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Lo sciopero generale è una limpida presa di distanza dalla economia politica di Draghi

Lo squarcio aperto dallo sciopero generale del 16 dicembre è illuminante ed è per questo che lo si vuole oscurare. Non solo fa luce sulla precarietà del lavoro, l’accrescimento delle disuguaglianze e l’insufficienza delle risorse poste a disposizione dei ceti più deboli, ma è una limpida presa di distanza dalla economia politica di Draghi, condotta sotto il segno dell’ineluttabilità dell’emergenza sanitaria e giustificata dall’approccio esaustivo di una scienza medica “ufficiale” dedicata ai sopravvissuti, anziché più compiutamente alla cura universale del vivente. Una cura da cui, come ripete Bergoglio – citato di sfuggita all’atto del suo insediamento dal Presidente del Consiglio – dipenderà sempre di più il futuro dell’intero Pianeta.

La scienza medica – quella, non dimentichiamolo, controllata da Big Pharma – ha praticamente sussunto ogni risorsa del Paese ed ha portato ad investire immense risorse pubbliche sui vaccini e per le case farmaceutiche, lasciando in ombra una linea volta ad una politica di investimenti delle risorse pubbliche degli Stati sulla sanità, sulla prevenzione sui trasporti, sulle scuole, sulla salute e la rigenerazione del Pianeta. Si è purtroppo tralasciato di investire su tutte quelle cose che all’inizio della pandemia si era detto di voler fare e che sono state messe in elenco di un Pnrr che ancora rimane pressoché sconosciuto, quando non funge da copertura di modelli superati, come nel caso delle centrali a turbogas disdegnate nei territori cui sarebbero destinate.

Così, anche la scienza, per definizione interdisciplinare e in fermento dialettico su obiettivi in continua verifica, con Draghi non ha messo a frutto le sue potenzialità su un arco vasto da poter spaziare sulle più insidiose emergenze che ci ritroveremo aggravate e sulle spalle dei ceti più deboli ed emarginati. La partecipazione dei cittadini, dei territori, delle istanze associative e istituzionali, dei sindacati è stata mortificata ed anche le scienze ne hanno sofferto in un isolamento sociale presidiato da specialisti. Non deve quindi stupire se il Nobel, Giorgio Parisi, abbia dedicato le sue prime parole di soddisfazione per il premio ricevuto non al successo delle sue formule, ma alle problematiche che l’avanzamento della conoscenza pone alla politica per il brusco cambiamento climatico in corso.

Lo sciopero in preparazione nei luoghi di lavoro che Landini e Bombardieri hanno sapientemente indetto, fa presente al Paese che il mondo del lavoro pretende, proprio quando la pandemia è in corso, uno sforzo di cambiamento strutturale nel sistema liberista – indiscusso vincitore al presente – ma nemico del risanamento climatico, della cura del Pianeta, della giustizia sociale.

Intanto che i nostri tg e i talk show inanellavano da mane a sera dati sui contagi, il nuovo governo tedesco raggiungeva un accordo definitivo sul superamento dell’energia nucleare e spingeva per traguardi ambiziosi sulle rinnovabili, mettendo in allarme i tessitori europei della nuova tassonomia verde da adottare per i fondi pubblici europei. La Spagna intanto spostava il suo potenziale elettrico su eolico e solare e nel Baltico si innalzavano pale da decine di MW ciascuna. In compenso, con i cittadini a far da spettatori in uno scenario desolante saturato dal “totoquirinale” e dalle previsioni per febbraio 2022 sull’ex guida della Bce, i nostri ministri, chiamati in causa sulla transizione energetica e sulla politica industriale, motteggiavano sul ritorno dell’atomo e facevano passare sotto silenzio la privatizzazione dell’acqua per decreto, registrando impotenti una pioggia di richieste di delocalizzazioni di imprese.

Energia, salute acqua, lavoro: quattro temi che non possono che essere al centro di uno sciopero generale provvidenziale. Si salderebbe così un debito tra lavoro e studenti e ambiente e si cancellerebbe un improvvido manifesto corporativo sottoscritto con Confindustria dai sindacati di categoria confederali degli elettrici ed esibito come un trofeo da Cingolani e Descalzi al palco di Atreju, la festa della Meloni. Nel documento congiunto Confindustria-Sindacati Elettrici confederali ci si spinge addirittura a chiedere di considerare accettabile il metano nella tassonomia verde Ue, intaccando così la credibilità al Green Deal e tirando un colpo mancino alle popolazioni che, come a Civitavecchia, riprogettano con esperti, imprese e ricercatori un apparato di produzione elettrica non fossile.

Il 15 dicembre pomeriggio verrà installata una tenda di fronte al Ministero della Transizione ecologica (Mite) per ricordare gli impegni imposti su acqua e nucleare dai referendum del 2011 e per contrastare il ricorso al gas fossile nei nuovi impianti energetici. C’è una continuità tra la tenda e l’astensione dal lavoro del giorno dopo: il conflitto e il dissenso rendono più forte la democrazia e meno soli i rappresentanti soprattutto quando gli interessi in campo travalicano le corporazioni e guardano alle nuove generazioni e al diritto all’ambiente ed al lavoro. Perfino tra Eni ed Enel al massimo livello si è aperta una diversa visione del ruolo delle partecipate pubbliche sul destino delle fonti fossili e rinnovabili. Perché mai non ne dovrebbero essere attivamente informati e partecipi i cittadini che pagano le tasse e le bollette?

E’ augurabile quindi che i cittadini, i lavoratori e le piazze mandino il segnale di una inversione – con particolare speranza e fiducia anche nei giovani attivisti che in questi ultimi anni hanno dato vita a grandi manifestazioni per nuove politiche orientate alla piena occupazione “verde”, in una società strutturalmente pacifica e più giusta.

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Dopo la Cop26 caccia grossa a carbone, gas e nucleare

Se è vero – come ha sottolineato all’indomani del summit il premier britannico Boris Johnson – che “il carbone è condannato a morte”, la domanda giusta da porsi è: sì, ma quando? Per il gas, addirittura nuova vita e per il nucleare un rinascimento in nuove forme, tutte da mettere in cantiere.

Il discrimine su cui si sono dissolte le aspettative della Cop26 si è mostrato nella sua inconsistenza nella forma di chiacchiere sulla decarbonizzazione; di ostinata finalizzazione al business finanziario e delle multinazionali; di un imprevisto recupero del nucleare quale presunto alleato delle rinnovabili e mallevadore dell’impiego “in via transitoria” del gas fossile.

India, Cina e Stati Uniti, (tutte e tre potenze militari nucleari), con una complicità tacita, eppure questa volta clamorosa, dell’Ue, hanno alla fine stabilito che la ripresa “dopo pandemia” debba rifarsi ai canoni del “prima” e che il paradigma energetico debba rimanere sostanzialmente centralizzato, ad alto tasso di capitale e di emissioni di climalteranti e, in definitiva, nelle mani delle corporation, accorse in massa a Glasgow con oltre 500 delegati: più i colpevoli che le vittime.

L’aver “mantenuto vivo l’obiettivo di contenere le temperature globali al di sotto di 1,5°C – unico significativo avanzamento, a disposizione anche dell’immaginario popolare e perciò difficilmente disgiungibile dal brusco comportamento anomalo della biosfera cui ci stiamo assuefacendo – sarà l’appiglio dei movimenti più vasti e delle alleanze per il clima la terra e la giustizia sociale che si costituiranno anche a livello locale. Tuttavia, non si consegue una meta così impegnativa senza strumenti di verifica internazionalmente riconosciuti, solleciti investimenti solo nelle filiere rinnovabili, convergenze di risorse finanziarie verso i Paesi poveri, cura del vivente in tutte le sue manifestazioni. Da Glasgow esce un mondo incamminato verso un aumento di 2,7 °C a fine secolo.

Dopo Cop26, deve preoccuparci il fallimento del multilateralismo nei negoziati per ridurre le emissioni di gas serra (siamo passati da 350ppm nel 2001 a 417 ppm nel 2021), o, quanto meno, la sua inadeguatezza nel determinare risultati con una tempistica plausibile, riducendosi a dichiarazioni d’intenti fuori tempo massimo.

C’è da chiedersi se dobbiamo continuare a contare su un meccanismo del genere, sostanzialmente utile ai governi per procrastinare gli obblighi di svolta temporalmente indifferibili.

Al contrario che nella “Laudato Sì” – dove l’approccio è contemporaneamente di riconversione strutturale, di ripensamento del rapporto uomo natura, di conversione anche individuale, il meccanismo della Cop non prende in considerazione l’autonomia delle leggi fisiche planetarie e presume che le classi sociali ricche o le economie più forti debbano autopreservarsi lungo cammini propri, che non escludono indifferenza e nemmeno che il tempo stia venendo a mancare.

Credo che la Ue sia l’ambito su cui dirigere un grande movimento ed una lotta che raccordi vari territori con una piattaforma che faccia della giustizia climatica e sociale lo slancio che colleghi alto e basso e, insieme, faccia della svolta culturale e sociale che ne nasce una base per il rinnovamento della rappresentanza politica. I risultati si diffonderebbero per osmosi: la storia umana delle transizioni tecnologiche e delle rivoluzioni sociali lo dimostra, in particolare quando partecipano le nuove generazioni.

Il Foglio del 14 novembre così commentava l’esito della Cop26: “Meno isterismo, più gradualità. Meno ideologia, più spazio ai privati. La transizione del futuro è tutta qui”! Non più, quindi, volgare negazionismo climatico, ma un affidamento all’impresa, alla tecnologia, ai tempi del mercato, incompatibili, come constatiamo, con la sopravvivenza. Non sarà facile “rimontare”. Nessuno verrà a salvarci, se non noi stessi, promuovendo innanzitutto nella scuola e nell’organizzazione del lavoro la conoscenza scientifica, rigorosa e interdisciplinare del capitale naturale che stiamo distruggendo.

Se è dall’Europa che vogliamo ripartire, allora l’inopinata torsione all’indietro di Ursula von der Leyen e Timmermans sulla tassonomia verde, aperta inopinatamente a gas e nucleare proprio in concomitanza coi cedimenti di Glasgow, va decisamente isolata e sconfitta.

In Italia si è già aperta una falla: non a caso Cingolani e Draghi non hanno sottoscritto la presa di posizione di Germania, Austria, Lussemburgo, Spagna Portogallo e Danimarca in una dichiarazione contro l’inserimento del nucleare nella tassonomia Ue, dopo che la Francia ha lavorato dietro le quinte per forgiare un compromesso che soddisferebbe i sostenitori sia del gas che dell’energia nucleare ai fini di ottenere i fondi europei del Next Generation EU.

Mentre il governo italiano è latitante e Scholz, il leader dell’Spd impegnato per le trattative per il nuovo governo tedesco, tace, i legislatori progressisti in Germania e in Parlamento europeo hanno rilasciato una dichiarazione congiunta per intervenire sul dibattito: “La Commissione UE ora vorrebbe catalogare sotto la voce ‘sostenibili’ gli investimenti in nuove centrali nucleari e a gas e questa è un’impertinenza e una inaffidabilità davanti alla comunità mondiale”, afferma Lisa Badum, portavoce di lunga data della politica climatica dei Verdi nel parlamento tedesco. Il 15 novembre 129 ong per il clima di tutta Europa hanno firmato una lettera aperta e lanciato una raccolta di firme, bollando come “vergogna scientifica” la classificazione di sostenibilità del nucleare e del gas “qualificato come attività transitoria fino al 2030 nel caso in cui le emissioni non superino i 100 grammi di CO2 equivalente per chilowattora”. C’è da capire chi ha stabilito e chi certificherà le emissioni per non essere preda di una burla clamorosa: 100gCO2/kWh è un livello entro il quale nessuna tecnologia a gas riuscirebbe a stare, e che secondo certi studi sfora pure il nucleare.

Intanto, stanno partendo le prime sensibilizzazioni di massa che preparano mobilitazioni intransigenti. In Germania un appello contro gas e nucleare ha raggiunto già 80.000 firme in due settimane, mentre in Italia si può siglare un analogo documento su change.org, che ha raccolto in brevissimo tempo oltre 2500 consensi.

L’aria che tira richiede un’attenzione sui punti critici che sono in corso: a Civitavecchia è stato richiesto un nuovo consiglio comunale aperto per tornare a chieder conto del del progetto alternativo al turbogas.

Nel frattempo, nel silenzio svelato dall’editoriale del 17 novembre di Domani, Eni sta ricevendo l’ok del governo nella legge finanziaria per 150 milioni pubblici per la cattura di CO2 a Ravenna. Possibile che tocca protestare solo agli ambientalisti e non ai cittadini delusi e, in particolare, a lavoratrici e lavoratori che si vedono dimezzata l’occupazione e ammalorato l’ambiente in cui vivono, senza svolte significative all’orizzonte?

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Clima, per me è scandaloso che il governo dia tanto spazio di improvvisazione alle aziende pubbliche

“È urgente prendere decisioni reali molto robuste e muoverci a un ritmo molto forte” per affrontare il cambiamento climatico, ha affermato Giorgio Parisi, “perché siamo in una situazione in cui possiamo avere feedback positivi che possono accelerare oltremodo l’aumento della temperatura. È chiaro che per le generazioni future dobbiamo agire ora in modo molto rapido e non indugiare“. Con queste parole il premio Nobel 2021 per la fisica ha commentato il suo contributo allo studio dell’evoluzione dei sistemi complessi, come quello che rappresenta il clima e per cui ha ottenuto il prestigiosissimo riconoscimento. Mentre rendeva le prime dichiarazioni – molto significative da parte di un grande scienziato – la penisola era flagellata da bombe d’acqua e tornado da nord a sud.

Un’urgenza che non sembra nei fatti compresa dalla “cabina di regia” del governo, che continua a dilazionare i tempi di intervento con i fondi del Pnrr, esitante sul futuro del nostro sistema energetico, ancorato a fossili, trivellazioni e a qualche intervento di pura facciata sulle rinnovabili. Dopo lo straordinario corteo del 5 ottobre a Milano e l’annuncio di una costellazione di nuove manifestazioni in tutto il Paese prima dell’inizio della COP 26 di Glasgow – ricordo, tra le numerose altre, quella promossa dagli atenei italiani il 29 ottobre – chissà mai che dagli uffici ministeriali si dia uno sguardo ai manifestanti che si raccoglieranno sotto le loro finestre già sabato 9 ottobre a Roma con lo slogan “basta greenwashing!pratica istituzionale accreditata per coprire i regali fatti al fossile (20 miliardi di euro all’anno) con la copertura di una “transizione energetica” che contempla la centralità del metano, dell’idrogeno blu, del Ccs, di nuove trivellazioni, di nuovi gasdotti e di centrali a gas per sostituire la filiera del carbone.

Mentre si conclude la Precop 26 milanese, vengono ignorate le spinte dal basso che realizzano progetti alternativi contro il Ccs con “emissioni zero” a Ravenna e le rivendicazioni di quei lavoratori che, come nel caso di Civitavecchia, hanno capito quanto i nuovi impianti a turbogas, oltre ad inquinare, determinino anche gravi problemi occupazionali.

Il segnale inequivocabile di un popolo che pretende l’uscita dal fossile è giornalmente annacquato dal mainstream, intento a rimuginare fino ad esaurimento su quanto i capricci di Matteo Salvini, le fumosità di Carlo Calenda e le capriole di Matteo Renzi possano tenere botta ai decreti e alle riforme immodificabili che Mario Draghi concorda in sedi extraparlamentari.

In fondo, l’astensione di elettrici ed elettori alle Amministrative di ottobre fa pensare che il voto non sia in grado di influenzare le loro stesse vite; dato che si trasforma semplicemente nel “parterre” post-elezioni in cui quel che rimane dei leader politici più noti – sempre gli stessi – si azzuffa per un briciolo di potere sotto lo sguardo di habitué del piccolo schermo, anch’essi da anni sempre gli stessi.

L’irrompere di un Nobel così colto, ragionevole, mite, eppure tagliente e allarmante nelle sue previsioni, si riconnette immediatamente all’altra “metà del cielo”, che oggi è fatta di quante e quanti hanno a cura le sorti delle vite, della giustizia, della Terra.

Da tempo l’Associazione laica “Laudato Sì” raccoglie e alimenta proposte, studi, convergenze, occasioni di formazione e analizza profili indispensabili di riconversione ecologica, che i governanti tuttavia non sembrano voler mettere all’ordine del giorno. E non lo fa da sola, ma con moltissimi altri soggetti collettivi che non approdano ad una rappresentanza politica nel sistema del liberismo più camuffato.

Ci si dovrà pur chiedere, ad esempio, come sia possibile che lo scenario futuro della crescita della combustione di metano sia l’asse che in sede nazionale ha adottato la più grande impresa nazionale di idrocarburi – l’Enisenza tener conto degli insostenibili danni ambientali e alla salute. Obiettivo tanto indifendibile da obbligarla ad adottare, quando concorre a gare di assegnazione all’estero, misure di passaggio a tecnologie rinnovabili estranee alla combustione di gas e petrolio già opzionato per i suoi gasdotti diretti in Italia.

Nello stesso tempo apprendiamo che Francesco Starace, un ad coraggioso all’Enel – anch’essa una partecipata statale come Eni – è l’inventore dell’obbligazione legata alla sostenibilità, lo strumento di gran lunga più grande del mondo, con un affare da 3,25 miliardi di euro (2,7 miliardi di dollari) ripagati dal conseguimento della neutralità climatica. Il bond di Enel ha due indicatori chiave di prestazione che fanno riferimento a due Sdg (Substainable Development Goals: il 13 su Climate Action e 7 su Affordable and Clean Energy). L’Enel mira a ridurre le emissioni dirette di gas serra del 64% entro il 2023, dell’80% entro il 2030 e completamente entro il 2050, il tutto rispetto al livello base del 2017, aumentando la propria capacità rinnovabile al 55% entro la fine di quest’anno, al 60% entro la fine del prossimo anno e al 65% entro il 2023.

Almeno il 90% dei nuovi investimenti di Enel deve ora essere allineato ad attività sostenibili, rispetto al 58% dell’anno scorso. E punta a far sì che il 48% dei suoi finanziamenti provenga dalla finanza sostenibile entro il 2023 e il 70% entro il 2030. Un’azienda sostenibile è certamente meno rischiosa, più redditizia e più resiliente. Purtroppo occorre considerare che, nella riorganizzazione internazionale di Enel decisa dallo scorso anno, è stata creata una specifica holding nazionale per l’Italia data in affidamento a Carlo Tamburi, il più convinto sostenitore del turbogas a Civitavecchia e insieme il meno propenso a invertire la rotta verso le rinnovabili sostenuta dall’Ente fuori dai confini nazionali.

Riesce scandaloso che in tanto chiacchierare sul clima si lasci alle aziende pubbliche uno spazio di improvvisazione o di interesse aziendale puro in dimensione nazionale, dove hanno più libertà di azione e più coperture politico-clientelari.

È il momento che il governo Draghi mostri la sua faccia e si ponga in sintonia con i cittadini sui piani energetici e climatici. Il danno per il Paese sarebbe di veder finire i fondi Pnrr per ripianare debiti anziché per fare investimenti. E non è certo di buon auspicio per i bilanci già indebitati il fatto che le prime cinque supermajor petrolifere e del gas al mondo abbiano perso circa 200 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato dal 2015, compromettendo la loro capacità di finanziare il cambiamento alla scala e al ritmo richiesti, ricorrendo altresì all’azione dei loro apparati legali per affibbiare agli stati i rischi cui vanno incontro.

Fossi Roberto Cingolani, inviterei al più presto il Nobel Parisi ad un sereno e non informale colloquio sulla transizione ecologica.

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Clima, perché i soldi europei rischiano di essere un incentivo all’immutato sistema industriale

L’ultimo venerdì di ottobre, il 29, una mobilitazione contro il global warming partirà dagli Atenei italiani per coinvolgere tutti i cittadini su tre obiettivi concreti, in occasione dell’apertura, il successivo 1° novembre, di COP 26 a Glasgow.

1) La “linea del Piave” climatica sia il 2025, anno sul quale traguardare obiettivi e piani di governo impegnandoci ogni giorno per la loro realizzazione;

2) Attuare la raccomandazione Ue del “40%” di rinnovabili; cioè in Italia, almeno 28 GW di solare ed eolico entro quella data;

3) Un cambio immediato di rotta del gruppo dirigente Eni, affinché il 25% di riduzione di emissioni in atmosfera (CO2 E CH4) sia realizzato non oltre il 2025.

In queste ultime settimane, mentre l’accelerazione, e l’aggravarsi, della crisi climatica ancora non diventava priorità del discorso pubblico, è piombato come una mazzata il VI Rapporto dell’Ipcc ad ammonire ancora una volta che: “non c’è più tempo”. L’urgenza e il ripetersi degli appelli dell’Ipcc negli ultimi anni fa scolorire quelle previsioni che, ancora dieci anni fa, dipanavano con gradualità il dramma climatico nel corso di tutto il nostro secolo. L’urgenza ha invece individuato nel 2030 l’anno di riferimento, quel “tipping point” dal quale non si torna più indietro, anticipato di vent’anni, rispetto al precedente 2050, del rapporto 2014. In Italia, quindi, quella è la data con la quale devono misurarsi politiche economiche, industriali e ambientali per conseguire i loro obiettivi energia/clima e per dare forza alla svolta di ecologia integrale senza ulteriori rimandi.

Di conseguenza, la significativa consapevolezza politica Ue dell’accelerazione degli effetti del global warming ci deve stimolare a essere realisti e a proporre proprio il 2025 come anno sul quale misurare l’efficacia dei programmi e degli sforzi per realizzarli. Siamo invece vicini a una tornata elettorale che non sembra scuotere su obiettivi così cogenti i futuri amministratori. Assumere solo il 2030 sarebbe indulgere a ritardi, anche burocratici, in dissonante contrasto con l’angoscia dell’urgenza.

Nel nostro Paese, uno dei grandi enti energetici nazionali, l’Eni, che dovrebbe assumere un ruolo propulsivo, si prodiga invece per mantenere l’Italia nell’era dei fossili, come testimonia, tra l’altro, la sua insistenza sul progetto “Carbon Capture and Storage” (Ccs) al largo di Ravenna. Mario Draghi e il governo devono aver chiaro che, oltre a compromettere la salute dei cittadini con le emissioni inquinanti, si comprometterebbero gli obiettivi energia/clima del Piano nazionale di resilienza e recupero (Pnrr), nonché lo stesso futuro del maggior Ente partecipato dallo Stato.

È infatti inaccettabile che esso mantenga il grottesco obiettivo al 2030 del 25% di riduzione delle emissioni climalteranti, in fragoroso contrasto con il 55% richiesto a dicembre 2020 dal Consiglio d’Europa. Occorre ricordare che il 26 maggio scorso un tribunale olandese ha intimato alla Shell di portare al 45% entro il 2030 la riduzione delle sue emissioni. Se l’Eni non è in grado di conseguire da sola un obiettivo di riduzione decente, si attivi un’intesa anche con Enel, altra partecipata dallo Stato, per la decarbonizzazione dei siti Eni “hard to abate”, con la rinuncia a nuovi investimenti sul gas, come, grazie anche a una lotta popolare, sembra profilarsi già per Enel a Civitavecchia.

È un errore grave per un ente della dimensione e con la storia nazionale di Eni mantenere oggi il core business negli idrocarburi. Voglio richiamare infatti che:

1) nel corso del 2020 le maggiori compagnie Oil&Gas hanno distolto ben 87 miliardi di dollari da quel mercato;

2) la Iea – International Energy Agency, che raccoglie tutti i Paesi del mondo “avanzato” e che non è sospettabile di simpatie per le fonti energetiche rinnovabili, nel suo rapporto “Net Zero by 2050” afferma: “there are no new oil and gas fields approved for development in our pathway” (nel nostro percorso non è prevista l’approvazione di nessun nuovo campo di petrolio o di gas da sfruttare);

3) le principali compagnie europee Oil&Gas si sono date importanti obiettivi sulle rinnovabili al 2030: 100 GW per Total, 50 GW per BP, mentre il target dell’Eni è invece di soli 15 GW!

In questi giorni capita di leggere di politica industriale in un documento programmatico del ministero della Difesa che, con particolare enfasi, si riferisce all’industria degli armamenti, assurta a “base della sovranità tecnologica del Paese”. C’è da chiedersi allora perché mai nelle copiose pagine del Pnrr non ci siano cenni espliciti a politiche industriali: nessuna programmazione tangibile di una profonda riconversione ecologica, che, come ha ricordato Draghi in una sede internazionale, eviterebbe la catastrofe di 3°C di aumento a fine secolo. Più nello specifico, c’è una totale incertezza per la sostituzione del gas con le rinnovabili, quando invece per incrociatori, bombardieri e droni ci si appresta a “raccogliere la sfida della globalizzazione, dell’innovazione digitale e della transizione ecologica” (Sic! nel documento appena citato). Così, il ministro “effettivo” della transizione ecologica, in assenza di piani industriali, può permettersi di ricredersi il giorno successivo su quanto affermato a spanne il giorno prima (70 GW di rinnovabili, anziché la fusione nucleare a portata di mano…).

Oggi l’alterazione del clima è il punto centrale che deciderà del futuro stesso dell’umanità. Per evitarlo e avere cura del Pianeta necessita, oltre a una riduzione dei consumi, un piano industriale-logistico-manifatturiero per il rilancio delle energie rinnovabili, soprattutto eolico offshore e fotovoltaico, stabilizzando la rete nei momenti di discontinuità della produzione. E, nel contempo, un sostegno lucido e socialmente inclusivo alla riconversione industriale che compensi i perdenti della transizione. Una programmazione robusta che non è all’orizzonte, perché i tempi non corrispondono all’urgenza e la destinazione dei fondi del Next Generation Ue non hanno un indirizzo cogente, né fondato sulla partecipazione, il consenso dei cittadini e il diritto all’occupazione.

Al punto attuale i soldi europei rischiano di essere un incentivo al sistema immutato e resistente al vecchio delle imprese italiane per continuare a sfruttare un loro posizionamento sul mercato interno che non risolve ma peggiora l’emergenza climatica. E qui sta il paradosso: l’allarme di Draghi potrebbe passare sottotraccia, perché il ruolo che assumeranno le partecipate dallo Stato e dalle amministrazioni locali (Enel, Eni, A2A, Hera, Acea, Iren) dipenderà più dalla maggiore o minore lungimiranza dei loro Ad e dagli equilibri interni ai loro CdA, che non dagli indirizzi programmatori dello Stato, viste le contraddizioni presenti nel Governo e lo scarso conto in cui viene tenuta la democrazia.

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Delle funamboliche esternazioni di Cingolani pochi ne ravvisano lo spirito di fondo

Nelle funamboliche esternazioni del ministro Roberto Cingolani, pochi ravvisano lo spirito di fondo che ne anima le intenzioni. Negli ambienti che non rinunciano alla crescita a qualunque costo e a prolungare una cultura dello spreco, si sta affermando una visione del futuro disdegnata da tutto il mondo delle scienze naturali e temuta da quello dell’ecologia integrale. Tollerare, cioè, ingiustizie sociali insanabili e mettere in conto condizioni climatiche ostili alla sopravvivenza e alla rigenerazione della biosfera, pur di non rinunciare alla combustione dei fossili o al nucleare “riabilitati” da un intervento a valle del ciclo, con la pretesa insensata di ridurre le scorie di una produzione energetica insostenibile.

Se questo è l’obiettivo inconfessato, solo due tecnologie si aprono all’orizzonte di improvvisati apprendisti stregoni: sequestrare sottoterra la CO2 prodotta in eccesso, oppure fornire energia con combustibile radioattivo impiegato in reattori non convenzionali. Due vie oggi fuori portata perfino su scala commerciale, ma, soprattutto, incompatibili coi tempi e i cicli della natura e, quindi, dirette a scaricarsi ulteriormente sulle generazioni a venire.

Seguendo l’onda, i quotidiani e le riviste danno con sempre maggiore frequenza notizia di progetti grandiosi, come quello di fissare le emissioni climalteranti in pozzi scavati nelle rocce dei deserti dell’Oman (vedi articolo su Scienze, settembre 2021), o di catturare la CO2 in atmosfera per spedirla nelle sacche di basalto dell’Islanda o, ancora, di mantenere un plasma di deuterio-trizio isolato dal mondo esterno a temperature elevatissime con un campo magnetico ad altissima intensità in un’apparecchiatura sperimentale dal diametro di 30 metri e l’altezza di 20. Ma il revival su progetti di là da venire ha un sottinteso: non c’è urgenza per i prossimi anni, perché dopo la narrazione della Laudato Sì e la mobilitazione in ripresa di Greta e degli studenti, tutto tornerà a funzionare come prima.

Cingolani ha colto l’aria e ha capito che il Governo Draghi non ha intenzione di fermare la marcia sbagliata dell’Eni e delle altre partecipate pubbliche che, dentro scenari di progetti fantasmagorici da realizzare tra mezzo secolo, potrebbero mantenere la loro perseveranza su gasdotti, metanizzazione, idrogeno blu, a dispetto delle rinnovabili già vantaggiose e a disposizione. Questo potente apparato industriale, culturale e mediatico, che ha preso una scossa già prima della Pontedilegno dei due Mattei, ha cercato di mettere la sordina alle conclusioni dell’Ipcc, che arrivano puntuali sui tavoli dei governanti in attesa della Cop 26 di Glasgow, ricordando che la Terra non è mai stata così calda da 125mila anni e che non basterà l’obiettivo di 2°C di Parigi, perché non dovremo superare 1, 5°C.

In questi giorni sta per essere pubblicato uno studio di Nature di grande rilievo di cui cominciano a circolare anticipazioni: la maggior parte delle riserve di combustibili fossili deve rimanere non sfruttato per non superare l’obiettivo di riscaldamento di 1,5 °C. Molti dei progetti pianificati, di estrazione di carbone, petrolio e gas dovranno essere abbandonati e quasi il 90% delle riserve globali di carbonio fossile deve essere lasciato nel sottosuolo. Ne segue che la produzione di carbone, petrolio e gas deve raggiungere il picco entro il prossimo decennio — e che la maggior parte dei progetti di combustibili fossili esistenti e pianificati sarebbe, di conseguenza, impraticabile.

Come spiegarlo all’Eni o alle tante compagnie così impegnate sui fossili e sulle pipelines ancora da saturare di metano? Come dirlo a Civitavecchia dove la popolazione, il sindacato e le istituzioni locali hanno avuto il merito di aprire un reale conflitto sul turbogas?

Nebojsa Nakicenovic, economista energetico, afferma che “la strategia di avere emissioni in eccesso e quindi rimuovere il carbonio dall’atmosfera ‘significa che stiamo rimandando il problema alla seconda metà di questo secolo’, e il carbonio le tecnologie di rimozione del biossido hanno una lunga strada da percorrere prima che siano scalabili”.

In conclusione, le esternazioni di Cingolani non devono ritardare una riconversione energetica fondata su riduzione dei consumi e decentramento locale e basata su fonti rinnovabili e accumuli. Non si deve far pagare allo Stato una finta transizione ecologica, con gli investimenti in gas – che resta un fossile, anche travestito da idrogeno – un po’ di trivellazioni in mare e qualche favore ai metanodotti che arrivano da ogni dove, mentre lo specchietto del nucleare attira i più sprovveduti.

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