nel breve e medio termine, a causa di una sua pretesa (conclamata e mai dimostrata) convenienza economica rispetto all’idrogeno verde. Si tratterebbe, quindi, di un trucco per far guadagnare tempo alle corporation del gas.

Infatti, nella versione iniziale, fatta circolare semi clandestinamente il 18 giugno 2020, la Commissione si limitava a menzionare, senza assegnargli alcun ruolo significativo, l’idrogeno “blu”. Senonché, il 24 giugno seguente, Gasnaturally, la lobby di una coalizione di imprese del gas, sindacati e produttori di tecnologie energetiche, rivendicava l’adozione di una strategia per l’idrogeno che seguisse una impostazione “technology-neutral”, di modo che sia l’idrogeno da fonti rinnovabili che quello ottenuto dal gas con la Ccs potessero essere considerati “Clean Hydrogen”, ovverosia “idrogeno pulito”.

E così, il documento ufficiale dell’8 luglio cambia rispetto al “draft” del 18 giugno e assegna un ruolo – a mio giudizio usurpato – all’idrogeno blu, riconoscendolo “necessario” nel breve e medio termine “allo scopo di ridurre più rapidamente le emissioni rispetto ai sistemi attuali di produzione di idrogeno dalle fonti fossili e favorire così la penetrazione di idrogeno rinnovabile sia attualmente che in futuro”.

Sul piano terminologico la posizione della Commissione è estremamente precisa e non lascia porte aperte ad interpretazioni di comodo, né verso una fonte nucleare né verso una produzione tradizionale come quella del reforming da metano senza eliminazione (peraltro costosa) della CO2. Guardiamo infatti ai numeri: la European Hydrogen Strategy prevede un investimento nell’idrogeno blu in una ristretta forchetta fra i 3 e i 18 miliardi di euro entro il 2050, mentre alla stessa data si prevedono investimenti nell’idrogeno verde da fonti rinnovabili pari a una forchetta fra i 180 e i 470 miliardi di euro. Ma è proprio in questa dichiarata irrilevanza del blu rispetto al verde che si possono aprire varchi consistenti per pregiudicare con le decisioni dell’oggi quel che si ritiene indispensabile, ma si rimanda ad un domani indefinito.

Il sostegno dell’Ue all’idrogeno verde prevede addirittura che il mercato degli elettrolizzatori (apparecchiature per ottenere idrogeno solo da elettricità) sia all’incirca tra 24 e 42 miliardi entro il 2030, a cui va aggiunta una cifra oscillante fra 220 e 340 miliardi per gli impianti di energia rinnovabili necessari a fornire la corrente elettrica per l’idrolisi dell’acqua. Di fatto, la strategia europea prevede che ci siano già 6 Gw (6000 megawatt) di elettrolizzatori installati entro il 2024, e addirittura ben 40 Gw entro il 2030, fino a 500 Gw entro il 2050. Una evidentissima propensione per l’idrogeno da rinnovabili e nella prospettiva di zero emissioni di climalteranti.

In altre parole, l’Ue prevede che per l’idrogeno verde si debbano spendere all’incirca 382 miliardi di euro (elettrolizzatori più rinnovabili correlate) entro il 2030, mentre la spesa prevista per l’idrogeno dai fossili non supera i 18 miliardi di euro addirittura fino a tutto il 2050. Allora perché l’accenno “dal sen sfuggito” al Ccs?

Un contentino? Più probabilmente un cavallo di Troia su cui si sono subito tuffate qui da noi A2A, Enel ed Eni, che senza alcuna discussione preventiva hanno rilanciato immediatamente il gas a fronte della riconversione del carbone prevista entro il 2025 a Monfalcone, La Spezia e Civitavecchia, con un immediato plauso di Confindustria.

Eppure, la strategia della Commissione introduce la nozione dell’ecosistema dell’idrogeno da sviluppare in Europa. Per questo il documento della Commissione introduce anche le nozioni complementari degli “Hydrogen Clusters” o delle “valli dell’idrogeno” da sviluppare a livello locale in conformità alla tipologia di insediamenti industriali e produttivi presenti in ogni regione. Ma se le “valli” di Monfalcone, La Spezia e Civitavecchia vengono presidiate oggi dal rilancio dei metanodotti e delle centrali a metano, che avranno un tempo di ammortamento degli investimenti non inferiore ai 25 anni (sempre che non lieviti, come probabile, la carbon tax), chi svilupperà entro questo drammatico quinquennio post-Covid il sistema rinnovabili+idrogeno verde che porta oltre un milione di posti di lavoro?

[CONTINUA]

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Civitavecchia, lo snodo visibile e attuale della transizione energetica

Da tempo pongo sotto esame la riconversione della centrale a carbone di Civitavecchia come snodo visibile e attuale della transizione energetica, che non può certo essere dilazionata nel tempo dalla persistenza dei segni della pandemia.

Come afferma da New York Dan Gearino – uno dei massimi esperti – in Inside clean energy del 4 settembre, “siamo nel bel mezzo della transizione verso l’energia pulita, ma potreste anche non averlo notato”. Infatti, dagli schermi, dalle onde radio o dalle pagine dei giornali la notizia del giorno sposta quella del giorno prima e il cambiamento che dobbiamo affrontare sembra sempre fuori portata al momento giusto.

Nonostante i suggerimenti di mille task force, ancora non è ben chiaro come si intendono spendere o meglio investire in modo produttivo e coerente i 209 miliardi in arrivo con il Recovery fund. Tra i settori strategici occorrerà mettere in conto prioritario l’energia pulita e la digitalizzazione delle reti. Nella classifica europea relativa alla fornitura di servizi pubblici digitali, l’Italia si trova al 19esimo posto, mentre siamo solo 16esimi per la spesa in investimenti e ricerca nelle tecnologie verdi. Vogliamo continuare ad essere fanalini di coda?

Una grande occasione per ridisegnare l’intera area carbonifera, portuale, industriale turistica e paesaggistica fa la sua prova a Civitavecchia, dove le associazioni ambientaliste locali, assieme agli studenti e ad un numero crescente di cittadini ed esperti, si stanno attrezzando per cogliere la sfida lanciata dall’Europa, che ha posto al centro della sua strategia di contrasto ai cambiamenti climatici proprio lo sviluppo dell’idrogeno verde da rinnovabili, mettendo a disposizione enormi risorse e de-finanziando gli investimenti sui combustibili fossili.

Alcune nazioni, Francia e Germania in testa, rispettivamente con uno stanziamento di 7 e 9 miliardi, hanno già da tempo investito risorse proprie: a Cernobbio l’Italia, secondo l’articolista del Corriere della Sera presente al meeting, ha dichiarato di volersi unire ad esse, nella previsione di 540.000 nuovi posti di lavoro. La notizia è stata ripresa in scarni trafiletti da Repubblica e dal Sole 24 ore, ma è durata lo spazio di un mattino.

Negli stessi giorni, il candidato alla presidenza democratica degli Usa Joe Biden ha proposto un piano per il clima e l’energia pulita che mira a portare il paese a zero emissioni nette entro il 2050. Lo stesso è stato affermato da Ursula von der Leyen per l’Ue. Annunci imprudenti? Niente affatto: oggi l’economia è cambiata così tanto da poter essere decarbonizzata fornendo incredibili vantaggi economici e occupazionali, mentre gli effetti del cambiamento climatico, assai più vistosi di dieci anni fa, rendono la fuoriuscita dal carbonio un obiettivo necessario e popolare.

Mentre città, borghi, alcune aziende – e spesso chiese – sono diventati ispiratori nell’affrontare il cambiamento climatico, i governi ascoltano distrattamente le menti più lucide e continuano a stare attaccati ai posti di lavoro nelle filiere fossili e inquinanti, spesso perfino con il consenso dei sindacati. Eppure, sono molti gli studi che affermano che verranno benefici non solo per il clima e l’ambiente, ma anche per le tasche dei consumatori. Proviamoci, allora, in fretta e a partire da dove la situazione si mostra più foriera di successo.

Dato che non è assolutamente vero che il gas debba avere una funzione strategica nella transizione energetica dobbiamo solo progettare dove e come vada concretamente, vantaggiosamente rimpiazzato da tecnologie e sistemi più moderni e adatti alla partecipazione e alla salute dei cittadini. Il caso di Civitavecchia è lampante.

Enel punta a chiudere i suoi quattro impianti a carbone sul territorio italiano entro il 2025. Nel suo piano industriale 2020-2022 investirà il 50% del capex totale del piano in “decarbonizzazione del parco impianti a livello globale”. Entro il 2020 la multinazionale dell’energia prevede di sviluppare 14,1 Gw di nuova capacità rinnovabile, pari al +22% rispetto al piano industriale precedente. Perché mai la sostenibilità per il colosso energetico multinazionale non dovrebbe essere un fattore abilitante fondamentale anche per la sua strategia finanziaria nel Paese di origine oltre che prevalentemente all’estero?

Ci sono forse patti con Eni o altri interessi che lo impediscono? Il sindaco di Civitavecchia Ernesto Tedesco, contraddicendo l’amministratore delegato di Enel Tamburi, si è chiesto perché “anche qui, come a Taranto non si debba parlare di rinnovabili e sviluppo di idrogeno verde” mentre il consigliere regionale dei Cinquestelle Devid Porrello presentava una mozione per creare una cabina di regia per lo sviluppo dell’idrogeno nel Lazio.

Al più presto gli elettori – chiamati a risparmiare (?!) sulla politica – verranno informati che già il 14 settembre il Parlamento europeo si è misurato con la possibilità di contribuire a liberare le regioni europee dai combustibili fossili e di sostenere la creazione di un vero sviluppo e di nuovi posti di lavoro sostenibili.

Gli eurodeputati in quel giorno voteranno in plenaria sul Fondo Just Transition (per la giusta transizione) da 17,5 miliardi di euro, che mira a sostenere gli Stati membri dell’Ue nella loro transizione verso la neutralità climatica. Quella è già un’occasione per ribaltare la posizione regressiva della Commissione per gli affari regionali del Parlamento Ue, che ha votato a favore dell’ammissibilità del gas al finanziamento del Fondo per la Just Transition. La partita è complessa e non si chiude definitivamente in questi giorni, ma sarà in ogni caso riesaminata a livello nazionale e locale.

Io credo che quello di Civitavecchia sia un caso esemplare, che proverò a riprendere su questo blog anche con il conforto dei massimi esperti sulla transizione energetica pulita e verde, di cui il Paese ha bisogno per costruire parchi alimentati da fonti rinnovabili, da linee di trasmissione per elettricità e idrogeno, per fornire energia eolica e solare dalle aree rurali ai centri abitati, consentire una mobilità meno inquinante, rifornire i porti, i litorali e le ferrovie di alimentazione libera da CO2.

Erano questi tutti settori valutati come fonte di posti di lavoro in rapida crescita prima della pandemia e, senza dubbio, rimangono tali a disposizione dell’unica possibile ripresa: quella non uguale a prima. Tanto più a Civitavecchia, da troppi anni martoriata dagli scarti di produzioni nocive e dove una sospensione della conferenza dei servizi prevista per ottobre potrebbe dare il tempo necessario per un approfondimento, anche alla luce delle novità provenienti dall’Europa e dalla piena informazione e consapevolezza dei cittadini, dei loro movimenti, delle loro istituzioni.

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