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Eni per il gas, Enel per l’elettrico: i due enti energetici non potrebbero essere più distanti

In due giorni successivi sono uscite due comunicazioni su giornali nazionali che non potrebbero essere meglio rappresentative di un conflitto che finalmente giunge fino ai piani alti dei decisori e che ha al centro il mantenimento o l’esclusione del gas come risorsa strategica nella transizione. Da una parte (7 luglio) una banale esposizione di un giornalista del quotidiano confindustriale (Sole 24 ore) sulla decisione di Eni di produrre a Ravenna energia da metano con sequestro della CO2. Dall’altra (8 luglio) un’intervista sulla Nuova Sardegna dell’ad di Enel Francesco Starace sulla emancipazione dai fossili della Sardegna, per farla diventare territorio ad esclusiva fruizione di energia da vento, sole, acqua. Le posizioni dei due enti energetici multinazionali italiani non potrebbero essere più distanti.

Vediamone le implicazioni, pur tenendo conto che le decisioni finali dovrebbero dipendere dalla politica e dal governo, tutt’ora molto confusi e reticenti.

Difficile a mio parere imbattersi in articoli più imbarazzanti di quello apparso sul Sole 24 Ore del 7 luglio 2021 a firma di Jacopo Giliberto. Si racconta di come sia inevitabile ed anche conveniente sequestrare CO2 prodotta da metano per riempire caverne sottomarine svuotate precedentemente del gas che contenevano. E’ talmente irriducibile la convinzione degli ispiratori dell’articolo di dire “verità” inoppugnabili, da suggerire nel sottotitolo un tempo di lettura senza respiro né confutazioni: 4 minuti… e via andare!

Il linguaggio è militaresco e in alcuni dettagli evoca sigle da controspionaggio: “guerra contro il clima”, “sfida della cattura dell’anidride carbonica, il gas accusato di riscaldare il clima”, “stoccaggio geologico di anidride carbonica nella concessione di coltivazione (dall’apparenza misteriosa n.d.r.) A.C 26.EA”.

In sostanza, Eni ha richiesto la licenza per sotterrare CO2 in un vecchio giacimento vuoto di metano sotto il fondo dell’Adriatico al largo di Ravenna. Si ammette, tuttavia, che i finanziamenti europei previsti nel Pnrr verrebbero esclusi e che, anzi, l’Ue ha in previsione di far lievitare i costi delle emissioni climalteranti con pesanti costi per le aziende ed “il rischio di farle uscire dal mercato fino a portarle al fallimento”. Naturalmente, non si spiega perché le combustioni di gas fossile vadano irreversibilmente eliminate, non nell’interesse delle imprese, ma in quello dei cittadini e dei lavoratori. La cattiva fama del CCS è “colpa dei comitati Nimby e di alcuni ecologisti che ritengono il pompaggio di CO2 nel sottosuolo un palliativo costosissimo destinato a mantenere in vita un modello di produzione e di consumo da loro disprezzato”. Da tempo non leggevamo argomentazioni così grossolane e offensive rispetto all’informazione cui i cittadini e le generazioni che verranno avrebbero diritto.

In sostanza, ci si chiede di svuotare prima i giacimenti di metano per produrre energia attraverso la combustione e, successivamente, riempire quelle stesse caverne, magari sottomarine, con un gas velenoso e più pesante dell’aria, secondo un ciclo a bassa efficienza ed alti costi, che crea rischi alla salute e alla stabilità dei suoli, pur di consumare riserve fossili che dovrebbero – quelle sì – rimanere sottoterra!

Ci metteremmo così alla pari – dice il Sole – con le licenze che Eni sta già avanzando nel Regno Unito, in Australia e a Timor Est.

Sorprendente invece, ma non inaspettata, l’intervista a Starace su Nuova Sardegna: “Enel farà della Sardegna un polo verde, incrementando l’elettricità, rinunciando al carbone e puntando su rinnovabili ed accumuli. Anticiperemo – dice l’ad della multinazionale italiana – i tempi della decarbonizzazione con progetti fattibili, credibili, sostenibili sia ambientalmente, che economicamente e con nuove assunzioni e nessuna trasformazione delle centrali a carbone con metano”. E questo da subito, cioè da qui al 2030. Alla domanda: perché niente gas, la risposta è inequivocabile: “Non ha senso investire nel gas, quando si pensa che servirà a stabilizzare il sistema solo per un breve arco di anni. Si tratta di cambiare per sempre i paradigmi ambientali locali e creare una filiera con un indotto più che doppio e una occupazione tra i 10mila e i 15mila addetti qualificati e specializzati.”

Credo che le due comunicazioni, a distanza di due giorni, suonino come musica alle orecchie di tutto quanto si è mosso a Civitavecchia contro la destinazione del sito oggi a carbone verso nuove combustioni di gas fossile. In fondo, la riconversione energetica di quel polo in riva al Tirreno ha molte analogie con la situazione sarda e gode, soprattutto, di un movimento vivo con un rapporto con l’intera società e le sue istituzioni, che rappresenta una vera e propria coalizione sociale, con comitati locali, sindacati, associazioni ambientaliste, apporti di esperti e ricercatori, che concordemente hanno già formulato un progetto alternativo al turbogas, con eolico sul porto, fotovoltaico galleggiante al largo e accumuli in base a pompaggi e storage di idrogeno.

Ovviamente, l’attesa è che si dica qualcosa anche dalle parti dei ministeri e del governo, dopo che la Regione Lazio e il Comune si sono fatti interpreti di quello che Starace – in piena sintonia con il Next Generation UE – ha definito un cambio dei paradigmi ambientali locali.

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Transizione energetica, ripartiamo da Civitavecchia o dai bilanci delle multinazionali?

È impressionante la rincorsa di Eni, Enel, Edison e A2A a tappare con impianti di combustione a metano tutti i buchi lasciati liberi dall’evanescenza e dalle ambiguità della programmazione energetica del Pnrr italiano, a conferma delle deficienze già riscontrate nel Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima). Tuttavia, mentre nel caso del piano energetico nazionale le aziende energetiche decidevano sui loro tavoli e con la complicità di qualche ministro, questa volta possiamo attestare che “c’è pure un giudice a… Bruxelles!” cui intestare, senza troppe illusioni, almeno una coscienza ecologica popolare, spinta dalla brusca sterzata del clima che ad ogni estate si veste di temperature e incendi impensabili.

Tra clima e settori fossili non corre buon sangue ed è per questo che ogni nuovo investimento in metanodotti e centrali va fatto in fretta e in sordina. In un batter d’occhio il nuovo MiTE ha autorizzato la riattivazione di quattro gruppi a gas da 150 MW a Montalto di Castro, mentre per Tavazzano e Marghera è già previsto l’ammodernamento dell’impianto a metano esistente con le nuove turbine di Ansaldo, annunciate anche per Fiumesanto in Sardegna. Analoga storia per Presenzano, dove verrebbe attivata una nuova centrale a gas (760 MW), che Edison ha in progetto di costruire con inizio lavori già a gennaio 2020 e da mettere in esercizio entro 30 mesi.

In compenso per Civitavecchia, sebbene una vasta coalizione sociale, gruppi di ricercatori e ampie rappresentanze politiche avanzino responsabilmente progetti alternativi e vantaggiosi di fotovoltaico, eolico galleggiante, storage in pompaggi e idrogeno, non arriva il minimo sentore di reazione dai tavoli ministeriali di Cingolani (rinnovabili) e Giovannini (accesso ai corridoi marini). Lo stesso Mario Draghi, omaggiato da Ursula von der Leyen per aver predisposto nel tempo previsto l’accesso ai fondi europei, sembra non sentire la necessità di sottrarre agli enti energetici la libertà di sforare i limiti europei per eccesso di emissioni di climalteranti.

È come se il Presidente del Consiglio non si sentisse in dovere di dar seguito alla transizione energetica che ha annunciato all’atto del suo insediamento. Contribuisce così, nella colpevole svagatezza della stampa e delle forze al governo, a depotenziare l’occasione straordinaria offerta dal Next Generation Eu di decarbonizzare una delle economie più in crisi nel continente. Non solo sul fronte del bilancio, ma anche su quello dell’occupazione, dell’innovazione e delle politiche industriali da proiettare quanto prima verso l’orizzonte della neutralità climatica.

Non si vuole riconoscere che un Programma con i caratteri strutturali di una Ripresa e di un nuovo Sviluppo debba contare, non tanto per l’effetto sui bilanci degli enti energetici, quanto per la realizzazione di progetti concreti, vantaggiosi e puntuali, anche nei valori finanziari previsti, assunti da soggetti attuatori trasparenti come dovrebbero essere Ministeri, Regioni, Province, Città. Soggetti che selezionano bandi secondo procedure pubbliche, sostenute – e se occorre contestate – da una campagna che preveda un percorso di auditing e consultazione dei territori, come luoghi di una pianificazione integrata, verificabile in termini di bilancio energetico e climatico ex ante ed ex post.

Se non si promuove una mobilitazione vera e costruttiva dei tanti soggetti istituzionali associativi, sindacali, imprenditoriali, culturali e scientifici interessati e delle istituzioni del territorio “in parallelo” allo Stato, non ci sarà integrazione fra i progetti e prevarrà anche questa volta, con una emergenza incombente sotto gli occhi, una separazione tra politica e società.

La nota emessa dalla Ue a proposito dei trucchi messi in atto da Eni per ottenere finanziamenti per l’idrogeno da metano è sconsolante, come è scoraggiante la pretesa dei nostri “cugini” francesi, che vorrebbero classificare “verde” il nucleare. Si cammina con la testa voltata all’indietro. A riprova, nel documento che si può recuperare al punto 4.4 di “Doc. All.: SWD (2021)165 final”, sotto il titolo “Non arrecare un danno significativo”, l’Ue avverte che “gli investimenti nell’idrogeno saranno limitati all’idrogeno verde e non conterranno idrogeno blu né coinvolgeranno il gas naturale”.

Quindi, Ravenna con Ccs (Carbon capture and storage), Taranto con idrogeno blu e i progetti di elettrolizzatori funzionanti con corrente da centrali fossili non avranno sostegno né finanziario né politico dall’Europa. Non solo, ma anche la quota residua di produzione elettrica da metano al 2030 prevista da Eni, che non assicura il 55% di riduzione di gas serra, non s’ha da fare. Ad ulteriore ostacolo va considerata la notizia data da Reuters il 25 giugno 2021 e ripresa da Euractiv di una rilevante infiltrazione in atmosfera in siti petroliferi e metaniferi italiani.

Dopo che un tribunale olandese ha intimato alla Shell di ridurre del 45% le emissioni di CO2 al 2030, anche il Consiglio di Stato francese concede al governo 9 soli mesi per adeguarsi agli obiettivi climatici dell’accordo di Parigi. In questi stessi giorni in Italia un gruppo di docenti universitari, ricercatori ed esponenti di associazioni ha promosso una diffida legale nei confronti di Eni. “Mentre le grandi compagnie mondiali nel 2020 hanno ridotto i loro investimenti nel settore Oil&Gas di ben 87 miliardi di dollari, Eni, grande Società energetica italiana partecipata dallo Stato, continua a ignorare il recente rapporto Iea che ammonisce che nel percorso della neutralità climatica al 2050 non c’è più spazio per nuovi investimenti su petrolio e metano”. Della diffida sono stati notiziati il Presidente del Consiglio e i ministri competenti.

Ripartiamo da Civitavecchia o dai bilanci delle nostre multinazionali energetiche che solo all’estero, senza il capacity market, espandono il loro portafoglio di rinnovabili?

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Transizione ecologica: la gestione del ministro Cingolani non appare convincente

Roberto Cingolani ogni giorno descrive la sua missione con varie suggestioni (“fusione nucleare, idrogeno verde, impresa ciclopica”) ma con al fondo un tratto ben distinguibile e non accettabile. Il ministro non interviene nelle scelte con la drammaticità imposta dall’urgenza della crisi climatica: al contrario, confida in una chiave esclusivamente tecnologica per affrontare la “compromissione della termodinamica del pianeta” (parole sue).

L’assetto accentratore con cui l’esecutivo Draghi descrive e imposta la ripresa post pandemica gli offre un palcoscenico dal quale detta le sue formule magiche, visto che i progetti di rilancio del Paese non contemplano il coinvolgimento della società o una dialettica tra punti di vista, ma sono ispirati dai grandi gruppi, con agganci internazionali e sensibili alle lobby multinazionali, talvolta in contrasto con le direttive europee, soprattutto in materia ambientale.

Il ministro, partendo dall’affermazione che entro il 2030 l’Italia dovrà installare 70 GW di rinnovabili (moltiplicando per 10 gli attuali investimenti), ha collocato successivamente al 2030 la vera decarbonizzazione della produzione elettrica e dell’industria. In sostanza, si tratta dell’avallo alle resistenze conservatrici dei gruppi energetici nazionali ed internazionali, mentre occorre una svolta e un cambiamento drastico di paradigma entro il 2025. Così si copre il più banale passaggio dal carbone al gas, come richiesto in ogni sede dai vertici di Eni e di Enel. Quando poi si afferma che dopo il 2030 avremo altri 25 anni per uscire dalle fonti fossili si “buca” il 2050, la “dead line” posta dalla Ue.

Che questo percorso sia quello che paventiamo, lo dimostra in alcune pieghe il “decreto semplificazioni” appena varato: il nostro Paese non vuole prepararsi alle rinnovabili senza l’ausilio dei combustibili fossili e, quindi, ci si lamenta dei ritardi nei processi autorizzativi per le rinnovabili, ma si allentano le regole di controllo e di protezione dell’ambiente e della salute nel caso specifico di nuove centrali (art.18). Perfino sul nucleare, pur sapendo che la questione in Italia è stata chiusa da ben due referendum, il ministro è stato molto blando nei confronti del tentativo della Francia e di altri paesi di far passare a livello europeo la fissione dell’atomo come fonte “a basso tenore di carbonio”, trascurando la letalità del suo impiego pur di farla accettare, al pari del Ccs, come fonte per produrre idrogeno blu anziché verde. Cingolani avrebbe dovuto dire semplicemente che l’Italia porrà il veto a qualunque tentativo di alimentare un futuro altroché residuale per il nucleare in Europa.

Intanto, c’è un inspiegabile ritardo del Governo Draghi nell’approvare (doveva essere inviato a Bruxelles il 31 marzo scorso) il piano per decidere dove installare l’eolico off-shore, mentre lo stesso fotovoltaico richiede una accelerazione nelle autorizzazioni, con la collocazione prioritaria su superfici esistenti e in aree industriali dismesse. In realtà, si coprono le resistenze al superamento dell’uso di tutte le fonti fossili il prima possibile. I gruppi pubblici, che dovrebbero essere i primi ad adeguarsi alle direttive di un governo che fa riferimento al Green Deal Europeo, tentano di eluderne l’indirizzo entro i confini nazionali, mentre al di fuori di essi, dove risulta forse più complicato fare “greenwashing”, investono solo in rinnovabili!

Così, per le centrali elettriche a carbone, dove il “phase out” è obbligato, si pensa al rimpiazzo di potenza con metano anziché passare direttamente a rinnovabili, pompaggi o idrogeno verde, ridisegnando così consumi, produzioni e buona occupazione in territori a lungo vulnerati dalla combustione dei fossili. Il gas naturale ha chiuso il suo ciclo: insistere con nuove infrastrutture, come si vorrebbe fare con i turbogas a Civitavecchia, clamorosamente in contrasto con la popolazione, le istanze sociali e le istituzioni, significherebbe pregiudicare una riconversione ecologica, laddove è già matura, a partire dal mondo del lavoro.

Le politiche industriali stesse non possono aspettare il 2030 per cambiare. Pensiamo all’Ilva di Taranto: dopo la recente sentenza occorre decidere il suo futuro, contemporaneamente occupazionale ed ambientale. Lo Stato è già entrato in Ilva con una partecipazione azionaria rilevante e presto sarà un’azienda pubblica a tutti gli effetti che potrà riprendere un’attività solo se compatibile con la salute. In questo caso, l’uso delle rinnovabili e dell’idrogeno è forse l’unico asse di fondo su cui provare a riprogettare una destinazione, lungo l’intero ciclo che tocca l’acqua, i gas in atmosfera, la bonifica del suolo.

La gestione della transizione ecologica che si sta evidenziando non appare convincente. Il ministro Cingolani ha il dovere di esplicitare come verranno impiegati oltre 50 milioni al giorno per 5 anni previsti dal Pnrr. La velocizzazione non può risolversi in un favore ai colossi energetici che oggi svolgono un ruolo di resistenza verso il cambiamento, la difesa del clima e l’innovazione, frustrando il ruolo delle istituzioni territoriali e la presa di coscienza delle collettività.

Scritto in collaborazione con Alfiero Grandi

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Pnrr, altro che transizione ecologica: le cabine di regia aumentano il disincanto verso la politica

Cambiamento reale e contrasto alla partecipazione. Solo cinque anni fa un grande movimento contribuiva a sospingere l’ambientalismo verso un profilo non ancora praticato a livello di massa: connettere la questione sociale alla sopravvivenza di tutto il vivente e rimettere in discussione la crescita come asse portante di un’economia demolitrice della natura e predatrice dei beni comuni. L’assunzione di responsabilità diretta delle nuove generazioni – studenti in particolare – nei confronti del degrado irreversibile della biosfera e l’invito della Laudato Sì – rivolta non solo ai fedeli – a riconoscere nell’ingiustizia sociale un legame indissolubile con la crisi climatica sembravano aver messo le ali ad una coscienza ambientale più aderente alle emergenze in corso, ma anche più sconvolgente per gli assetti politici in atto.

Il nostro Paese un lustro prima di Greta e Francesco si era già riconosciuto in una fase nuova, con la vittoria schiacciante al referendum popolare su acqua e nucleare. C’è allora da chiedersi quale stacco sia avvenuto tra quegli elettori, i cortei studenteschi del 2019, il messaggio potente di un venerdì piovoso in piazza San Pietro e le comunicazioni criptiche sulle “cabine di regia”, da cui dovrebbe scaturire la “riforma” e la ricostruzione di un Paese smarrito nella sua rappresentanza.

Lo scarto dovrebbe inquietare, dacché è stato preparato da un negazionismo caparbio e sapientemente articolato nelle sue manifestazioni. Si è trattato di un ostinato impegno a depotenziare la democrazia e a far sì che le autonomie territoriali, il mondo del lavoro e le gioventù del pianeta non avessero voce nella partita aperta, consegnata ai miracoli delle tecnocrazie. Il cambiamento evocato sembra tornare in mani che non prendono le distanze da quelle che ci hanno precipitato nell’emergenza attuale. Credo perciò che si debba in tutti i modi impedire una autentica restaurazione della coscienza ambientale diffusa che avviene in odore di mistificazione “verde”, che punta a far confluire prevalentemente sul sistema delle imprese un fiume di risorse pubbliche, frettolosamente vagliate da “cabine di regia” in cui nessuna dialettica dal basso trova spazio.

La delega ad una cerchia fidata e garantita solo dall’autorevolezza di Draghi non può far altro che alimentare il disincanto della popolazione verso la politica e, soprattutto, non risponde affatto alla mobilitazione che si registra in continui appuntamenti in rete e nei territori. Una partecipazione permanente della società civile, che è cresciuta e si è fatta più matura durante l’esperienza della pandemia, non può essere elusa.

Acqua e decarbonizzazione. Sono queste le due lenti che fanno da cartina di tornasole per la durabilità e la discontinuità del cambiamento. Parto da una prima considerazione: l’acqua va conservata nella sua rinnovabilità come parte del ciclo delle nuove energie e della stessa produzione di idrogeno verde, anziché sprecata nelle turbine e nelle caldaie alimentate a metano o in funzione di una mobilità invariata, seppure con motori elettrici. In buona sostanza, c’è da chiedersi quale sia il consumo e il risparmio di acqua e la sua distribuzione e accessibilità in funzione di un sistema energetico che valga per il Nord e per il Sud del mondo, che curi la salute del Pianeta e, insieme, assicuri giustizia sociale.

Per avere un’idea di quanto il bene acqua sia trascurato negli scenari in uso alle tecnocrazie, si consideri lo studio dell’ufficio parlamentare francese per le nuove tecnologie che ritiene necessari 400 reattori nucleari da 1 GW per produrre l’idrogeno previsto dai Paesi OCSE al 2050. Ovvero, sulla base dell’acqua che circolerebbe nelle centrali a fissione nel mondo, un consumo di 12 milioni di litri al secondo! Da dove prelevare un volume simile e come rimetterlo in circolo nella fragilissima pellicola che avvolge la Terra? Certamente è d’obbligo ottenere idrogeno verde dalle rinnovabili, ma, anche in questo caso, i metalli incorporati nelle nuove infrastrutture terranno conto di una escavazione che inquina masse d’acqua sempre maggiori? E non dimentichiamoci che molti metalli si trovano incistati in fossili che dobbiamo tenere sottoterra, se non vogliamo che la loro combustione dissemini di polveri dannose l’atmosfera.

In definitiva, tutti i cicli che prendiamo in considerazione dovrebbero per lo meno assicurare il massimo di riproducibilità e il minimo di entropia per l’ambiente in cui si completano: niente risulta più evidente all’esperienza umana del degrado dell’acqua e dell’effetto dei fumi che inquinano i laghi, i mari, l’atmosfera. Senza una diminuzione dei flussi di materia e di energia impiegati nei cicli produttivi, il sistema economico non riuscirà mai a rientrare in una traiettoria di compatibilità con l’ambiente, a meno che si cambino i consumi e le pratiche sociali.

C’è sentore di tutto ciò nel Pnrr e nel dibattito in corso, al di fuori delle associazioni e dei territori più avvertiti? Se si lascia decidere cosa, come e quanto produrre alle libere forze economiche di mercato non vi sarà nessuna transizione ecologica, ma solo un inseguimento senza fine della crescita del fabbisogno di nuova energia (fosse anche tutta da “fonti rinnovabili”), dello spreco insostenibile di acqua e di estrazione di materiali sempre più rari e critici.

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Rinnovabili, l’impatto della transizione è troppo caro? Cambiare consumi e stili di vita è cruciale

Il rapporto di sintesi NDC della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici dello scorso 26 febbraio afferma che il prossimo decennio, 2020-2030, sarà cruciale per il futuro dell’umanità. In attesa della COP26 di Glasgow nel novembre 2021 sono stati infatti registrati gli obiettivi di stabilizzazione dell’aumento della temperatura media globale cui ciascun Stato avrebbe dovuto contribuire “pro quota” per non oltrepassare il limite di 1,5°C. L’accordo di Parigi del 2015, infatti, lascia nelle mani degli Stati/Parti la decisione sulle riduzioni delle emissioni da effettuare per raggiungere l’obiettivo sopra menzionato e che si quantificano nei cosiddetti “Contributi Determinati a livello Nazionale” (NDC) da confermare ogni cinque anni.

Con estrema preoccupazione, si è rilevato che – stanti gli esigui livelli stimati di riduzione di CHG tra il 2015 e il 2020, la previsione di riduzione da qui al 2030 dovrà essere di ben 55 GtCO2eq. Entro la fine del 2020, erano stati aggiornati solo 48 NDC, che rappresentano 75 Stati/Parti responsabili di circa il 30% delle emissioni globali di gas serra. Su questo primo rilevamento la riduzione delle emissioni rispetto al 2015 è risultata di un misero 2,8%.

La situazione è estremamente scoraggiante e l’Italia con il suo attuale piano energetico rientra in queste sconsolanti dimensioni, puntando anch’essa furbescamente alla cosiddetta “neutralità del carbonio” a metà del secolo, piuttosto che intraprendere un’ambiziosa mitigazione già nel prossimo decennio. Senza raggiungere gli obbiettivi posti dal Green New Deal europeo, saremmo tra i responsabili della esposizione della totalità degli ecosistemi del pianeta a condizioni mai registrate durante il periodo geologico in cui la nostra specie si è sviluppata.

Di ciò si rende conto anche Federico Fubini che, nell’articolo del Corriere della Sera del 10 maggio, si chiede se ci sia piena coscienza della sfida cui siamo tenuti e della profondità delle trasformazioni che ci attendono con l’abbandono dei fossili.

Trovo molto appropriata la sua riflessione sulla “distrazione” degli italiani al riguardo ma continua a sorprendermi come praticamente tutto il mondo dell’economia e della politica non riesca a liberarsi di un assioma: qualunque trasformazione produttiva e degli stili di vita diventi necessaria, non può contare su una diminuzione del Pil, destinato immancabilmente a crescere per garantire occupazione, ripresa ed esorcizzare ogni emergenza futura. Inoltre – altro assioma – il mantenimento dello stile di vita in corso va preservato.

Va da sé che le potenze ed i consumi energetici continuerebbero a espandersi: “Come potremmo – argomenta il giornalista – azzerare i settemila chili di carbonio che ogni italiano emette nell’atmosfera ogni anno? Solo e soltanto con 70 GWatt di energie rinnovabili, equivalenti ad una cinquantina di centrali nucleari come quelle francesi, tappezzando di pannelli solari oltre 200 mila ettari, quasi il 2% della superficie coltivata in Italia e piantando pale eoliche letteralmente ovunque, compromettendo un paesaggio secolare e la risorsa del turismo?”. E’ chiaro l’avvertimento: riconosco che il tempo per evitare la catastrofe stia venendo a mancare, ma “perché allora rinunciare al sequestro del carbonio o all’idrogeno prodotto anche da gas naturale, per non parlare di una dose di nucleare nel mix complessivo?”.

I numeri forniti nell’articolo del Corriere sono un tantino esagerati anche a parità di consumo (oggi si può avere 1,5 MW per ettaro da fotovoltaico e la prospettiva di pale eoliche da oltre 4 MW si colloca off-shore, fuori cioè dalla vista da riva), ma nemmeno troppo se il sistema rimane inalterato. Oltretutto, si sottovaluta che si tratta di fonti di energia funzionanti senza emissioni climalteranti, in continua evoluzione e specificatamente decentrate, oltre che pianificabili con accumuli che ne migliorano il rendimento discontinuo. Già questo basterebbe a farne d’obbligo la tecnologia sostitutiva dei fossili. Ma non basta: occorre puntare alla sufficienza elettrica e riorganizzare una struttura ottimizzata per fonti diffuse e con un risparmio netto a parità di benefici resi.

Non c’è invece alcuna soluzione consolatoria se si continua a consumare e produrre come abbiamo imparato dal sistema centralizzato del carbone, del petrolio e del gas, sprecando nella combustione, ostacolando la creazione e la condivisione comunitaria dei sistemi energetici, organizzando una mobilità fatta di veicoli proprietari che stanno in coda, programmando cicli di vita che accelerano la trasformazione di prodotti in scarti e facendo degli allevamenti intensivi e dell’agricoltura una sorgente di inquinanti e, infine, illudendoci che il ricorso al metano non ci riservasse la minaccia più grande a breve per il riscaldamento del pianeta.

Trovo certamente di rilievo che un giornalista come Fubini ci spinga a riflettere su un futuro prossimo in cui le scelte si rifletteranno immediatamente sugli stessi stili di vita e sul nostro rapporto con la natura, il paesaggio, l’intero vivente. Ma non c’è continuità praticabile, se si persegue davvero l’equilibrio climatico ed una maggiore giustizia sociale. Molte e incalzanti sono le novità con cui misurarsi e a cui ci sottopone una scienza sempre più allarmata della sopravvivenza. A questo punto, vorrei fare riferimento ad un recentissimo studio patrocinato dall’UNEP che rivela che, se l’anidride carbonica ha un ruolo fondamentale nel riscaldamento globale, nondimeno il metano (CH4), con un potenziale di riscaldamento molto più alto della CO2 (di ben 28 volte considerando un orizzonte temporale di 100 anni), merita altrettanta attenzione. Anzi, nel breve periodo (i primi venti anni) ancora maggiore attenzione, se si vuole stare nei limiti di temperatura di 1,5°C. Ogni giorno di più ci accorgiamo che la sindemia è un avvertimento per un cambio di passo irreversibile. Proprio questo cambio accelerato andrebbe favorito dai fondi Next Generation.

Per andare a casi concreti, penso, ad esempio, all’insistenza di Enel sull’impiego del metano nella centrale di Civitavecchia, dove le articolazioni istituzionali, civili, sindacali – perfino religiose – hanno provato a far lievitare dal basso un modello di fornitura e consumo elettrici non più incatenati ai fossili, per ritrovarsi poi, nelle tabelle del PNRR, poste di bilancio deludenti, che confermano i fumi da combustione che hanno afflitto da oltre settant’anni la città e il litorale laziale e con accenni solo irrisori all’eolico off-shore, o all’accumulo in pompaggi o idrogeno verde, che aprirebbero spazi occupazionali, con una specializzazione manifatturiera ed una logistica portuale di pregio in un territorio che per il suo futuro ha scelto il passaggio desiderabile all’energia del sole, del vento, dell’acqua.

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