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Abbiamo trent’anni per diventare ‘carbon neutral’. Ma senza trucchi!

Il nuovo target europeo al 2030, 55% di riduzione delle emissioni climalteranti, comporterà un deciso innalzamento della produzione da rinnovabili. In Italia, la generazione “Next e Green” dovrebbe arrivare a soddisfare oltre due terzi dei consumi elettrici con energie rinnovabili entro soli 10 anni. Per quanto riguarda la potenza solare, a fine decennio dovremmo arrivare ad una settantina di GW (anziché i 52 previsti dal Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima, Pniec) e per l’eolico ad almeno 5 GW in più rispetto a quelli indicati dallo stesso Piano.

Intanto, forte di una politica aziendale che impone ai governi le proprie scelte, l’Eni ha presentato il suo programma, che contempla che al 2025 il gruppo aumenti la sua produzione di idrocarburi, anche se sposterà il peso sul gas, che nel 2024 costituirà il 55% circa delle riserve, contro il 50% attuale.

Ovunque e in simile emergenza climatica si considererebbe questa una provocazione, ma l’insistenza sui fossili ci viene spacciata per un trend salutare. Infatti, afferma l’Ad Claudio Descalzi, “il metano (non dice idrogeno o pompaggi! nda) costituirà un importante sostegno alle fonti intermittenti nell’ambito della transizione energetica”, mentre nella strategia di medio periodo la produzione di gas raggiungerà quella petrolifera tra il 2030 e il 2040, per arrivare al 90% del totale al 2050). E la decarbonizzazione? A metano?

Si tenga conto che il preoccupante aumento della concentrazione in atmosfera di CH4, dovuto alle perdite per estrazione, distribuzione e usi finali, fa della forte metanizzazione degli ultimi decenni una componente importante del global warming, a causa dell’efficacia di questo gas nel produrre l’effetto serra, circa 10 volte maggiore di quella della CO2. E dove è finito allora il discorso di Mario Draghi in Parlamento? Va definita in modo molto più preciso la rotta che si intende seguire per la ripresa del Paese nei prossimi anni, guardando soprattutto ai giovani e all’Italia che loro riceveranno in consegna non nel 2050 ma nel 2030. Segnalando che il triennio 2021-2023 sarà cruciale per la realizzazione anche quantitativa degli obiettivi finali.

Una partenza lenta e un trend poco ambizioso nel breve termine farebbero fallire il conseguimento di ogni risultato. L’Italia parte da più in basso rispetto ad altri Paesi – 30 GW (solare più eolico) nel 2018 – eppure 70 GW nuovi da installare entro il 2030 sono alla portata del complesso industriale e produttivo italiano, tenendo conto anche dell’idrogeno verde da idrolizzatori da mettere a disposizione della rete. Ciò comporta disfarsi subito del Pniec con quel misero 33% di riduzione dei gas serra al 2030. Con l’attuale versione del piano sarebbe oltretutto impossibile riempire il 37% dei 209 miliardi destinati all’Italia nell’ambito Next Generation Eu con il Piano nazionale di ripresa e resilienza, espressamente intesi alla lotta contro i cambiamenti climatici e forieri di ricadute occupazionali rilevanti.

Vanno progettati nuovi processi e nuovi prodotti per realizzare un massiccio spostamento verso l’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili e dei consumi totali d’energia nei vari settori di impiego – trasporti, riscaldamento, industria, costruzioni – come non sarebbe mai possibile con la generazione elettrica da enormi impianti centralizzati, termoelettrici o nucleari.

Ma la resistenza di Eni e delle lobby del gas che agiscono a Bruxelles non va sottovalutata. Secondo una nuova ricerca pubblicata da Global Witness, una Ong internazionale, in meno di un decennio l’Unione europea ha speso 440 milioni di euro per gasdotti che non sono mai stati completati o rischiano di fallire. Soldi sperperati su vecchi asset ed entro scenari geopolitici in continuo mutamento. Ma i sussidi non riguardano solo il passato: sotto nuove e più camuffate forme riguardano il futuro e mettono in discussione il rapido passaggio alle rinnovabili e all’elettrificazione e all’idrogeno connaturati ad esse.

Infatti, sebbene il regolamento Ue per la prima volta escluda i gasdotti e gli oleodotti dal ricevere finanziamenti, lascia la porta aperta al finanziamento delle reti dell’idrogeno ottenute adattando l’infrastruttura del gas esistente. Ipotesi del tutto fantasiosa, se non per allungare la vita al gas metano. Più in dettaglio, mentre la Commissione europea propone di togliere la protezione del Trattato agli investimenti in carbone, petrolio e gas naturale, si prova ad inserire cervellotiche eccezioni: le condizioni del Trattato continuerebbero a essere applicate fino al 31 dicembre 2030 agli investimenti in centrali a gas che emettono meno di 380 grammi di CO2 per kWh (anche se il limite fissato da Bruxelles nella tassonomia per la finanza verde è molto più basso: 100 grammi di CO2/kWh).

E, nel caso in cui queste centrali a gas andassero a rimpiazzare impianti a carbone (vedi Civitavecchia), la protezione sarebbe estesa di altri 10 anni dopo l’entrata in vigore delle modifiche al Trattato, ma non oltre il 31 dicembre 2040! Capito allora perché gli Enti energetici si buttano a costruire centrali a metano nuove di pacca, anziché impianti di rinnovabili disponibili a costi largamente inferiori, ma non automaticamente fornitori di profitti garantiti da sussidi pubblici, capacity market e carbon tax quasi nulle?

Rimane comunque un problema: dato che una centrale a gas metano, per ottenere meno di 380 grammi di CO2 per kWh di produzione, dovrebbe avere un rendimento di almeno il 53% e dato che i gruppi turbogas a ciclo semplice non arrivano assolutamente a questo livello di efficienza – non sono cioè tecnicamente in grado di emettere meno di 380 grammi di CO2 per kWh di produzione – che altro trucco ci si inventerà anziché muoversi in fretta e bene verso le fonti rinnovabili?

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‘L’anticapitalismo imperfetto’, ovvero come ribellarsi davvero allo status quo

Ho appena terminato la lettura di un libro straordinario per lucidità, direi perfino per audacia in alcune sue considerazioni. Si tratta de L’Anticapitalismo imperfetto ed. Kaos, l’ultima opera di Giorgio Galli scomparso alla fine del terribile 2020, aggiornatissima sulla svolta che economia e società dovrebbero avviare anche tra le pieghe della seconda ondata del coronavirus.

Galli rileva una continuità col passato che non sembra incontrare ostacoli, anche perché, se i rapporti e i modi di produzione sono tenaci nel rifiutare ogni cambiamento, è pur vero che le forze di opposizione non sanno indicare alternative che risolvano i problemi dello sviluppo. Contrastando programmaticamente e con un disegno coerente l’ingiustizia sociale e climatica dai territori in cui ciascuno vive, ci si potrebbe contrapporre al “mainstream”, che sembra accettare ogni prospettiva che rientri nella massimizzazione dei profitti aziendali, nella depredazione della natura e nello sfruttamento del lavoro. Se non c’è ribellione allo “status quo”, si condannano le nuove generazioni ad un futuro non desiderabile.

Nel far mie queste considerazioni, mi sono venuti alla mente due eventi attualissimi – vaccini e speculazioni di borsa – che il libro sembra preannunciare e che si riconducono – alla fine – all’oligocrazia delle multinazionali, che nemmeno l’anticapitalismo, proprio perché imperfetto, mette realisticamente in conto.

1. Mentre si celebra l’eccezionale performance della scienza che, grazie alle risorse pubbliche e alla cooperazione globale di tecnologie, metodi di indagine, potenza di calcolo e velocità di comunicazione, arriva a successi imprevisti, si scopre che sono ancora il mercato e il Pil – come ha richiesto impudentemente la Moratti – che regolano l’accesso e la distribuzione del vaccino per l’immunità di gregge. Veniamo a sapere che, nella migliore delle ipotesi, a fine 2021 sarà vaccinato il 50% della popolazione dei paesi del G7 e meno del 20% della popolazione mondiale.

Giorgio Galli, nella sua critica al capitalismo e a proposito dei moderni stermini messi in conto come inevitabili, propone che sia la mano pubblica, che si è impegnata nella ricerca e nello sviluppo, a dover garantire un accesso universale al rimedio. Altrimenti è come “se ci fosse una guerra” non dichiarata e come se un sentimento tutt’altro che nascosto dia per scontato che non c’è posto per tutti sul Pianeta.

Proprio nel libro citato, c’è un dato inquietante desunto in piena pandemia dai valori quotati a Wall Street delle azioni Big Tech: nel maggio 2015, un’azione di Amazon valeva meno di 500 dollari. Nell’estate del 2020 ne vale 2.400. Col ceo Jeff Bezos, Amazon ha un valore di borsa di 1.180 miliardi di euro. Le altre quattro “sorelle” non sono da meno: Microsoft (ceo Satya Nadella) vale 1.360 miliardi; Apple (ceo Tim Cook) 1.330; Google (ceo Sundar Pichai) 769; Facebook (ceo Mark Zuckerberg) 584 miliardi. Intanto, il 21 marzo 2020, la Banca centrale europea annunciava che sarebbero stati stanziati i primi 175 miliardi di euro per sorreggere le 27 economie del continente, messe in grave difficoltà dalla paralisi provocata dal corona virus. E il “pacchetto”, neanche un terzo della minore delle corporation informatiche statunitensi, è parso a tutti una disponibilità eccezionale, seguita poi dalla novità del Next Generation Eu con una dotazione di 750 miliardi.

Ebbene: in pieno crollo dell’economia e dei Pil in discesa a due cifre, non più di cento multinazionali dispongono di una enorme liquidità immediatamente utilizzabile e di linee di credito privilegiate e facilmente accessibili (di fatto, capitali finanziari diretti) che sovrastano le risorse finanziarie di un continente altamente sviluppato e sconvolto dalla pandemia. Ma, allora, chi sta effettivamente governando l’economia globale perché mai dovrebbe farsi guidare verso una riconversione ecologica e orientata alla cura, ai fini di combattere e debellare virus e disastri climatici? C’è un’istanza democratica dove porre un cambio di passo nell’interesse della comunità mondiale e non delle imprese?

Se Pfizer, Moderna e le altre aziende farmaceutiche dovessero rispondere agli interessi e ai diritti universali dovrebbero aumentare la capacità produttiva con un ritorno a breve ridotto e i profitti inferiori a quelli che otterranno ai ritmi attuali. Siamo al paradosso che la salute, se non la vita o la morte dei più poveri, non sono allineati con la massimizzazione dei guadagni delle multinazionali e – perciò! – con la necessità pubblica di metter fine alla pandemia. Il “nazionalismo delle multinazionali” (un ossimoro) chiude i circuiti più convenienti finanziariamente con la stipula di accordi nazionali finalizzati al massimo profitto, mettendo fuori gioco, anche per ragioni geopolitiche, concorrenti come chi produce vaccini in Cina, Russia, Cuba e, in un domani, India.

In L’anticapitalismo imperfetto si descrive una autentica esplosione e una contraddizione del mondo moderno, a cui gli anticapitalisti di ogni provenienza prestano ancora scarsa attenzione. La carenza e la precarietà del lavoro, la crisi ecologica, la digitalizzazione che pervade ogni ambiente e anche l’approccio alla realtà non più deterministico e riduzionista delle scienze moderne, obbligano a considerare le condizioni di lavoro, le relazioni sociali e quella che ci appare come la realtà del pianeta vivente in maniera ben diversa da quella che ci è stata tramandata. Occorre una reinterpretazione, occorrono nuovi linguaggi. Galli teme che anche a fronte di tanta trasformazione, siano le multinazionali e il potere economico da esse definito a impossessarsi delle chiavi del cambiamento che si impone.

2. Qualche segnale di novità compare anche fin dentro le cattedrali della finanza. Così ho riletto la vicenda recentissima di GameStop finita al centro di una battaglia planetaria come un episodio di ribellione previsto e nel libro certamente auspicato.

La società americana in crisi sta vendendo 450 dei suoi negozi di videogiochi a nuovi investitori che la vorrebbero rilanciare come piattaforma di e-commerce. Da tempo, folle di piccoli investitori cercano titoli sottovalutati, senza pagare commissioni, per provocare un aumento delle quotazioni attraverso acquisti massicci e coordinati. A gennaio 2021, col valore del titolo GameStop che si è moltiplicato di 17 volte, hanno perso gli hedge fund che si son visti sfumare 91 miliardi di dollari perché non hanno valutato bene ciò che stava accadendo nel trading online, mentre è andata bene a una generazione ribelle di investitori.

Quel che è interessante è che la rivolta a Wall Street si è fatta politica, dal momento che entra in gioco anche chi vuole demolire le vecchie istituzioni, comprese quelle finanziarie, pensando di far leva su meccanismi di collaborazione digitale che consentono di lanciare attacchi improvvisi e massicci dei quali la finanza tradizionale fatica a capire la natura. Milioni di risparmiatori Usa e precari senza lavoro usano già le tecniche della finanza per attaccarla. Si potrebbe definire un tentativo di “democratizzare la finanza”.

Al di là dell’esito di una partita ancora confusa e apertissima, richiamo la conclusione cui giunge il libro da cui ho tratto queste considerazioni: “Il demo, per evitare il governo oligarchico dei custodi, deve poter votare, con l’estensione del suffragio universale, per scegliere chi comanda davvero. Così l’anticapitalismo potrà essere meno imperfetto. anche per opporsi ad una involuzione autoritaria della stessa democrazia rappresentativa. Perché non evocare l’idea dell’elezione a suffragio universale di una quota consistente dei vertici delle multinazionali? Risulta evidente – conclude Galli – come non si tratti del destino del capitalismo, ma dell’ampliamento della democrazia rappresentativa”.

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Clima, il nuovo Piano di ripresa difende ancora il modello dei fossili: serve una strategia più coerente

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) approvato in versione definitiva il 15 dicembre, pur inanellando titoli, argomentazioni e tabelle ammiccanti ad un nuovo corso, lascia trapelare tra le righe il vecchio, dato che non ci sono quasi cifre di riferimento per gli obiettivi da agguantare in una situazione di emergenza climatica e – quando ci sono – rivelano la incomponibile contraddizione tra il Piano Energetico Nazionale (Pniec) e il Green Deal adottato dal Parlamento Europeo.

Già dalla mancanza di numeri da associare agli obiettivi dichiarati si deve prendere atto che sulla questione climatica il Governo non possiede strumenti previsionali. E lo si capisce dal fatto che molto – troppo – del vecchio modello energetico fossile è ancora di fatto consolidato e difeso. Quella proposta è una transizione lenta e sullo sfondo del testo non è difficile rintracciare le “dettature” cui la programmazione energetica italiana continua ad esporsi. Si tratta dell’influsso evidente di Eni in particolare, ma anche di Enel, stranamente restia ad abbandonare da noi i fossili, dopo aver convinto i mercati mondiali attraverso le interviste del suo Ad Starace di essere l’utility meglio disposta al salto verso le rinnovabili.

L’intenzione di fondo che risulta dal Pnrr è quella di mantenere elevato il mix di fonti a favore del gas e di conservare centralizzato il controllo della rete, costruendo perfino nuove centrali di potenza coperte dal capacity market, anziché ricorrere ad altri sistemi di stabilizzazione e stoccaggio come l’idrogeno o i pompaggi. Rispetto al Pnrr è facile essere sospettosi anche senza malizia: perché, infatti, incentivare nel documento il disaccoppiamento dei flussi termici ed elettrici degli impianti a gas a ciclo combinato da costruire ex novo o addirittura incentivare turbine a gas “come parte integrante del futuro mix energetico”? La spiegazione non può che essere quella di consolidare la connessione di centrali termiche alla rete e di estendere la possibilità delle centrali in attività di incorporare nella combustione gas “verdi”, come nel caso di idrogeno mixato al “grigio” metano.

Con più malizia si potrebbe perfino arguire che non è sparito del tutto il progetto di sequestro nel terreno di CO2, dacché si parla a pagina 71 di un “aumento degli assorbimenti della CO2 dalle superfici e dai suoli forestali”: magari per superfici si potrebbe intendere anche il loro perforamento per uno stoccaggio in profondità…

A parte la visione, nel Pnrr manca l’innovazione nello sviluppo delle fonti rinnovabili – mancando il nodo cruciale della loro localizzazione in chiave sostitutiva dei fossili. Occorre, insomma, darsi una strategia che si carichi di tutti i problemi energetici e che configuri un futuro coerente per un Paese in profonda crisi, stringendo i tempi, localizzando gli interventi e investendo con decisione su risorse anche intellettuali scientifiche e organizzative – giovani in particolare – su cui contare. Tra l’altro, appare quanto mai bizzarro che il Governo abbia affidato ad Eni e Confindustria la preparazione della sessione sul clima per il G20 a Napoli.

Non esamino qui in dettaglio il Pnrr, bensì esprimo la convinzione che, per superare una certa fumosità, alcuni suoi stimoli, quantunque pecchino di genericità, possano invece essere tradotti in proposte condivise a livello locale sulla base di decisioni assunte in processi democratici. E’ possibile cioè individuare da subito da dove partire, a cominciare dai siti che traducono l’opposizione a impianti che hanno ferito la salute e l’ambiente in progetti realistici, compatibili con una biosfera da troppo tempo pregiudicata e parimenti inseribili in un coerente quadro nazionale ed europeo di lotta al cambiamento brusco del clima.

Senza una consultazione allargata e senza la partecipazione dei territori più esposti, che in genere si sono sentiti “richiamati in servizio” per il puro fatto di essere già sedi di impianti inquinanti, non ci sarà partecipazione democratica alla svolta annunciata in piena pandemia. Ricordo poi che la Commissione Ambiente del Senato ha chiesto di adeguare in fretta il Pniec ai nuovi obiettivi europei, velocizzare gli iter autorizzativi per le rinnovabili, ridurre il ruolo del gas nel nostro sistema energetico, rivedere il capacity market e puntare di più sullo storage non fossile (idrogeno e pompaggi), oltre che investire massicciamente su eolico e solare e idrogeno verde, come previsto dal relativo piano europeo.

La situazione in atto a Civitavecchia mi sembra opportuna per far precipitare le verifiche sopra delineate. Il 15 gennaio è nato nella Tuscia, attorno al sito carbonifero da 2000 Mw della città portuale, un fronte contro le tre centrali a turbogas previste lungo il litorale da Enel e Tirreno Power: Torrevaldaliga nord, Torrevaldaliga sud, Montalto. Si è riunito on line un network di associazioni, istituzioni e organizzazioni sociali e politiche. Una riunione che ha dato vita a un “tavolo permanente di confronto democratico” che ha il compito di elaborare una proposta alternativa al turbogas di Civitavecchia da presentare alla Regione e al Ministero dello Sviluppo Economico.

Un fatto decisamente nuovo, se si pensa che l’insolito interlocutore del Mise raccoglie già una ventina di rappresentanti istituzioni, sindacati, forze politiche, comitati e associazioni di piccole imprese. Tra essi il sindaco della città Ernesto Tedesco, l’ex sindaco grillino Antonio Cozzolino, Cgil, Uil, Cna, altri sindaci della zona, le associazioni del territorio – tra cui il comitato Sole e Città Futura – con l’appoggio del sindaco di Viterbo, del consigliere del Pd in Regione Lazio, di Rifondazione Comunista, dei Verdi, e con la presenza attiva dei ragazzi di Fridays for Future.

Una proposta che dà vita ad “una cabina di regia” che si avvarrà anche di esperti e specialisti e che punta ad un ridisegno del territorio con l’obiettivo della neutralità climatica e il criterio della sufficienza esteso fino alla mobilità, alle funzioni del porto, all’attività economica ed industriale nel suo complesso. E che, oltre alla salute e all’ambiente, porta in evidenza l’obiettivo dell’occupazione e la creazione di un centro scientifico sperimentale a sostegno della riconversione. Gli stessi enti energetici per primi potranno mettere a disposizione pubblicamente le loro disponibilità oppure limitarsi ad esprimere sempre in sede pubblica una resistenza difficile oggi da giustificare. Niente male di questi tempi…

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Nucleare e gas climalteranti: fonti diverse, ma con una grave eredità in comune

E’ fuor di dubbio che l’evocazione del nucleare a oltre 30 anni dal referendum che chiuse gli impianti in Italia e a 10 anni dalla reiterazione di una volontà popolare che ha sottratto il nostro Paese ad una colonizzazione tecnocratica, che continua a costare assai cara a molti paesi europei, porta a considerazioni che non sono riservate solo agli specialisti, ma entrano in sintonia con la riflessione che l’accelerazione del cambiamento climatico e l’esperienza della pandemia ha indotto in grandi strati del sentire popolare.

“Quanto tempo manca” è la domanda che tocca ora non solo le nuove generazioni, ma chiunque riscopra il legame fragile tra uomo e natura, che è stato rotto con un assalto complessivo e su più fronti da parte di un sistema di produzione e consumo che sta riducendo le possibilità di sopravvivenza.

Credo che le prime avvisaglie di un cambiamento netto di fase, che quotidianamente possiamo riscontrare nella devastazione operata su una natura resa ostile e nel ritrarsi di quella amica, siano apparse all’orizzonte proprio con l’era nucleare. Una tecnologia che intrinsecamente sfugge ad un pieno controllo sociale e, nel contempo, supera artificialmente i limiti imposti dai tempi biologici e della riproduzione della vita.

La scansione di catastrofi come Hiroshima, Chernobyl, Fukushima è lì a ricordare che quando la forza dell’industria umana diventa più potente delle forze geologiche e naturali, può entrare in gioco la sopravvivenza.

Proprio con il nucleare l’umanità ha cominciato, ancor prima che l’aumento di gas climalteranti producesse devastazioni sul pianeta, a doversi prendere in carico l’incertezza del futuro delle nuove generazioni. Non è banale dover intrecciare due grandi emergenze – quella climatica e quella nucleare – con un’urgenza che si fa sempre più pressante.

Pertanto, la prima cosa che balza all’attenzione in questi giorni in cui viene presentata la mappa dei depositi nucleari è il peso di un’eredità pesantissima, che si tende a rimuovere, ma che va risolta ora senza scaricarla sulle prossime generazioni.

Ma, dato che questo è il tempo della pandemia e del riscaldamento irreversibile del Pianeta, dobbiamo convincerci che senza una svolta nelle politiche energetiche potremmo lasciare eredità perfino più esiziali di quella su cui si apre la discussione sulla mappa, pompando e consumando fossili che la scienza del clima esige siano lasciati sottoterra.

Lo dico perché non si troverà facilmente una soluzione al problema del deposito delle scorie se Eni, Enel e governo rimarranno nel frattempo appesi a piani e progetti che potenziano un sistema elettrico centralizzato, reiterato con uno strategico e rinnovato ricorso al metano, anziché decentrato e alimentato dalle rinnovabili. Se questo avverrà, l’Europa non ci rimprovererà più solo il ritardo nell’individuazione del deposito delle scorie nucleari!

La mappa non dice il punto in cui bisognerà costruire il deposito. Delinea invece tutti i 67 luoghi in cui ci sono le “condizioni tecniche” ed indica in 12 siti le candidature più solide (due in provincia di Torino, cinque in provincia di Alessandria, cinque in provincia di Viterbo).

Se andiamo indietro nel tempo, potremmo ricordare la lunga lotta delle popolazioni del metapontino attorno a Scanzano per respingere nel 2003 il tentativo di Carlo Jean, commissario di Governo, di costruire un deposito sotterraneo, geologico, definitivo, anche per rifiuti ad altissima radioattività.

Il giornale di Confindustria ad inizio 2021 mette insieme quel ricordo con le sollevazioni delle popolazioni della Valsusa contro l’alta velocità e nel Salento contro il metanodotto Tap. Un’operazione sottile di discredito delle lotte sul territorio, per far capire che, al di là di tutto, poi e comunque si procede.

Non si tiene affatto conto che non si tratterà di un gioco a rimpiattino tra i diversi campanili individuati, ma di un atto di corresponsabilità nazionale, rimandato ad oggi dopo essere rimasto nei cassetti della Sogin, che forse ha pensato bene che, con la testa presa dal vaccino, la discussione sul sito del deposito sarà più distratta.

E non basterà certo – come testualmente afferma l’autorevole quotidiano citato – “cercare di convincere i Comuni ricompresi nella mappatura a farsi avanti: ci sono incentivi, occasioni di crescita, prospettive di lavoro e di benessere, soprattutto nelle aree marginali che si stanno spopolando”. Con questo criterio di scambio, tutto sommato volgare, il gioco, pur essendo necessario, non varrebbe la candela.

Oltre che rendere trasparenti le misure di sicurezza, le modalità per affrontare la gestione con il massimo rigore e con i massimi livelli di garanzia sanitaria e ambientale, accettando – come chiede il Wwf – il fondamentale principio di reversibilità nel caso la situazione subisca modificazioni, occorre un passo ulteriore. In definitiva, senza la certezza di una svolta profonda – oggi! – nelle politiche energetiche del Paese verso la neutralità climatica, l’ultima fase dell’uscita dal nucleare risulterebbe meno risolutiva e, perciò, meno convincente per farsene carico.

Per questo ho fatto un collegamento tra due grandi questioni in apparenza tra loro disgiunte. La discussione va aperta in un contesto chiaro e aggiornato. Quanto tempo ancora dovrà passare perché da Saluggia e Trino, che hanno oggi la più grande quantità di materiali radioattivi di tutta Italia e i più pericolosi, vengano trasferite e messe in sicurezza tutte le scorie che hanno destato le più profonde preoccupazioni nelle popolazioni locali? E come si svolgerebbe una discussione sul deposito di scorie a Montalto di Castro, quando si potrebbero quasi vedere con un cannocchiale le nuove torri del turbogas da 1,8 MW di Civitavecchia?

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Idrogeno verde, l’unico rimedio alla crisi idrica e climatica. Checché ne dicano le lobby e Michael Moore

Il dibattito aperto sull’introduzione accelerata e massiccia del vettore idrogeno in un futuro sistema energetico più sostenibile è incentrato in gran parte su aspetti rilevanti, ma che non tengono per ora in conto una risorsa vitale come l’acqua. Gli esperti si misurano sui costi, sulle evoluzioni tecnologiche dei sistemi di produzione e di distribuzione, sui miglioramenti di efficienza di un ciclo ad oggi ai primi passi. Gli economisti e i governi si mostrano più o meno sensibili all’interesse dei maggiori gruppi multinazionali a mantenere centralizzato e dipendente da grandi impianti l’introduzione di un sistema di accumulo innovativo su larga scala. Tutti concordano sui vantaggi che deriverebbero dal conservare e immettere in rete l’energia prodotta, aumentando l’efficienza del sistema e, soprattutto, decarbonizzando significativamente il ciclo di produzione e consumo.

L’idrogeno sembrerebbe una soluzione ideale, ma occorre tener conto che, pur essendo diffuso nell’atmosfera, lo si trova per lo più legato saldamente in molte molecole, come gli idrocarburi o l’acqua, in cui il legame chimico con l’ossigeno è talmente forte che, fino agli ultimi decenni del ‘700, il liquido più diffuso sul pianeta era considerato inscindibile nei suoi componenti.

Quasi mai si riflette sul fatto che l’idrogeno può essere prodotto in quantità importanti solo scindendo molecole molto stabili, come ad esempio il metano (CH4) o, soprattutto, l’acqua (H2O), rilasciando nel primo caso gas climalteranti e nel secondo – almeno a prima vista – soltanto ossigeno dopo aver consumato corrente elettrica.

L’acqua da sola copre il 71% della superficie terrestre e il suo volume è di circa 1,5 miliardi di chilometri cubi. Quindi il ricorso all’acqua, così drammaticamente preziosa e carente in gran parte del pianeta abitato, dati i grandi numeri di sopra e l’urgenza di trovare soluzioni al cambiamento climatico, viene persa di vista nella ridefinizione del nuovo modello energetico.

Se andate su Google per sapere quanta acqua si consuma per produrre un kg di idrogeno farete fatica a raccapezzarvi. Semplificando qui al massimo, potreste, dopo molti sforzi, arrivare a cogliere la pericolosità di produrre idrogeno direttamente da metano e vapore acqueo (idrogeno grigio), come vorrebbero i più imprudenti, dando luogo ad emissioni assai dannose oltre che a massicci consumi di acqua.

Sareste poi incuriositi dai processi di elettrolisi, per cui l’idrogeno viene ottenuto al catodo di una cella contenente acqua con il passaggio di corrente elettrica. In sé il consumo di acqua nel solo processo di idrolisi non appare eccessivo (circa 10 litri di acqua per 1 kg di idrogeno). Ma come si può trascurare quanta acqua viene consumata per produrre la corrente necessaria a scinderne la stupefacente struttura molecolare?

A questo punto, ecco comparire due altri colori dell’idrogeno: il blu, quando l’elettricità proviene da centrali a metano con sequestro di CO2, il verde, quando la corrente proviene da eolico o fotovoltaico, che funzionano senza consumo d’acqua. A parte i problemi di costi – che non trattiamo qui – come non stupirci che non ci si faccia mai carico del fatto che l’idrogeno blu, in quanto prodotto da centrali a carbone o gas fossili, richiede enormi quantità d’acqua consumate in particolare nei cicli di raffreddamento?

Ad esempio, uno dei vantaggi propagandati della futuristica economia dell’idrogeno negli Stati Uniti è che l’approvvigionamento di idrogeno, sotto forma di acqua, è virtualmente illimitato. Questa ipotesi è talmente scontata che nessuno studio importante ha considerato appieno quanta acqua avrebbe bisogno un’economia dell’idrogeno sostenibile se non si alimentasse solo con fonti rinnovabili.

Michael Webber, direttore associato presso il Center for International Energy and Environmental Policy presso l’Università del Texas ad Austin, ha recentemente colmato questa lacuna fornendo una prima analisi del fabbisogno idrico totale con dati recenti per un’economia dell’idrogeno “di transizione” negli Stati Uniti a trazione fossile. L’analisi di Webber stima che per la quantità di idrogeno prevista dal piano al 2030 si utilizzerebbero circa dai 72 ai 260 trilioni di litri di acqua all’anno come materia prima per la produzione elettrolitica e come soprattutto refrigerante per l’energia termoelettrica. Si tratta di 196-714 miliardi di litri al giorno, un aumento del 27-97% dai 737 miliardi di litri al giorno (272 trilioni di litri all’anno) utilizzati oggi dal settore termoelettrico per generare circa il 90% dell’elettricità negli Stati Uniti.

Il significato più grande di questo lavoro di ricerca di Webber, unico al mondo, è che, utilizzando l’idrogeno come vettore ma lasciando inalterato il ricorso a centrali fossili (idrogeno blu) al posto di impostare un radicale decentramento sostenuto dall’elettricità fornita dalle fonti rinnovabili, potremmo avere un impatto molto drammatico sulle risorse idriche. C’è solo l’idrogeno verde come possibile soluzione sia all’emergenza climatica che a quella idrica.

In un recentissimo articolo Nicholas Kusnetz, reso famoso come consulente e protagonista del film di Michael Moore Planet of the Humans, suggerisce a Joe Biden il terreno su cui potrebbe nascere una intesa bipartisan sul clima: la produzione di idrogeno blu con il metodo di cattura e stoccaggio della CO2! Quindi, a suo dire, un sostegno sia dei democratici che dei repubblicani alla lotta climatica troverebbe un compromesso nel destinare incentivi alla cattura di anidride carbonica da sparare nei pozzi o da iniettare nelle caverne sotterranee, cioè un sostegno alle lobby dei fossili, ovvero al mantenimento del sistema energetico responsabile primo della crisi climatica.

Questo spiega le critiche che erano venute dal mondo ambientalista all’impostazione del film di Moore, il peggiore e più ambiguo nella carriera del famoso e spesso riconosciuto regista.

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