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Clima, per me è scandaloso che il governo dia tanto spazio di improvvisazione alle aziende pubbliche

“È urgente prendere decisioni reali molto robuste e muoverci a un ritmo molto forte” per affrontare il cambiamento climatico, ha affermato Giorgio Parisi, “perché siamo in una situazione in cui possiamo avere feedback positivi che possono accelerare oltremodo l’aumento della temperatura. È chiaro che per le generazioni future dobbiamo agire ora in modo molto rapido e non indugiare“. Con queste parole il premio Nobel 2021 per la fisica ha commentato il suo contributo allo studio dell’evoluzione dei sistemi complessi, come quello che rappresenta il clima e per cui ha ottenuto il prestigiosissimo riconoscimento. Mentre rendeva le prime dichiarazioni – molto significative da parte di un grande scienziato – la penisola era flagellata da bombe d’acqua e tornado da nord a sud.

Un’urgenza che non sembra nei fatti compresa dalla “cabina di regia” del governo, che continua a dilazionare i tempi di intervento con i fondi del Pnrr, esitante sul futuro del nostro sistema energetico, ancorato a fossili, trivellazioni e a qualche intervento di pura facciata sulle rinnovabili. Dopo lo straordinario corteo del 5 ottobre a Milano e l’annuncio di una costellazione di nuove manifestazioni in tutto il Paese prima dell’inizio della COP 26 di Glasgow – ricordo, tra le numerose altre, quella promossa dagli atenei italiani il 29 ottobre – chissà mai che dagli uffici ministeriali si dia uno sguardo ai manifestanti che si raccoglieranno sotto le loro finestre già sabato 9 ottobre a Roma con lo slogan “basta greenwashing!pratica istituzionale accreditata per coprire i regali fatti al fossile (20 miliardi di euro all’anno) con la copertura di una “transizione energetica” che contempla la centralità del metano, dell’idrogeno blu, del Ccs, di nuove trivellazioni, di nuovi gasdotti e di centrali a gas per sostituire la filiera del carbone.

Mentre si conclude la Precop 26 milanese, vengono ignorate le spinte dal basso che realizzano progetti alternativi contro il Ccs con “emissioni zero” a Ravenna e le rivendicazioni di quei lavoratori che, come nel caso di Civitavecchia, hanno capito quanto i nuovi impianti a turbogas, oltre ad inquinare, determinino anche gravi problemi occupazionali.

Il segnale inequivocabile di un popolo che pretende l’uscita dal fossile è giornalmente annacquato dal mainstream, intento a rimuginare fino ad esaurimento su quanto i capricci di Matteo Salvini, le fumosità di Carlo Calenda e le capriole di Matteo Renzi possano tenere botta ai decreti e alle riforme immodificabili che Mario Draghi concorda in sedi extraparlamentari.

In fondo, l’astensione di elettrici ed elettori alle Amministrative di ottobre fa pensare che il voto non sia in grado di influenzare le loro stesse vite; dato che si trasforma semplicemente nel “parterre” post-elezioni in cui quel che rimane dei leader politici più noti – sempre gli stessi – si azzuffa per un briciolo di potere sotto lo sguardo di habitué del piccolo schermo, anch’essi da anni sempre gli stessi.

L’irrompere di un Nobel così colto, ragionevole, mite, eppure tagliente e allarmante nelle sue previsioni, si riconnette immediatamente all’altra “metà del cielo”, che oggi è fatta di quante e quanti hanno a cura le sorti delle vite, della giustizia, della Terra.

Da tempo l’Associazione laica “Laudato Sì” raccoglie e alimenta proposte, studi, convergenze, occasioni di formazione e analizza profili indispensabili di riconversione ecologica, che i governanti tuttavia non sembrano voler mettere all’ordine del giorno. E non lo fa da sola, ma con moltissimi altri soggetti collettivi che non approdano ad una rappresentanza politica nel sistema del liberismo più camuffato.

Ci si dovrà pur chiedere, ad esempio, come sia possibile che lo scenario futuro della crescita della combustione di metano sia l’asse che in sede nazionale ha adottato la più grande impresa nazionale di idrocarburi – l’Enisenza tener conto degli insostenibili danni ambientali e alla salute. Obiettivo tanto indifendibile da obbligarla ad adottare, quando concorre a gare di assegnazione all’estero, misure di passaggio a tecnologie rinnovabili estranee alla combustione di gas e petrolio già opzionato per i suoi gasdotti diretti in Italia.

Nello stesso tempo apprendiamo che Francesco Starace, un ad coraggioso all’Enel – anch’essa una partecipata statale come Eni – è l’inventore dell’obbligazione legata alla sostenibilità, lo strumento di gran lunga più grande del mondo, con un affare da 3,25 miliardi di euro (2,7 miliardi di dollari) ripagati dal conseguimento della neutralità climatica. Il bond di Enel ha due indicatori chiave di prestazione che fanno riferimento a due Sdg (Substainable Development Goals: il 13 su Climate Action e 7 su Affordable and Clean Energy). L’Enel mira a ridurre le emissioni dirette di gas serra del 64% entro il 2023, dell’80% entro il 2030 e completamente entro il 2050, il tutto rispetto al livello base del 2017, aumentando la propria capacità rinnovabile al 55% entro la fine di quest’anno, al 60% entro la fine del prossimo anno e al 65% entro il 2023.

Almeno il 90% dei nuovi investimenti di Enel deve ora essere allineato ad attività sostenibili, rispetto al 58% dell’anno scorso. E punta a far sì che il 48% dei suoi finanziamenti provenga dalla finanza sostenibile entro il 2023 e il 70% entro il 2030. Un’azienda sostenibile è certamente meno rischiosa, più redditizia e più resiliente. Purtroppo occorre considerare che, nella riorganizzazione internazionale di Enel decisa dallo scorso anno, è stata creata una specifica holding nazionale per l’Italia data in affidamento a Carlo Tamburi, il più convinto sostenitore del turbogas a Civitavecchia e insieme il meno propenso a invertire la rotta verso le rinnovabili sostenuta dall’Ente fuori dai confini nazionali.

Riesce scandaloso che in tanto chiacchierare sul clima si lasci alle aziende pubbliche uno spazio di improvvisazione o di interesse aziendale puro in dimensione nazionale, dove hanno più libertà di azione e più coperture politico-clientelari.

È il momento che il governo Draghi mostri la sua faccia e si ponga in sintonia con i cittadini sui piani energetici e climatici. Il danno per il Paese sarebbe di veder finire i fondi Pnrr per ripianare debiti anziché per fare investimenti. E non è certo di buon auspicio per i bilanci già indebitati il fatto che le prime cinque supermajor petrolifere e del gas al mondo abbiano perso circa 200 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato dal 2015, compromettendo la loro capacità di finanziare il cambiamento alla scala e al ritmo richiesti, ricorrendo altresì all’azione dei loro apparati legali per affibbiare agli stati i rischi cui vanno incontro.

Fossi Roberto Cingolani, inviterei al più presto il Nobel Parisi ad un sereno e non informale colloquio sulla transizione ecologica.

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Clima, perché i soldi europei rischiano di essere un incentivo all’immutato sistema industriale

L’ultimo venerdì di ottobre, il 29, una mobilitazione contro il global warming partirà dagli Atenei italiani per coinvolgere tutti i cittadini su tre obiettivi concreti, in occasione dell’apertura, il successivo 1° novembre, di COP 26 a Glasgow.

1) La “linea del Piave” climatica sia il 2025, anno sul quale traguardare obiettivi e piani di governo impegnandoci ogni giorno per la loro realizzazione;

2) Attuare la raccomandazione Ue del “40%” di rinnovabili; cioè in Italia, almeno 28 GW di solare ed eolico entro quella data;

3) Un cambio immediato di rotta del gruppo dirigente Eni, affinché il 25% di riduzione di emissioni in atmosfera (CO2 E CH4) sia realizzato non oltre il 2025.

In queste ultime settimane, mentre l’accelerazione, e l’aggravarsi, della crisi climatica ancora non diventava priorità del discorso pubblico, è piombato come una mazzata il VI Rapporto dell’Ipcc ad ammonire ancora una volta che: “non c’è più tempo”. L’urgenza e il ripetersi degli appelli dell’Ipcc negli ultimi anni fa scolorire quelle previsioni che, ancora dieci anni fa, dipanavano con gradualità il dramma climatico nel corso di tutto il nostro secolo. L’urgenza ha invece individuato nel 2030 l’anno di riferimento, quel “tipping point” dal quale non si torna più indietro, anticipato di vent’anni, rispetto al precedente 2050, del rapporto 2014. In Italia, quindi, quella è la data con la quale devono misurarsi politiche economiche, industriali e ambientali per conseguire i loro obiettivi energia/clima e per dare forza alla svolta di ecologia integrale senza ulteriori rimandi.

Di conseguenza, la significativa consapevolezza politica Ue dell’accelerazione degli effetti del global warming ci deve stimolare a essere realisti e a proporre proprio il 2025 come anno sul quale misurare l’efficacia dei programmi e degli sforzi per realizzarli. Siamo invece vicini a una tornata elettorale che non sembra scuotere su obiettivi così cogenti i futuri amministratori. Assumere solo il 2030 sarebbe indulgere a ritardi, anche burocratici, in dissonante contrasto con l’angoscia dell’urgenza.

Nel nostro Paese, uno dei grandi enti energetici nazionali, l’Eni, che dovrebbe assumere un ruolo propulsivo, si prodiga invece per mantenere l’Italia nell’era dei fossili, come testimonia, tra l’altro, la sua insistenza sul progetto “Carbon Capture and Storage” (Ccs) al largo di Ravenna. Mario Draghi e il governo devono aver chiaro che, oltre a compromettere la salute dei cittadini con le emissioni inquinanti, si comprometterebbero gli obiettivi energia/clima del Piano nazionale di resilienza e recupero (Pnrr), nonché lo stesso futuro del maggior Ente partecipato dallo Stato.

È infatti inaccettabile che esso mantenga il grottesco obiettivo al 2030 del 25% di riduzione delle emissioni climalteranti, in fragoroso contrasto con il 55% richiesto a dicembre 2020 dal Consiglio d’Europa. Occorre ricordare che il 26 maggio scorso un tribunale olandese ha intimato alla Shell di portare al 45% entro il 2030 la riduzione delle sue emissioni. Se l’Eni non è in grado di conseguire da sola un obiettivo di riduzione decente, si attivi un’intesa anche con Enel, altra partecipata dallo Stato, per la decarbonizzazione dei siti Eni “hard to abate”, con la rinuncia a nuovi investimenti sul gas, come, grazie anche a una lotta popolare, sembra profilarsi già per Enel a Civitavecchia.

È un errore grave per un ente della dimensione e con la storia nazionale di Eni mantenere oggi il core business negli idrocarburi. Voglio richiamare infatti che:

1) nel corso del 2020 le maggiori compagnie Oil&Gas hanno distolto ben 87 miliardi di dollari da quel mercato;

2) la Iea – International Energy Agency, che raccoglie tutti i Paesi del mondo “avanzato” e che non è sospettabile di simpatie per le fonti energetiche rinnovabili, nel suo rapporto “Net Zero by 2050” afferma: “there are no new oil and gas fields approved for development in our pathway” (nel nostro percorso non è prevista l’approvazione di nessun nuovo campo di petrolio o di gas da sfruttare);

3) le principali compagnie europee Oil&Gas si sono date importanti obiettivi sulle rinnovabili al 2030: 100 GW per Total, 50 GW per BP, mentre il target dell’Eni è invece di soli 15 GW!

In questi giorni capita di leggere di politica industriale in un documento programmatico del ministero della Difesa che, con particolare enfasi, si riferisce all’industria degli armamenti, assurta a “base della sovranità tecnologica del Paese”. C’è da chiedersi allora perché mai nelle copiose pagine del Pnrr non ci siano cenni espliciti a politiche industriali: nessuna programmazione tangibile di una profonda riconversione ecologica, che, come ha ricordato Draghi in una sede internazionale, eviterebbe la catastrofe di 3°C di aumento a fine secolo. Più nello specifico, c’è una totale incertezza per la sostituzione del gas con le rinnovabili, quando invece per incrociatori, bombardieri e droni ci si appresta a “raccogliere la sfida della globalizzazione, dell’innovazione digitale e della transizione ecologica” (Sic! nel documento appena citato). Così, il ministro “effettivo” della transizione ecologica, in assenza di piani industriali, può permettersi di ricredersi il giorno successivo su quanto affermato a spanne il giorno prima (70 GW di rinnovabili, anziché la fusione nucleare a portata di mano…).

Oggi l’alterazione del clima è il punto centrale che deciderà del futuro stesso dell’umanità. Per evitarlo e avere cura del Pianeta necessita, oltre a una riduzione dei consumi, un piano industriale-logistico-manifatturiero per il rilancio delle energie rinnovabili, soprattutto eolico offshore e fotovoltaico, stabilizzando la rete nei momenti di discontinuità della produzione. E, nel contempo, un sostegno lucido e socialmente inclusivo alla riconversione industriale che compensi i perdenti della transizione. Una programmazione robusta che non è all’orizzonte, perché i tempi non corrispondono all’urgenza e la destinazione dei fondi del Next Generation Ue non hanno un indirizzo cogente, né fondato sulla partecipazione, il consenso dei cittadini e il diritto all’occupazione.

Al punto attuale i soldi europei rischiano di essere un incentivo al sistema immutato e resistente al vecchio delle imprese italiane per continuare a sfruttare un loro posizionamento sul mercato interno che non risolve ma peggiora l’emergenza climatica. E qui sta il paradosso: l’allarme di Draghi potrebbe passare sottotraccia, perché il ruolo che assumeranno le partecipate dallo Stato e dalle amministrazioni locali (Enel, Eni, A2A, Hera, Acea, Iren) dipenderà più dalla maggiore o minore lungimiranza dei loro Ad e dagli equilibri interni ai loro CdA, che non dagli indirizzi programmatori dello Stato, viste le contraddizioni presenti nel Governo e lo scarso conto in cui viene tenuta la democrazia.

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Delle funamboliche esternazioni di Cingolani pochi ne ravvisano lo spirito di fondo

Nelle funamboliche esternazioni del ministro Roberto Cingolani, pochi ravvisano lo spirito di fondo che ne anima le intenzioni. Negli ambienti che non rinunciano alla crescita a qualunque costo e a prolungare una cultura dello spreco, si sta affermando una visione del futuro disdegnata da tutto il mondo delle scienze naturali e temuta da quello dell’ecologia integrale. Tollerare, cioè, ingiustizie sociali insanabili e mettere in conto condizioni climatiche ostili alla sopravvivenza e alla rigenerazione della biosfera, pur di non rinunciare alla combustione dei fossili o al nucleare “riabilitati” da un intervento a valle del ciclo, con la pretesa insensata di ridurre le scorie di una produzione energetica insostenibile.

Se questo è l’obiettivo inconfessato, solo due tecnologie si aprono all’orizzonte di improvvisati apprendisti stregoni: sequestrare sottoterra la CO2 prodotta in eccesso, oppure fornire energia con combustibile radioattivo impiegato in reattori non convenzionali. Due vie oggi fuori portata perfino su scala commerciale, ma, soprattutto, incompatibili coi tempi e i cicli della natura e, quindi, dirette a scaricarsi ulteriormente sulle generazioni a venire.

Seguendo l’onda, i quotidiani e le riviste danno con sempre maggiore frequenza notizia di progetti grandiosi, come quello di fissare le emissioni climalteranti in pozzi scavati nelle rocce dei deserti dell’Oman (vedi articolo su Scienze, settembre 2021), o di catturare la CO2 in atmosfera per spedirla nelle sacche di basalto dell’Islanda o, ancora, di mantenere un plasma di deuterio-trizio isolato dal mondo esterno a temperature elevatissime con un campo magnetico ad altissima intensità in un’apparecchiatura sperimentale dal diametro di 30 metri e l’altezza di 20. Ma il revival su progetti di là da venire ha un sottinteso: non c’è urgenza per i prossimi anni, perché dopo la narrazione della Laudato Sì e la mobilitazione in ripresa di Greta e degli studenti, tutto tornerà a funzionare come prima.

Cingolani ha colto l’aria e ha capito che il Governo Draghi non ha intenzione di fermare la marcia sbagliata dell’Eni e delle altre partecipate pubbliche che, dentro scenari di progetti fantasmagorici da realizzare tra mezzo secolo, potrebbero mantenere la loro perseveranza su gasdotti, metanizzazione, idrogeno blu, a dispetto delle rinnovabili già vantaggiose e a disposizione. Questo potente apparato industriale, culturale e mediatico, che ha preso una scossa già prima della Pontedilegno dei due Mattei, ha cercato di mettere la sordina alle conclusioni dell’Ipcc, che arrivano puntuali sui tavoli dei governanti in attesa della Cop 26 di Glasgow, ricordando che la Terra non è mai stata così calda da 125mila anni e che non basterà l’obiettivo di 2°C di Parigi, perché non dovremo superare 1, 5°C.

In questi giorni sta per essere pubblicato uno studio di Nature di grande rilievo di cui cominciano a circolare anticipazioni: la maggior parte delle riserve di combustibili fossili deve rimanere non sfruttato per non superare l’obiettivo di riscaldamento di 1,5 °C. Molti dei progetti pianificati, di estrazione di carbone, petrolio e gas dovranno essere abbandonati e quasi il 90% delle riserve globali di carbonio fossile deve essere lasciato nel sottosuolo. Ne segue che la produzione di carbone, petrolio e gas deve raggiungere il picco entro il prossimo decennio — e che la maggior parte dei progetti di combustibili fossili esistenti e pianificati sarebbe, di conseguenza, impraticabile.

Come spiegarlo all’Eni o alle tante compagnie così impegnate sui fossili e sulle pipelines ancora da saturare di metano? Come dirlo a Civitavecchia dove la popolazione, il sindacato e le istituzioni locali hanno avuto il merito di aprire un reale conflitto sul turbogas?

Nebojsa Nakicenovic, economista energetico, afferma che “la strategia di avere emissioni in eccesso e quindi rimuovere il carbonio dall’atmosfera ‘significa che stiamo rimandando il problema alla seconda metà di questo secolo’, e il carbonio le tecnologie di rimozione del biossido hanno una lunga strada da percorrere prima che siano scalabili”.

In conclusione, le esternazioni di Cingolani non devono ritardare una riconversione energetica fondata su riduzione dei consumi e decentramento locale e basata su fonti rinnovabili e accumuli. Non si deve far pagare allo Stato una finta transizione ecologica, con gli investimenti in gas – che resta un fossile, anche travestito da idrogeno – un po’ di trivellazioni in mare e qualche favore ai metanodotti che arrivano da ogni dove, mentre lo specchietto del nucleare attira i più sprovveduti.

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Transizione ecologica con metano e nucleare? Ci vuole una buona dose di arroganza

di Mario Agostinelli e Paolo Cacciari

D’ora in poi chiameremo il nostro ministro alla finzione ecologica Atomino. Forse qualcuno si ricorderà il Pioniere, l’inserto del giovedì per i piccoli dell’Unità nei primi anni ’60. Uno dei personaggi principali dei fumetti era Atomino, l’atomo di pace che veniva dal freddo per dare prosperità e felicità a tutto il mondo.

La riorganizzazione del ministero alla Transizione ecologica preparata dall’agenzia privata di consulenza Ernst & Young – 21 pagine ponderose tradotte dall’inglese e consultabili al sito del ministero – prevede tra le competenze del Dipartimento Energia gli “impieghi pacifici dell’energia nucleare”. Ohibò! Per fortuna che gli impieghi militari non sono consentiti all’Italia. Ma forse con Draghi si può sperare.

Per ora il nostro simpatico Atomino si accontenta degli Small Modular Reactors (come quelli installati su navi e sommergibili da guerra degli Usa e della Russia) sponsorizzati dalla Francia che sta bloccando da un anno le trattative in Europa sulla applicazione della “tassonomia” degli investimenti verdi (atti delegati del Regolamento 2020/852) che serve ad individuare le tecnologie considerate utili al fine di raggiungere gli obiettivi climatici del Green Deal (riduzione del 55% delle emissioni di CO2 entro il 2030 e “neutralità” entro il 2050) e quindi finanziabili anche con i denari della Banca Europea e del Next Generation UE.

Il nostro Atomino non solo appoggia la Francia nell’includere il nucleare tra gli investimenti “verdi”, ma chiede un trattamento di favore anche per il metano se impiegato per produrre idrogeno (Blue Hydrogen) e se le relative emissioni di anidride carbonica dovessero essere catturate, concentrate, liquefatte, pompate e scaricate nelle viscere della Terra. Tra le competenze previste dal nuovo Regolamento del Ministero c’è quella di autorizzare gli “stoccaggi di CO2 nel sottosuolo”. Insomma, una tecnologia all’avanguardia, come quella della scopa che fa sparire la polvere sotto il tappeto.

Ma basta leggere gli allarmi dell’Iea (Agenzia Internazionale per l’energia .-non certo un circolo di vegani) o dare un’occhiata al mare di Fukushima o alle brughiere di Chernobyl: il metano sfugge dalle infrastrutture di trasporto e rende ancor più letale il mix di climalteranti in atmosfera; i prodotti della fissione nucleare sono per sempre! Ci vuole una buona dose di arroganza e imprevidenza per considerare metano e nucleare “combustibili di transizione”. Intanto i consumi energetici crescono e la quota di energie rinnovabili ristagna.

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Il G8 di Genova è stata un’occasione che si è scientemente fatta implodere

È impossibile separare l’immaginario collettivo elaborato a 20 anni dal G8 genovese dall’esperienza diretta di una giornata splendente e “pura” di primo mattino, colma di speranza e come sbocciata dopo una notte di smarrimento impresso dall’uccisione di Carlo “ragazzo”. I pullman che a Boccadasse – fianco mare – srotolavano fiumi di persone che si aggrumavano in corteo dietro molteplici striscioni e bandiere colorate alimentavano la convinzione che il rifiuto della violenza avrebbe finito per avvolgere una città magica per la sua storia e la memoria antifascista.

Una moltitudine determinata procedeva infatti ordinata con la sensazione che la “Zona Rossa” dei potenti della Terra fosse un loro autoisolamento, timoroso del contatto con sudditi in avanscoperta di un mondo desiderabile. Nonostante sparute incursioni di qualche “black-bloc”, difficilmente distinguibile dalle divise speciali dei poliziotti in formazioni compatte, c’era una calma familiarità in quel popolo che proveniva da tutta Europa. La consapevolezza di una forza di massa che pretendeva “un altro mondo possibile” sarebbe stata però presto ammorbata e sfregiata dai gas e dai pestaggi in pieno giorno e, infine, precipitata nei massacri della serata e di quella terribile notte.

Provo – probabilmente in uno sforzo inadeguato e forse pretenzioso – ad estendere da testimone alcune considerazioni che “tengono” ancor oggi in prospettiva, ben consapevole che a Genova 2001 si è scientemente fatta implodere una occasione di convergenze a dimensione popolare, democratica e globale, che avrebbe forse dato tempo alla maturazione di un sistema adatto al progredire della storia umana, già allora incompatibile con una continuità inaccettabile di predazione della biosfera e di incessante crescita delle disuguaglianze.

In altre occasioni (vedi Genova con noi ed. Punto Rosso) ho estesamente raccontato lo svolgersi della giornata, che è arricchita e documentata da mille voci, immagini, video: qui mi preme riprendere solo le considerazioni che a distanza potrebbero essere andate sorprendentemente in ombra.

C’era ed era forte, combattivo, organizzato e in forma di presenza popolare il mondo del lavoro: in particolare la Fiom nazionale, la Cgil della Lombardia (37 pullman stipati, da Milano, Brescia, Brianza, Lodi ed altre province), diverse Camere del Lavoro liguri, emiliane e del Sud, tutte allertate per un energico servizio d’ordine e per servire una manifestazione condivisa, dovuta, in linea con Seattle e Porto Alegre, nonostante non avesse l’avallo dalle segreterie confederali nazionali. Una presenza assai significativa, perché andava dritta alla difesa dei diritti sociali, era folta di ragazze e ragazzi ed aspirava ad un “senso del lavoro”, che da Genova in poi resisterà come fulcro contro il disprezzo di cui si è fregiata la globalizzazione capitalista.

Il mondo del 2001 era un mondo molto diverso da quello attuale. Si veniva dalla sbornia dei successi della new-economy informatica e le varie leadership europee di centro-sinistra degli anni 90, dopo aver messo in soffitta conflitto di classe ed anche solo sincere prospettive socialdemocratiche, ripetevano senza interruzioni i nuovi dogmi. Cercavano di convincerci che il libero mercato e la globalizzazione ci avrebbero accompagnati verso un futuro di benessere e libertà; che il welfare e i diritti del lavoro erano un orpello novecentesco e che la flessibilità era una opportunità per una vita avventurosa e dinamica. Il corteo metteva a nudo le menzogne più infide, ma lasciava lacunoso un aspetto fondamentale: mancava la coscienza che la riduzione di natura amica e il suo degrado fossero il frutto della crescita dominante e che una nuova ingiustizia, quella climatica, avrebbe scortato l’ingiustizia sociale. La marcia dei migranti il 19 luglio 2001 a Genova, ad esempio, esternava il massimo di fraternità interna, ma incontrava una insipida collateralità del mondo sindacale.

Credo che tra gli obbiettivi della repressione e della mattanza organizzate e premeditate nei giorni genovesi ci fosse quello di avvisare, in particolare le nuove generazioni, che tra occupazione e ambiente, agricoltura industriale e cura della natura, speculazione immobiliare e biodiversità, i secondi termini dovessero essere oscurati per essere funzionali alla crescita e ai profitti. Nel 2001 eravamo ancora nel campo della geopolitica, prima che gli anticipatori dell’ecologia integrale e poi Francesco e Greta ci portassero in quello della biosfera. Era – di fatto – ancora una cultura antropocentrica e patriarcale ad alimentare il potere in economia e politica.

Quando portammo le foto di Genova (Berlusconi-Fini) al Forum Sociale di Porto Alegre del 2002 (Lula) i brasiliani mostravano verso quelle immagini lo stesso orrore con cui noi guardiamo oggi le foto dei seppellimenti dei morti di Covid a Manaus (Bolsonaro). In pochi decenni i cambiamenti sono insospettabili e sempre marchiati dalla violenza, che tuttavia non può che stemperarsi se si pensa alla sopravvivenza come chiave del futuro. Il cartello del Genoa Social Forum teneva insieme ben 1.187 soggetti politici, sociali e associativi i più diversi l’uno dall’altro. Un fronte ampio e composito, mai più ricostituitosi a quelle dimensioni, ma sedimentatore del metodo della convergenza e che, dopo aver retto in qualche modo la repressione del G8, nei due anni seguenti sarebbe stato capace di portare in piazza milioni di persone nelle battaglie sociali come quella per la difesa dell’articolo 18.

Solo 53 giorni dopo il G8, l’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York ci porterà diritti allo scenario della guerra globale permanente. E in effetti va a compimento una “contronarrazione” da parte dei media del potere che già si era avviata nei giorni di Genova: i disordini anziché l’enorme e pacifico corteo che l’ha attraversata; il crollo delle Torri stipate di vita, di commercio, di relazioni e di benessere anziché l’attacco al simulacro della potenza militare del Pentagono; le immagini arroganti e demoniache, prese dagli archivi, di Bin Laden e di Mohamman Omar anziché le riprese in diretta di Al Jazeera dei derelitti civili morti a Kabul; e, in accompagnamento i talk show sempre regolati dalle stesse maschere, anziché le trecentomila persone che a Perugia marceranno due mesi dopo Genova contro la guerra.

Contrapponendo sapientemente immagini a contrasto, si vuole imporre al ragionamento critico di non posarsi con la sua autonomia sull’impressionante concatenamento dei fatti e farne memoria critica. Eppure, non si può affatto trascurare che a Genova si consolida e nasce una narrazione che oggi, di fronte alle emergenze del cambiamento climatico e dell’estrema ingiustizia sociale, riprende il suo corso con accenti diversi ma con lo stesso sapore di sfida campale ai governi del pianeta. Ora sono tempi nuovi e quei semi stanno faticosamente riapparendo.

Il G8 rimane un punto di svolta. Un annuncio di un cambiamento strutturale che sta diventando maturo anche dopo la pandemia. Ed esserci ora, come allora, quando la posta è alta e non tirarsi indietro è, comunque, lasciarci dietro un germoglio da curare per chi verrà e non farsi strappare da chi le gemme le fa bruciare in una stagione in cui il clima ormai colpisce inesorabile.

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