È impossibile separare l’immaginario collettivo elaborato a 20 anni dal G8 genovese dall’esperienza diretta di una giornata splendente e “pura” di primo mattino, colma di speranza e come sbocciata dopo una notte di smarrimento impresso dall’uccisione di Carlo “ragazzo”. I pullman che a Boccadasse – fianco mare – srotolavano fiumi di persone che si aggrumavano in corteo dietro molteplici striscioni e bandiere colorate alimentavano la convinzione che il rifiuto della violenza avrebbe finito per avvolgere una città magica per la sua storia e la memoria antifascista.
Una moltitudine determinata procedeva infatti ordinata con la sensazione che la “Zona Rossa” dei potenti della Terra fosse un loro autoisolamento, timoroso del contatto con sudditi in avanscoperta di un mondo desiderabile. Nonostante sparute incursioni di qualche “black-bloc”, difficilmente distinguibile dalle divise speciali dei poliziotti in formazioni compatte, c’era una calma familiarità in quel popolo che proveniva da tutta Europa. La consapevolezza di una forza di massa che pretendeva “un altro mondo possibile” sarebbe stata però presto ammorbata e sfregiata dai gas e dai pestaggi in pieno giorno e, infine, precipitata nei massacri della serata e di quella terribile notte.
Provo – probabilmente in uno sforzo inadeguato e forse pretenzioso – ad estendere da testimone alcune considerazioni che “tengono” ancor oggi in prospettiva, ben consapevole che a Genova 2001 si è scientemente fatta implodere una occasione di convergenze a dimensione popolare, democratica e globale, che avrebbe forse dato tempo alla maturazione di un sistema adatto al progredire della storia umana, già allora incompatibile con una continuità inaccettabile di predazione della biosfera e di incessante crescita delle disuguaglianze.
In altre occasioni (vedi Genova con noi ed. Punto Rosso) ho estesamente raccontato lo svolgersi della giornata, che è arricchita e documentata da mille voci, immagini, video: qui mi preme riprendere solo le considerazioni che a distanza potrebbero essere andate sorprendentemente in ombra.
C’era ed era forte, combattivo, organizzato e in forma di presenza popolare il mondo del lavoro: in particolare la Fiom nazionale, la Cgil della Lombardia (37 pullman stipati, da Milano, Brescia, Brianza, Lodi ed altre province), diverse Camere del Lavoro liguri, emiliane e del Sud, tutte allertate per un energico servizio d’ordine e per servire una manifestazione condivisa, dovuta, in linea con Seattle e Porto Alegre, nonostante non avesse l’avallo dalle segreterie confederali nazionali. Una presenza assai significativa, perché andava dritta alla difesa dei diritti sociali, era folta di ragazze e ragazzi ed aspirava ad un “senso del lavoro”, che da Genova in poi resisterà come fulcro contro il disprezzo di cui si è fregiata la globalizzazione capitalista.
Il mondo del 2001 era un mondo molto diverso da quello attuale. Si veniva dalla sbornia dei successi della new-economy informatica e le varie leadership europee di centro-sinistra degli anni 90, dopo aver messo in soffitta conflitto di classe ed anche solo sincere prospettive socialdemocratiche, ripetevano senza interruzioni i nuovi dogmi. Cercavano di convincerci che il libero mercato e la globalizzazione ci avrebbero accompagnati verso un futuro di benessere e libertà; che il welfare e i diritti del lavoro erano un orpello novecentesco e che la flessibilità era una opportunità per una vita avventurosa e dinamica. Il corteo metteva a nudo le menzogne più infide, ma lasciava lacunoso un aspetto fondamentale: mancava la coscienza che la riduzione di natura amica e il suo degrado fossero il frutto della crescita dominante e che una nuova ingiustizia, quella climatica, avrebbe scortato l’ingiustizia sociale. La marcia dei migranti il 19 luglio 2001 a Genova, ad esempio, esternava il massimo di fraternità interna, ma incontrava una insipida collateralità del mondo sindacale.
Credo che tra gli obbiettivi della repressione e della mattanza organizzate e premeditate nei giorni genovesi ci fosse quello di avvisare, in particolare le nuove generazioni, che tra occupazione e ambiente, agricoltura industriale e cura della natura, speculazione immobiliare e biodiversità, i secondi termini dovessero essere oscurati per essere funzionali alla crescita e ai profitti. Nel 2001 eravamo ancora nel campo della geopolitica, prima che gli anticipatori dell’ecologia integrale e poi Francesco e Greta ci portassero in quello della biosfera. Era – di fatto – ancora una cultura antropocentrica e patriarcale ad alimentare il potere in economia e politica.
Quando portammo le foto di Genova (Berlusconi-Fini) al Forum Sociale di Porto Alegre del 2002 (Lula) i brasiliani mostravano verso quelle immagini lo stesso orrore con cui noi guardiamo oggi le foto dei seppellimenti dei morti di Covid a Manaus (Bolsonaro). In pochi decenni i cambiamenti sono insospettabili e sempre marchiati dalla violenza, che tuttavia non può che stemperarsi se si pensa alla sopravvivenza come chiave del futuro. Il cartello del Genoa Social Forum teneva insieme ben 1.187 soggetti politici, sociali e associativi i più diversi l’uno dall’altro. Un fronte ampio e composito, mai più ricostituitosi a quelle dimensioni, ma sedimentatore del metodo della convergenza e che, dopo aver retto in qualche modo la repressione del G8, nei due anni seguenti sarebbe stato capace di portare in piazza milioni di persone nelle battaglie sociali come quella per la difesa dell’articolo 18.
Solo 53 giorni dopo il G8, l’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York ci porterà diritti allo scenario della guerra globale permanente. E in effetti va a compimento una “contronarrazione” da parte dei media del potere che già si era avviata nei giorni di Genova: i disordini anziché l’enorme e pacifico corteo che l’ha attraversata; il crollo delle Torri stipate di vita, di commercio, di relazioni e di benessere anziché l’attacco al simulacro della potenza militare del Pentagono; le immagini arroganti e demoniache, prese dagli archivi, di Bin Laden e di Mohamman Omar anziché le riprese in diretta di Al Jazeera dei derelitti civili morti a Kabul; e, in accompagnamento i talk show sempre regolati dalle stesse maschere, anziché le trecentomila persone che a Perugia marceranno due mesi dopo Genova contro la guerra.
Contrapponendo sapientemente immagini a contrasto, si vuole imporre al ragionamento critico di non posarsi con la sua autonomia sull’impressionante concatenamento dei fatti e farne memoria critica. Eppure, non si può affatto trascurare che a Genova si consolida e nasce una narrazione che oggi, di fronte alle emergenze del cambiamento climatico e dell’estrema ingiustizia sociale, riprende il suo corso con accenti diversi ma con lo stesso sapore di sfida campale ai governi del pianeta. Ora sono tempi nuovi e quei semi stanno faticosamente riapparendo.
Il G8 rimane un punto di svolta. Un annuncio di un cambiamento strutturale che sta diventando maturo anche dopo la pandemia. Ed esserci ora, come allora, quando la posta è alta e non tirarsi indietro è, comunque, lasciarci dietro un germoglio da curare per chi verrà e non farsi strappare da chi le gemme le fa bruciare in una stagione in cui il clima ormai colpisce inesorabile.
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