Archivi categoria: incentivi rinnovabili

Efficienza in casa

Piccola guida su come ridurre i consumi dell’energia che usiamo in casa, utilizzando incentivi e detrazioni fiscali.

Nelle nostre case consumiamo quasi un terzo dell’energia che utilizziamo e causiamo un terzo delle emissioni di CO2, pertanto se vogliamo consumare meno risorse ed inquinare meno per preservare l’ambiente ed il clima, dobbiamo ridurre i consumi domestici.

Costruire una casa ecologica ben progettata non costa molto di più di una casa “energivora” (indicativamente il 15%), e il costo in più si ripaga molto velocemente, anche entro due o tre anni di utilizzo della casa. A conti fatti è sempre conveniente nel medio e lungo periodo investire in sistemi di risparmio energetico e di utilizzo delle fonti di energia rinnovabile, ma come sempre è importante progettare bene realizzando strutture e impianti semplici e correttamente dimensionati.

Perché costruire case a ridotto consumo energetico?

Se facciamo riferimento ai consumi medi nazionali ed al parco immobiliare di riferimento si valuta che una unità residenziale di 90/100 mq, in un fabbricato multipiano, realizzata con finitura media e con le tradizionali caratteristiche costruttive richiede in termini energetici per la sua costruzione circa 100 tonnellate di materiali (cemento, calce, laterizi, piastrelle, sanitari, ecc) in gran parte prodotti mediante processi di cottura, con un costo energetico medio di circa 750 kCal/kg prodotto. Se ne deduce che il costo energetico dei materiali necessari a realizzare una abitazione di questo tipo si aggira sui 5,5 TEP (tonnellate equivalenti di petrolio), considerando anche il costo energetico del cantiere, delle movimentazioni terra, del trasporto degli inerti, ecc. Valutando i consumi medi per il riscaldamento pari a circa 1tep/anno in poco più di 5 anni una abitazione consuma, per il solo riscaldamento, una quantità di energia uguale a quella impiegata per la sua costruzione( ENEA).

In questo testo ci occuperemo di case già costruite, ma prima di pensare a quali interventi fare è indispensabile capire quanto e come consumiamo energia. Le statistiche ci dicono che nelle utenze residenziali il consumo energetico maggiore è sicuramente quello per riscaldare gli ambienti; segue quello per riscaldare l’acqua calda sanitaria e poi ci sono i consumi di energia elettrica.

Visto che l’energia è utilizzata principalmente per riscaldare gli ambienti, una delle azioni prioritarie deve essere quella di migliorare l’isolamento, dopodiché occuparsi del sistema di riscaldamento.
Misurare quanta energia consumiamo ci servirà poi per valutare quanta possiamo risparmiarne; statisticamente le nostre case consumano mediamente da 10.000 ai 20.000 kWh l’anno. Verificati i consumi vanno determinati i costi. Di solito i vari combustibili fossili sono misurati in kg o in litri; per comparare le diverse fonti di energia è importante non solo sapere quanto costa un litro o un chilo o un metro cubo di un combustibile, ma sapere anche come è utilizzato (classe della caldaia, caldaia a condensazione, recupero calore), il suo potere energetico o calorico (quanti kWh ottengo con un litro, un Kg o un metro cubo) e come viene distribuito alle utenze. Quella che segue è una tabella indicativa che mostra che teoricamente la legna rimane ancora il combustibile meno costoso, seguito dal pellet e dal gas metano.

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Se il biogas agricolo diventa business

di Giovanni Carrosio – da www.ecologiapolitica.org

Negli ultimi anni, in Italia sono nati quasi mille impianti per la produzione di energia da biogas agricolo. Per la precisione, 953 impianti, la maggior parte dei quali (90%) concentrati nel Nord Italia, nelle aree caratterizzate da una importante densità di grandi allevamenti zootecnici e nelle aree ad alta specializzazione nella produzione di mais. Produrre energia da biogas agricolo significa utilizzare il metano prodotto dalla fermentazione anaerobica di deiezioni animali e/o biomasse (mais, triticale, sorgo foto) per alimentare un cogeneratore che trasforma il biogas in energia elettrica e termica.  Grazie alla vendita dell’energia elettrica e ad un sistema di incentivi molto generoso, gli agricoltori che adottano questa tecnologia fanno grandi profitti.

Gli impianti a biogas hanno iniziato a diffondersi in modo consistente a partire dalle politiche di incentivazione, giustificate secondo una triplice retorica. La prima: produrre energia da biogas è necessario per ridurre le emissioni di anidride carbonica in atmosfera; secondo la vulgata dominante, il processo che porta alla produzione di energia è neutro dal punto di vista delle emissioni climalteranti; le biomasse rilasciano in atmosfera l’anidride carbonica assorbita durante il ciclo di vita, con un bilancio perciò uguale a zero. La seconda: produrre energia da biogas è necessario per sostituire le fonti fossili con fonti rinnovabili prodotte sui nostri territori, riducendo la dipendenza del nostro paese dall’estero. La terza: produrre energia da biogas vuol dire incrementare la multifunzionalità delle aziende agricole, consentendo loro di fare profitti ed investire nell’ammodernamento ecologico dei sistemi produttivi.

Questa triplice argomentazione, che ha giustificato la strutturazione di un sistema di incentivi molto generoso, è stata smentita dai fatti. La tecnologia del biogas agricolo, per come si è  affermata in Italia, è stata utilizzata soprattutto come dispositivo di ulteriore modernizzazione e artificializzazione dei processi produttivi delle aziende agricole, vanificando e contraddicendo gli obiettivi che i policy makers si erano dati – ammesso che gli obiettivi reali coincidessero con quelli dichiarati.

Le aziendebiogas1 agricole hanno sostanzialmente due modi di organizzare la produzione di energia da biogas: il modo contadino e il modo imprenditoriale. Le aziende che adottano il  modello contadino utilizzano la tecnologia del biogas come dispositivo per chiudere i cicli aziendali e conquistare margini di autonomia dal mercato nella riproduzione di fattori produttivi come energia e fertilizzanti. Si tratta di medio-piccole aziende zootecniche, nelle quali  il digestore che produce biogas è proporzionato rispetto alle dimensioni dell’azienda. Le deiezioni animali vengono sottoposte a digestione anaerobica e dal processo vengono prodotti energia e  fertilizzante. Il fertilizzante organico viene distribuito nei campi, sostituendo anche nella totalità i fertilizzanti chimici comprati dall’agroindustria, e l’energia viene in parte venduta alla rete nazionale (quella elettrica) e in parte utilizzata per il riscaldamento delle stalle e degli edifici aziendali (quella termica). In questo modo, l’azienda agricola riduce gli input esterni e diventa più autonomia nelle riproduzione di alcuni fattori produttivi.

Le aziende che adottano il modello imprenditoriale – e nel caso italiano sono la maggior parte – utilizzano invece il biogas come dispositivo per incrementare il giro d’affari e ampliare la scala aziendale. La taglia dei digestori adottata è solitamente più grande rispetto alle capacità produttive dell’azienda e alle deiezioni animali vengono aggiunte colture dedicate come mais e triticale. In questo modo le imprese agricole utilizzano suolo agricolo per alimentare i digestori. Si stima che nel Nord Italia siano circa 200 mila gli ettari occupati a colture destinate alla produzione di energia da biogas. Per queste aziende il biogas non è funzionale alla chiusura dei cicli aziendali e tanto meno alla riconquista di margini di autonomia rispetto ai mercati. Infatti, esse acquistano  sul mercato i mangimi che prima dell’adozione della tecnologia del biogas coltivavano su terreno aziendale.

Oggi i terreni sono utilizzati a scopo agroenergetico e la produzione di energia diventa il principale business aziendale.  In molti casi, questo comporta un ampliamento di scala delle imprese agricole: esse tendono a incrementare il numero di animali allevati – intensificando così il rapporto tra terreni e numero di capi – per avere più materiale organico da utilizzare nei digestori e produrre in questo modo più energia. Energia che viene venduta per riscuotere gli incentivi (quella elettrica), ma che in gran parte viene dispersa in atmosfera sotto forma di calore, perché eccedente rispetto ai bisogni aziendali (quella termica). E’ una vera e propria speculazione sugli incentivi, che porta le aziende ad ingrandirsi anche grazie all’ingresso di capitali industriali che sostengono gli investimenti.

In questo modo, quella che secondo la retorica corrente  doveva essere una politica per l’ambiente e per lo sviluppo rurale, nella pratica ha generato un aggravamento dei problemi ambientali legati agli allevamenti intensivi, una competizione per l’utilizzo della terra, una ulteriore “modernizzazione”, specializzazione e industrializzazione dell’agricoltura.

Il modo di produzione contadino, però, ci dice che una alternativa è possibile. Che le nuove tecnologie per la produzione di energia da fonti rinnovabili possono essere utilizzate in modo eco-compatibile, se la logica non è quella del profitto, ma quella della riproducibilità delle risorse naturali. E soprattutto, dimostra che non esistono energie rinnovabili buone in sé,  e che i modelli sociali e produttivi con i quali esse sono  adottane sono determinanti per conciliare produzione e ambiente. Perché ciò sia possibile, però, servono politiche nuove, che non facilitino la speculazione, ma premino l’agricoltura eco-compatibile.

 

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Le rinnovabili non sono cosa da Ragazzi

di Mario Agostinelli e Giovanni Carrosio

Dall’inizio del 2013 è stato sferrato un attacco pesantissimo alle rinnovabili da parte delle più grandi testate giornalistiche nazionali, ispirate ai comunicati delle lobby energetiche. Queste continuano a guardare di traverso e con insofferenza all’influenza ormai rilevantissima del solare, dell’eolico e del mini-idroelettrico, sulla struttura di produzione e di distribuzione elettrica nazionale. Evidentemente Enel, Eni e Assoelettrica hanno fatto male i loro conti quando hanno investito sull’esclusiva predominanza dei fossili. I loro manager poi, così abituati ad avere ai loro piedi l’establishment politico che li designa,  hanno chiesto ai politici e ai media di coprire loro le spalle influenzando l’opinione pubblica.

Così Il Corriere della Sera si è distinto per dare spazio ad interventi critici oltre misura nei confronti degli incentivi e delle politiche di innovazione in campo energeticoAlesina e Giavazzi  (due economisti non certo esenti da furore ideologico) si sono sbizzarriti, infilando ovunque l’argomento delle rinnovabili come cattivo esempio di politica neo-statalista. Addirittura, nella Giornata mondiale per l’Ambiente, un articolo a firma di Danilo Taino, dal taglio apertamente negazionista sulla crisi ambientale, ha sostenuto il fallimento del fotovoltaico in Italia, sia come politica industriale che come strumento per combattere il cambiamento climatico. Anziché fornire dati a sostegno di questa indifendibile tesi, ha argomentato con il peso degli incentivi nelle bollette e con le infiltrazioni mafiose nella costruzione dei grandi impianti fotovoltaici. Dal portale Lavoce.info e dal suo blog su Il Fatto Quotidiano online, poi, l’instancabile prof. Ragazzi ha rinvigorito la sua battaglia contro gli incentivi, spalleggiando il ministro Zanonato sulla necessità di tagliare i sussidi dalle bollette.

Forte di questa campagna mediatica, il ministro Zanonato, dopo un colossale infortunio sulla necessità di tornare al nucleare, si è gettato a testa bassa contro il caro bollette. Cosa ragionevole, se si ragionasse a 360 gradi, non imputando alle rinnovabili tutte le colpe dell’incremento dei prezzi dell’energia in Italia. L’obiettivo del ministro, a quanto emerso dalle sue dichiarazioni, è di tagliare di 3 miliardi il costo delle bollette spalmando su più anni i pagamenti in favore di chi ha diritto agli incentivi, o facendo pagare  gli oneri di sistema per ridurre il peso della componente A3 in bolletta.

Il prof. Ragazzi e l’onere della prova: chi l’ha detto che le rinnovabili fanno crescere il costo delle bollette?

È vero che il costo elettrico cresce ”perché abbiamo molti incentivi sulle rinnovabili”? Certamente c’è un effetto, ma ci sono molti vantaggi.  Ad esempio, lo studio di Althesys stima un “peak shaving” netto di 838 milioni di euro, grazie al fatto che con l’avvento delle rinnovabili il picco di prezzo non coincide più con la massima domanda di energia elettrica. Soprattutto, Ragazzi mette nell’oblio il problema della dipendenza del nostro paese dalle fonti fossili e la crescita continua dei loro prezzi. Negli ultimi dieci anni la bolletta media degli italiani è cresciuta nella voce “energia e approvvigionamento”, passando da 106 a 293 euro (+177% per famiglia). Per non parlare poi dei sussidi alle fonti fossili, gli oneri impropri, gli sconti ai grandi consumatori di energia elettrica, che ammontano a circa 6 milardi di euro (che il nostro mette in un unico mucchio con gli incentivi per Pv).

Il decreto Fare2: difendere la proprietà, incentivare il carbone e destrutturare il sistema delle rinnovabili

Che dire allora degli incentivi per il “carbone pulito”, dell’idea di caricare sugli autoproduttori i costi per aggiornare la rete, proprio mentre le “larghe intese” patteggiano il taglio dell’Imu? Non si può sorvolare sul fatto che, proprio per finanziare la cancellazione dell’Imu, è stato deciso un prelievo(300 milioni di eurodai fondi destinati a efficienza e rinnovabili. È come se questi 300 milioni fossero presi dagli oneri di sistema che tutti paghiamo nelle bollette e, quindi, come se fossimo costretti ad aumentare il peso del prelievo con la voce A3. Ma non basta. Nel decreto del Fare2 (articolo 3) si prevedono finanziamenti fino a 63 milioni di euro l’anno per venti anni per realizzare una centrale elettrica a carbone con cattura di CO2 nell’area del Sulcis, con un incentivo ventennale di 30 euro a megawattora prodotto (più degli scandalosi 28 euro/MWh per il biogas!). E chi pagherà? Il sistema elettrico nazionale, ancora con un prelievo in tariffa. Ovvero altri soldi a carico delle famiglie .

Se questa è la logica adottata, chi l’ha detto che il sostegno alle rinnovabili debba essere pagato dagli utenti e non piuttosto da chi inquina e ha finora scaricato sulla società tutte le esternalità che non hanno mai pagato?

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Tariffe, incentivi, bollette: facciamo i conti

da Il Fatto Quotidiano – 4 luglio 2013

di Mario Agostinelli

Dal 6 luglio non è più previsto alcun incentivo per i nuovi impianti fotovoltaici. Questo non significa la fine della storia delle celle solari in Italia, anche se qualcuno vorrebbe decretarne la marginalità.

Certo, la campagna contro le rinnovabili incrementerà la sua recrudescenza e, con il sostegno di Assoelettrica,  si cercherà di alzare  l’asticella della “parity grid” e di ostacolare i necessari processi di decarbonizzazione. Sono parecchi gli indizi di una svolta involutiva e di un ritorno al passato. La miopia della Strategia Energetica Nazionale, varata alla chetichella e sotto la sponsorizzazione delle lobby dei fossili, si è trasformata in orientamento anche del connivente governo delle “larghe intese”. L’asservimento della stampa e dei media alla campagna contro gli incentivi alle rinnovabili ha portato il dibattito pubblico a considerare i 6,7 miliardi di euro l’anno per il fotovoltaico come sinonimo di “spreco” o di “bolla speculativa che ha favorito gli stranieri”, con un accanimento che va dal Corriere  ai giornali di provincia. Da ultimo, l’Authority per l’Energia, anziché dare un contributo positivo all’attuazione dei traguardi fissati per L’Europa dal pacchetto 20-20-20 e ai profondi mutamenti legati all’intensa penetrazione delle rinnovabili e allo sviluppo di nuove tecnologie, tratta la generazione distribuita come fuga dal mercato e addita nel sostegno alle fonti naturali la responsabilità delle alte tariffe che gravano su cittadini e imprese. Forse trascura che almeno 25 terawattora di produzione fossile presso gli insediamenti storici della manifattura italiana sono da sempre esentati dalla copertura dei costi del sistema elettrico e ricadono in bolletta.

A questo proposito Legambiente ha elaborato un dossier che individua oltre 5 miliardi di Eurodove si potrebbe intervenire subito, tra sussidi alle fonti fossili, oneri impropri, sconti in bolletta ai grandi consumatori di energia elettrica. Secondo poi l’Irex Annual Report 2013 il bilancio costi-benefici della crescita delle rinnovabili, considerando dunque la spesa per gli incentivi e i vantaggi (riduzione prezzo elettricità, rischio petrolio, emissioni di CO2, effetti sull’occupazione e sul Pil), è ampiamente positivo con benefici netti compresi tra 19 e 49 miliardi. Stessa cosa non si può dire per i 52 miliardi di euro che complessivamente abbiamo regalato e stiamo continuando a regalare a inceneritori e centrali inquinanti e da fonti fossili, attraverso il meccanismo del CIP 6 pagato con le bollette.

In definitiva, secondo i calcoli più precisi, su un totale di una bolletta tipo per una famiglia (511 €/anno), cresciuta di ben il 53% in dieci anni, gli incentivi per le rinnovabili sarebbero pari al 16%: poco meno di 7 € a famiglia ogni mese, mentre la differenza di prezzo con l’Europa è dovuta soprattutto al prezzo del gas e alla valutazione del petrolio.

Il colmo arriva ora con un documento dell’Authority (DCO 183/2013/R/EEL) rispetto alla generazione distribuita. In base ad esso i costi di mantenimento e sviluppo della rete e del sistema elettrico (inclusa l’incentivazione delle rinnovabili) non devono più essere ripartiti in base all’utilizzo del sistema (misurato dai prelievi di elettricità dalla rete), ma dei consumi: se copro quindi parte del mio fabbisogno con un impianto fotovoltaico sul tetto, questa diventerebbe base imponibile incrementale rispetto a quella intercettata dal contatore! In sostanza, l’energia che viene prodotta, consumata e/o venduta senza passare dalla rete, dovrebbe pagare gli oneri di utilizzo della rete stessa. Insomma, si incolpano le rinnovabili di delitti altrui, senza considerare i benefici diretti (riduzione del prezzo dell’elettricità nelle ore di punta quando c’è tanto sole e riduzione delle importazioni di fonti fossili) e quelli indiretti (legati alla riduzione dell’inquinamento e delle emissioni di gas climalteranti).

Ci sarebbe invece bisogno di un provvedimento per la vendita diretta di energia tra privati e la messa a punto di norme per promuovere i sistemi di accumulo, come sta avvenendo in altri paesi europei, affinchè non si perda quest’opportunità industriale e occupazionale, riguardo a una tecnologia nella quale l’Italia è all’avanguardia. Occorre dare una scossa ad interessi e governi pigri e incapaci di guardare lontano. Dal mondo scientifico, del lavoro e ambientalista è partito un appelloper una inversione di tendenza. La sua diffusione e un sostegno convinto ad esso sono un contributo per non ricadere nella trappola di chi ci vuol far camminare con la testa rivolta dietro le spalle.

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