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Transizione ecologica con metano e nucleare? Ci vuole una buona dose di arroganza

di Mario Agostinelli e Paolo Cacciari

D’ora in poi chiameremo il nostro ministro alla finzione ecologica Atomino. Forse qualcuno si ricorderà il Pioniere, l’inserto del giovedì per i piccoli dell’Unità nei primi anni ’60. Uno dei personaggi principali dei fumetti era Atomino, l’atomo di pace che veniva dal freddo per dare prosperità e felicità a tutto il mondo.

La riorganizzazione del ministero alla Transizione ecologica preparata dall’agenzia privata di consulenza Ernst & Young – 21 pagine ponderose tradotte dall’inglese e consultabili al sito del ministero – prevede tra le competenze del Dipartimento Energia gli “impieghi pacifici dell’energia nucleare”. Ohibò! Per fortuna che gli impieghi militari non sono consentiti all’Italia. Ma forse con Draghi si può sperare.

Per ora il nostro simpatico Atomino si accontenta degli Small Modular Reactors (come quelli installati su navi e sommergibili da guerra degli Usa e della Russia) sponsorizzati dalla Francia che sta bloccando da un anno le trattative in Europa sulla applicazione della “tassonomia” degli investimenti verdi (atti delegati del Regolamento 2020/852) che serve ad individuare le tecnologie considerate utili al fine di raggiungere gli obiettivi climatici del Green Deal (riduzione del 55% delle emissioni di CO2 entro il 2030 e “neutralità” entro il 2050) e quindi finanziabili anche con i denari della Banca Europea e del Next Generation UE.

Il nostro Atomino non solo appoggia la Francia nell’includere il nucleare tra gli investimenti “verdi”, ma chiede un trattamento di favore anche per il metano se impiegato per produrre idrogeno (Blue Hydrogen) e se le relative emissioni di anidride carbonica dovessero essere catturate, concentrate, liquefatte, pompate e scaricate nelle viscere della Terra. Tra le competenze previste dal nuovo Regolamento del Ministero c’è quella di autorizzare gli “stoccaggi di CO2 nel sottosuolo”. Insomma, una tecnologia all’avanguardia, come quella della scopa che fa sparire la polvere sotto il tappeto.

Ma basta leggere gli allarmi dell’Iea (Agenzia Internazionale per l’energia .-non certo un circolo di vegani) o dare un’occhiata al mare di Fukushima o alle brughiere di Chernobyl: il metano sfugge dalle infrastrutture di trasporto e rende ancor più letale il mix di climalteranti in atmosfera; i prodotti della fissione nucleare sono per sempre! Ci vuole una buona dose di arroganza e imprevidenza per considerare metano e nucleare “combustibili di transizione”. Intanto i consumi energetici crescono e la quota di energie rinnovabili ristagna.

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Il G8 di Genova è stata un’occasione che si è scientemente fatta implodere

È impossibile separare l’immaginario collettivo elaborato a 20 anni dal G8 genovese dall’esperienza diretta di una giornata splendente e “pura” di primo mattino, colma di speranza e come sbocciata dopo una notte di smarrimento impresso dall’uccisione di Carlo “ragazzo”. I pullman che a Boccadasse – fianco mare – srotolavano fiumi di persone che si aggrumavano in corteo dietro molteplici striscioni e bandiere colorate alimentavano la convinzione che il rifiuto della violenza avrebbe finito per avvolgere una città magica per la sua storia e la memoria antifascista.

Una moltitudine determinata procedeva infatti ordinata con la sensazione che la “Zona Rossa” dei potenti della Terra fosse un loro autoisolamento, timoroso del contatto con sudditi in avanscoperta di un mondo desiderabile. Nonostante sparute incursioni di qualche “black-bloc”, difficilmente distinguibile dalle divise speciali dei poliziotti in formazioni compatte, c’era una calma familiarità in quel popolo che proveniva da tutta Europa. La consapevolezza di una forza di massa che pretendeva “un altro mondo possibile” sarebbe stata però presto ammorbata e sfregiata dai gas e dai pestaggi in pieno giorno e, infine, precipitata nei massacri della serata e di quella terribile notte.

Provo – probabilmente in uno sforzo inadeguato e forse pretenzioso – ad estendere da testimone alcune considerazioni che “tengono” ancor oggi in prospettiva, ben consapevole che a Genova 2001 si è scientemente fatta implodere una occasione di convergenze a dimensione popolare, democratica e globale, che avrebbe forse dato tempo alla maturazione di un sistema adatto al progredire della storia umana, già allora incompatibile con una continuità inaccettabile di predazione della biosfera e di incessante crescita delle disuguaglianze.

In altre occasioni (vedi Genova con noi ed. Punto Rosso) ho estesamente raccontato lo svolgersi della giornata, che è arricchita e documentata da mille voci, immagini, video: qui mi preme riprendere solo le considerazioni che a distanza potrebbero essere andate sorprendentemente in ombra.

C’era ed era forte, combattivo, organizzato e in forma di presenza popolare il mondo del lavoro: in particolare la Fiom nazionale, la Cgil della Lombardia (37 pullman stipati, da Milano, Brescia, Brianza, Lodi ed altre province), diverse Camere del Lavoro liguri, emiliane e del Sud, tutte allertate per un energico servizio d’ordine e per servire una manifestazione condivisa, dovuta, in linea con Seattle e Porto Alegre, nonostante non avesse l’avallo dalle segreterie confederali nazionali. Una presenza assai significativa, perché andava dritta alla difesa dei diritti sociali, era folta di ragazze e ragazzi ed aspirava ad un “senso del lavoro”, che da Genova in poi resisterà come fulcro contro il disprezzo di cui si è fregiata la globalizzazione capitalista.

Il mondo del 2001 era un mondo molto diverso da quello attuale. Si veniva dalla sbornia dei successi della new-economy informatica e le varie leadership europee di centro-sinistra degli anni 90, dopo aver messo in soffitta conflitto di classe ed anche solo sincere prospettive socialdemocratiche, ripetevano senza interruzioni i nuovi dogmi. Cercavano di convincerci che il libero mercato e la globalizzazione ci avrebbero accompagnati verso un futuro di benessere e libertà; che il welfare e i diritti del lavoro erano un orpello novecentesco e che la flessibilità era una opportunità per una vita avventurosa e dinamica. Il corteo metteva a nudo le menzogne più infide, ma lasciava lacunoso un aspetto fondamentale: mancava la coscienza che la riduzione di natura amica e il suo degrado fossero il frutto della crescita dominante e che una nuova ingiustizia, quella climatica, avrebbe scortato l’ingiustizia sociale. La marcia dei migranti il 19 luglio 2001 a Genova, ad esempio, esternava il massimo di fraternità interna, ma incontrava una insipida collateralità del mondo sindacale.

Credo che tra gli obbiettivi della repressione e della mattanza organizzate e premeditate nei giorni genovesi ci fosse quello di avvisare, in particolare le nuove generazioni, che tra occupazione e ambiente, agricoltura industriale e cura della natura, speculazione immobiliare e biodiversità, i secondi termini dovessero essere oscurati per essere funzionali alla crescita e ai profitti. Nel 2001 eravamo ancora nel campo della geopolitica, prima che gli anticipatori dell’ecologia integrale e poi Francesco e Greta ci portassero in quello della biosfera. Era – di fatto – ancora una cultura antropocentrica e patriarcale ad alimentare il potere in economia e politica.

Quando portammo le foto di Genova (Berlusconi-Fini) al Forum Sociale di Porto Alegre del 2002 (Lula) i brasiliani mostravano verso quelle immagini lo stesso orrore con cui noi guardiamo oggi le foto dei seppellimenti dei morti di Covid a Manaus (Bolsonaro). In pochi decenni i cambiamenti sono insospettabili e sempre marchiati dalla violenza, che tuttavia non può che stemperarsi se si pensa alla sopravvivenza come chiave del futuro. Il cartello del Genoa Social Forum teneva insieme ben 1.187 soggetti politici, sociali e associativi i più diversi l’uno dall’altro. Un fronte ampio e composito, mai più ricostituitosi a quelle dimensioni, ma sedimentatore del metodo della convergenza e che, dopo aver retto in qualche modo la repressione del G8, nei due anni seguenti sarebbe stato capace di portare in piazza milioni di persone nelle battaglie sociali come quella per la difesa dell’articolo 18.

Solo 53 giorni dopo il G8, l’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York ci porterà diritti allo scenario della guerra globale permanente. E in effetti va a compimento una “contronarrazione” da parte dei media del potere che già si era avviata nei giorni di Genova: i disordini anziché l’enorme e pacifico corteo che l’ha attraversata; il crollo delle Torri stipate di vita, di commercio, di relazioni e di benessere anziché l’attacco al simulacro della potenza militare del Pentagono; le immagini arroganti e demoniache, prese dagli archivi, di Bin Laden e di Mohamman Omar anziché le riprese in diretta di Al Jazeera dei derelitti civili morti a Kabul; e, in accompagnamento i talk show sempre regolati dalle stesse maschere, anziché le trecentomila persone che a Perugia marceranno due mesi dopo Genova contro la guerra.

Contrapponendo sapientemente immagini a contrasto, si vuole imporre al ragionamento critico di non posarsi con la sua autonomia sull’impressionante concatenamento dei fatti e farne memoria critica. Eppure, non si può affatto trascurare che a Genova si consolida e nasce una narrazione che oggi, di fronte alle emergenze del cambiamento climatico e dell’estrema ingiustizia sociale, riprende il suo corso con accenti diversi ma con lo stesso sapore di sfida campale ai governi del pianeta. Ora sono tempi nuovi e quei semi stanno faticosamente riapparendo.

Il G8 rimane un punto di svolta. Un annuncio di un cambiamento strutturale che sta diventando maturo anche dopo la pandemia. Ed esserci ora, come allora, quando la posta è alta e non tirarsi indietro è, comunque, lasciarci dietro un germoglio da curare per chi verrà e non farsi strappare da chi le gemme le fa bruciare in una stagione in cui il clima ormai colpisce inesorabile.

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Eni per il gas, Enel per l’elettrico: i due enti energetici non potrebbero essere più distanti

In due giorni successivi sono uscite due comunicazioni su giornali nazionali che non potrebbero essere meglio rappresentative di un conflitto che finalmente giunge fino ai piani alti dei decisori e che ha al centro il mantenimento o l’esclusione del gas come risorsa strategica nella transizione. Da una parte (7 luglio) una banale esposizione di un giornalista del quotidiano confindustriale (Sole 24 ore) sulla decisione di Eni di produrre a Ravenna energia da metano con sequestro della CO2. Dall’altra (8 luglio) un’intervista sulla Nuova Sardegna dell’ad di Enel Francesco Starace sulla emancipazione dai fossili della Sardegna, per farla diventare territorio ad esclusiva fruizione di energia da vento, sole, acqua. Le posizioni dei due enti energetici multinazionali italiani non potrebbero essere più distanti.

Vediamone le implicazioni, pur tenendo conto che le decisioni finali dovrebbero dipendere dalla politica e dal governo, tutt’ora molto confusi e reticenti.

Difficile a mio parere imbattersi in articoli più imbarazzanti di quello apparso sul Sole 24 Ore del 7 luglio 2021 a firma di Jacopo Giliberto. Si racconta di come sia inevitabile ed anche conveniente sequestrare CO2 prodotta da metano per riempire caverne sottomarine svuotate precedentemente del gas che contenevano. E’ talmente irriducibile la convinzione degli ispiratori dell’articolo di dire “verità” inoppugnabili, da suggerire nel sottotitolo un tempo di lettura senza respiro né confutazioni: 4 minuti… e via andare!

Il linguaggio è militaresco e in alcuni dettagli evoca sigle da controspionaggio: “guerra contro il clima”, “sfida della cattura dell’anidride carbonica, il gas accusato di riscaldare il clima”, “stoccaggio geologico di anidride carbonica nella concessione di coltivazione (dall’apparenza misteriosa n.d.r.) A.C 26.EA”.

In sostanza, Eni ha richiesto la licenza per sotterrare CO2 in un vecchio giacimento vuoto di metano sotto il fondo dell’Adriatico al largo di Ravenna. Si ammette, tuttavia, che i finanziamenti europei previsti nel Pnrr verrebbero esclusi e che, anzi, l’Ue ha in previsione di far lievitare i costi delle emissioni climalteranti con pesanti costi per le aziende ed “il rischio di farle uscire dal mercato fino a portarle al fallimento”. Naturalmente, non si spiega perché le combustioni di gas fossile vadano irreversibilmente eliminate, non nell’interesse delle imprese, ma in quello dei cittadini e dei lavoratori. La cattiva fama del CCS è “colpa dei comitati Nimby e di alcuni ecologisti che ritengono il pompaggio di CO2 nel sottosuolo un palliativo costosissimo destinato a mantenere in vita un modello di produzione e di consumo da loro disprezzato”. Da tempo non leggevamo argomentazioni così grossolane e offensive rispetto all’informazione cui i cittadini e le generazioni che verranno avrebbero diritto.

In sostanza, ci si chiede di svuotare prima i giacimenti di metano per produrre energia attraverso la combustione e, successivamente, riempire quelle stesse caverne, magari sottomarine, con un gas velenoso e più pesante dell’aria, secondo un ciclo a bassa efficienza ed alti costi, che crea rischi alla salute e alla stabilità dei suoli, pur di consumare riserve fossili che dovrebbero – quelle sì – rimanere sottoterra!

Ci metteremmo così alla pari – dice il Sole – con le licenze che Eni sta già avanzando nel Regno Unito, in Australia e a Timor Est.

Sorprendente invece, ma non inaspettata, l’intervista a Starace su Nuova Sardegna: “Enel farà della Sardegna un polo verde, incrementando l’elettricità, rinunciando al carbone e puntando su rinnovabili ed accumuli. Anticiperemo – dice l’ad della multinazionale italiana – i tempi della decarbonizzazione con progetti fattibili, credibili, sostenibili sia ambientalmente, che economicamente e con nuove assunzioni e nessuna trasformazione delle centrali a carbone con metano”. E questo da subito, cioè da qui al 2030. Alla domanda: perché niente gas, la risposta è inequivocabile: “Non ha senso investire nel gas, quando si pensa che servirà a stabilizzare il sistema solo per un breve arco di anni. Si tratta di cambiare per sempre i paradigmi ambientali locali e creare una filiera con un indotto più che doppio e una occupazione tra i 10mila e i 15mila addetti qualificati e specializzati.”

Credo che le due comunicazioni, a distanza di due giorni, suonino come musica alle orecchie di tutto quanto si è mosso a Civitavecchia contro la destinazione del sito oggi a carbone verso nuove combustioni di gas fossile. In fondo, la riconversione energetica di quel polo in riva al Tirreno ha molte analogie con la situazione sarda e gode, soprattutto, di un movimento vivo con un rapporto con l’intera società e le sue istituzioni, che rappresenta una vera e propria coalizione sociale, con comitati locali, sindacati, associazioni ambientaliste, apporti di esperti e ricercatori, che concordemente hanno già formulato un progetto alternativo al turbogas, con eolico sul porto, fotovoltaico galleggiante al largo e accumuli in base a pompaggi e storage di idrogeno.

Ovviamente, l’attesa è che si dica qualcosa anche dalle parti dei ministeri e del governo, dopo che la Regione Lazio e il Comune si sono fatti interpreti di quello che Starace – in piena sintonia con il Next Generation UE – ha definito un cambio dei paradigmi ambientali locali.

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Transizione energetica, ripartiamo da Civitavecchia o dai bilanci delle multinazionali?

È impressionante la rincorsa di Eni, Enel, Edison e A2A a tappare con impianti di combustione a metano tutti i buchi lasciati liberi dall’evanescenza e dalle ambiguità della programmazione energetica del Pnrr italiano, a conferma delle deficienze già riscontrate nel Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima). Tuttavia, mentre nel caso del piano energetico nazionale le aziende energetiche decidevano sui loro tavoli e con la complicità di qualche ministro, questa volta possiamo attestare che “c’è pure un giudice a… Bruxelles!” cui intestare, senza troppe illusioni, almeno una coscienza ecologica popolare, spinta dalla brusca sterzata del clima che ad ogni estate si veste di temperature e incendi impensabili.

Tra clima e settori fossili non corre buon sangue ed è per questo che ogni nuovo investimento in metanodotti e centrali va fatto in fretta e in sordina. In un batter d’occhio il nuovo MiTE ha autorizzato la riattivazione di quattro gruppi a gas da 150 MW a Montalto di Castro, mentre per Tavazzano e Marghera è già previsto l’ammodernamento dell’impianto a metano esistente con le nuove turbine di Ansaldo, annunciate anche per Fiumesanto in Sardegna. Analoga storia per Presenzano, dove verrebbe attivata una nuova centrale a gas (760 MW), che Edison ha in progetto di costruire con inizio lavori già a gennaio 2020 e da mettere in esercizio entro 30 mesi.

In compenso per Civitavecchia, sebbene una vasta coalizione sociale, gruppi di ricercatori e ampie rappresentanze politiche avanzino responsabilmente progetti alternativi e vantaggiosi di fotovoltaico, eolico galleggiante, storage in pompaggi e idrogeno, non arriva il minimo sentore di reazione dai tavoli ministeriali di Cingolani (rinnovabili) e Giovannini (accesso ai corridoi marini). Lo stesso Mario Draghi, omaggiato da Ursula von der Leyen per aver predisposto nel tempo previsto l’accesso ai fondi europei, sembra non sentire la necessità di sottrarre agli enti energetici la libertà di sforare i limiti europei per eccesso di emissioni di climalteranti.

È come se il Presidente del Consiglio non si sentisse in dovere di dar seguito alla transizione energetica che ha annunciato all’atto del suo insediamento. Contribuisce così, nella colpevole svagatezza della stampa e delle forze al governo, a depotenziare l’occasione straordinaria offerta dal Next Generation Eu di decarbonizzare una delle economie più in crisi nel continente. Non solo sul fronte del bilancio, ma anche su quello dell’occupazione, dell’innovazione e delle politiche industriali da proiettare quanto prima verso l’orizzonte della neutralità climatica.

Non si vuole riconoscere che un Programma con i caratteri strutturali di una Ripresa e di un nuovo Sviluppo debba contare, non tanto per l’effetto sui bilanci degli enti energetici, quanto per la realizzazione di progetti concreti, vantaggiosi e puntuali, anche nei valori finanziari previsti, assunti da soggetti attuatori trasparenti come dovrebbero essere Ministeri, Regioni, Province, Città. Soggetti che selezionano bandi secondo procedure pubbliche, sostenute – e se occorre contestate – da una campagna che preveda un percorso di auditing e consultazione dei territori, come luoghi di una pianificazione integrata, verificabile in termini di bilancio energetico e climatico ex ante ed ex post.

Se non si promuove una mobilitazione vera e costruttiva dei tanti soggetti istituzionali associativi, sindacali, imprenditoriali, culturali e scientifici interessati e delle istituzioni del territorio “in parallelo” allo Stato, non ci sarà integrazione fra i progetti e prevarrà anche questa volta, con una emergenza incombente sotto gli occhi, una separazione tra politica e società.

La nota emessa dalla Ue a proposito dei trucchi messi in atto da Eni per ottenere finanziamenti per l’idrogeno da metano è sconsolante, come è scoraggiante la pretesa dei nostri “cugini” francesi, che vorrebbero classificare “verde” il nucleare. Si cammina con la testa voltata all’indietro. A riprova, nel documento che si può recuperare al punto 4.4 di “Doc. All.: SWD (2021)165 final”, sotto il titolo “Non arrecare un danno significativo”, l’Ue avverte che “gli investimenti nell’idrogeno saranno limitati all’idrogeno verde e non conterranno idrogeno blu né coinvolgeranno il gas naturale”.

Quindi, Ravenna con Ccs (Carbon capture and storage), Taranto con idrogeno blu e i progetti di elettrolizzatori funzionanti con corrente da centrali fossili non avranno sostegno né finanziario né politico dall’Europa. Non solo, ma anche la quota residua di produzione elettrica da metano al 2030 prevista da Eni, che non assicura il 55% di riduzione di gas serra, non s’ha da fare. Ad ulteriore ostacolo va considerata la notizia data da Reuters il 25 giugno 2021 e ripresa da Euractiv di una rilevante infiltrazione in atmosfera in siti petroliferi e metaniferi italiani.

Dopo che un tribunale olandese ha intimato alla Shell di ridurre del 45% le emissioni di CO2 al 2030, anche il Consiglio di Stato francese concede al governo 9 soli mesi per adeguarsi agli obiettivi climatici dell’accordo di Parigi. In questi stessi giorni in Italia un gruppo di docenti universitari, ricercatori ed esponenti di associazioni ha promosso una diffida legale nei confronti di Eni. “Mentre le grandi compagnie mondiali nel 2020 hanno ridotto i loro investimenti nel settore Oil&Gas di ben 87 miliardi di dollari, Eni, grande Società energetica italiana partecipata dallo Stato, continua a ignorare il recente rapporto Iea che ammonisce che nel percorso della neutralità climatica al 2050 non c’è più spazio per nuovi investimenti su petrolio e metano”. Della diffida sono stati notiziati il Presidente del Consiglio e i ministri competenti.

Ripartiamo da Civitavecchia o dai bilanci delle nostre multinazionali energetiche che solo all’estero, senza il capacity market, espandono il loro portafoglio di rinnovabili?

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Transizione ecologica: la gestione del ministro Cingolani non appare convincente

Roberto Cingolani ogni giorno descrive la sua missione con varie suggestioni (“fusione nucleare, idrogeno verde, impresa ciclopica”) ma con al fondo un tratto ben distinguibile e non accettabile. Il ministro non interviene nelle scelte con la drammaticità imposta dall’urgenza della crisi climatica: al contrario, confida in una chiave esclusivamente tecnologica per affrontare la “compromissione della termodinamica del pianeta” (parole sue).

L’assetto accentratore con cui l’esecutivo Draghi descrive e imposta la ripresa post pandemica gli offre un palcoscenico dal quale detta le sue formule magiche, visto che i progetti di rilancio del Paese non contemplano il coinvolgimento della società o una dialettica tra punti di vista, ma sono ispirati dai grandi gruppi, con agganci internazionali e sensibili alle lobby multinazionali, talvolta in contrasto con le direttive europee, soprattutto in materia ambientale.

Il ministro, partendo dall’affermazione che entro il 2030 l’Italia dovrà installare 70 GW di rinnovabili (moltiplicando per 10 gli attuali investimenti), ha collocato successivamente al 2030 la vera decarbonizzazione della produzione elettrica e dell’industria. In sostanza, si tratta dell’avallo alle resistenze conservatrici dei gruppi energetici nazionali ed internazionali, mentre occorre una svolta e un cambiamento drastico di paradigma entro il 2025. Così si copre il più banale passaggio dal carbone al gas, come richiesto in ogni sede dai vertici di Eni e di Enel. Quando poi si afferma che dopo il 2030 avremo altri 25 anni per uscire dalle fonti fossili si “buca” il 2050, la “dead line” posta dalla Ue.

Che questo percorso sia quello che paventiamo, lo dimostra in alcune pieghe il “decreto semplificazioni” appena varato: il nostro Paese non vuole prepararsi alle rinnovabili senza l’ausilio dei combustibili fossili e, quindi, ci si lamenta dei ritardi nei processi autorizzativi per le rinnovabili, ma si allentano le regole di controllo e di protezione dell’ambiente e della salute nel caso specifico di nuove centrali (art.18). Perfino sul nucleare, pur sapendo che la questione in Italia è stata chiusa da ben due referendum, il ministro è stato molto blando nei confronti del tentativo della Francia e di altri paesi di far passare a livello europeo la fissione dell’atomo come fonte “a basso tenore di carbonio”, trascurando la letalità del suo impiego pur di farla accettare, al pari del Ccs, come fonte per produrre idrogeno blu anziché verde. Cingolani avrebbe dovuto dire semplicemente che l’Italia porrà il veto a qualunque tentativo di alimentare un futuro altroché residuale per il nucleare in Europa.

Intanto, c’è un inspiegabile ritardo del Governo Draghi nell’approvare (doveva essere inviato a Bruxelles il 31 marzo scorso) il piano per decidere dove installare l’eolico off-shore, mentre lo stesso fotovoltaico richiede una accelerazione nelle autorizzazioni, con la collocazione prioritaria su superfici esistenti e in aree industriali dismesse. In realtà, si coprono le resistenze al superamento dell’uso di tutte le fonti fossili il prima possibile. I gruppi pubblici, che dovrebbero essere i primi ad adeguarsi alle direttive di un governo che fa riferimento al Green Deal Europeo, tentano di eluderne l’indirizzo entro i confini nazionali, mentre al di fuori di essi, dove risulta forse più complicato fare “greenwashing”, investono solo in rinnovabili!

Così, per le centrali elettriche a carbone, dove il “phase out” è obbligato, si pensa al rimpiazzo di potenza con metano anziché passare direttamente a rinnovabili, pompaggi o idrogeno verde, ridisegnando così consumi, produzioni e buona occupazione in territori a lungo vulnerati dalla combustione dei fossili. Il gas naturale ha chiuso il suo ciclo: insistere con nuove infrastrutture, come si vorrebbe fare con i turbogas a Civitavecchia, clamorosamente in contrasto con la popolazione, le istanze sociali e le istituzioni, significherebbe pregiudicare una riconversione ecologica, laddove è già matura, a partire dal mondo del lavoro.

Le politiche industriali stesse non possono aspettare il 2030 per cambiare. Pensiamo all’Ilva di Taranto: dopo la recente sentenza occorre decidere il suo futuro, contemporaneamente occupazionale ed ambientale. Lo Stato è già entrato in Ilva con una partecipazione azionaria rilevante e presto sarà un’azienda pubblica a tutti gli effetti che potrà riprendere un’attività solo se compatibile con la salute. In questo caso, l’uso delle rinnovabili e dell’idrogeno è forse l’unico asse di fondo su cui provare a riprogettare una destinazione, lungo l’intero ciclo che tocca l’acqua, i gas in atmosfera, la bonifica del suolo.

La gestione della transizione ecologica che si sta evidenziando non appare convincente. Il ministro Cingolani ha il dovere di esplicitare come verranno impiegati oltre 50 milioni al giorno per 5 anni previsti dal Pnrr. La velocizzazione non può risolversi in un favore ai colossi energetici che oggi svolgono un ruolo di resistenza verso il cambiamento, la difesa del clima e l’innovazione, frustrando il ruolo delle istituzioni territoriali e la presa di coscienza delle collettività.

Scritto in collaborazione con Alfiero Grandi

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