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Per il futuro: rinnovabili a buon mercato o petrolio drogato?

di Mario Agostinelli

Siamo costantemente messi di fronte all’esaurimento delle fonti fossili e al drammatico deterioramento del clima e dell’ambiente. Ma l’una e l’altro sono sovrastati da un chiassoso dibattito sul “benefico” crollo del prezzo del petrolio (ma i mercati scommettono che quel prezzo tornerà a 90 $ al barile entro un paio di anni…) e sull’acclamata opportunità di una estrazione di gas e olio con percorsi che si rivelano pazzeschi (permafrost, Artico, sabbie bituminose, fracking di scisti), sia dal lato del bilancio energetico sia da quello del danno ambientale. Una leadership mondiale che non sa come uscire dalla crisi da lei stessa prodotta e che fissa “road map” di rientro dal debito finanziario ad ogni incontro dei big (quanti sono e quanta CO2 per questi inutili e incessanti meeting?), mette in conto perfino la guerra perché non vuole uscire dal vincolo di un sistema energetico centralizzato e non si preoccupa del debito contratto verso la natura. Banalmente spera che tutto si appiani con uno sconto provvisorio sul barile.

La vita moderna si basa sull’uso onnipresente di combustibili fossili, tutti con rilevanti svantaggi non solo per gli effetti climatici. Il carbone, il più economico e più abbondante, è stata ed è la fonte più sporca, che contribuisce massicciamente all’inquinamento, non solo termico. Le forniture di petrolio sono vulnerabili agli shock geopolitici e a collusioni sui prezzi da parte dei produttori. Il gas naturale ha bisogno di lunghissime e vulnerabili pipeline, che limitano l’autonomia energetica e marcano le dipendenze da giacimenti fuori controllo, come nel caso dell’Europa dalla Russia. L’energia nucleare è afflitta da esposizioni finanziarie e da complicazioni politiche, intensificate dagli allarmi dell’opinione pubblica dopo gli incidenti di Chernobyl e Fukushima. Al contrario, le fonti rinnovabili come l’eolico e il solare comportano un basso impatto, ma sono ostacolate e mantenute in un ruolo marginale, nonostante un consenso crescente e saldo nei loro confronti.

In questo scenario, l’impressione che l’enfatizzazione del calo temporaneo del prezzo del petrolio faccia parte della volontà di dilazionare i tempi del cambiamento, non è solo giustificata, ma va analizzata in tutte le sue implicazioni, in particolare per quanto riguarda il modello sociale e economico che si vorrebbe procrastinare. Non si deve sottovalutare quanto il rilancio oggi del petrolio, a pochi mesi da un decisivo vertice sul clima, sia un elemento diabolicamente razionale e sapientemente ricattatorio, che le corporation e i grandi produttori dell’energia hanno messo in campo in una crisi economica per cui il liberismo non ammette alternative.

Nel 2013 nel mondo ben 550 miliardi dollari sono stati spesi per sovvenzionare i combustibili fossili, favorendo le multinazionali, distorcendo le economie e aggravando l’inquinamento. Per le rinnovabili gli investimenti (non i sussidi!) hanno registrato una media di 260 miliardi di dollari all’anno nel corso degli ultimi cinque anni. La IEA, l’organizzazione intergovernativa per l’energia, certamente di ispirazioni conservatrici, dice che il mondo dovrà sborsare circa 23.000 miliardi dollari nei prossimi 20 anni per finanziare l’estrazione di gas, petrolio e carbone, sempre meno accessibili. E, inoltre, stima che gli investimenti necessari oggi per la “decarbonizzazione” della sola produzione di energia elettrica si aggirano sui 44.000 miliardi dollari.

Proviamo allora a chiederci non tanto quello che il calo dei prezzi del petrolio significhi per l’energia pulita, ma quello che significherà la prospettiva di energia pulita e di efficienza energetica per il prezzo del petrolio.

Proviamo allora ad allargare lo sguardo. E’ addirittura l’edizione online di metà Febbraio di Bloomberg Energy ad affermare che vale la pena di investire nelle rinnovabili, data la conferma di un andamento costantemente positivo del settore.  Cioè, uno dei guru più prestigiosi del sistema finanziario e bancario mondiale sostiene la possibilità di ricorrere ad energia pulita per sopravvivere oltre la temporanea caduta del prezzo del petrolio. Da metà ottobre, mentre il greggio è sceso di quasi 30 dollari al barile, non ci sono stati cambiamenti nelle quotazioni dell’energia da fonti naturali, come misurato dal NEX (New Energy Global Innovation Index). E questo perché godono ormai di fatto di un sostegno politico e sociale generale, anche se contrastato nei media e disdegnato da Governi alla giornata come il nostro.

Una presa d’atto, quella del mondo degli affari più avvertito, che prevede stabilità oltre la tempesta. In pratica, la valutazione dei rischi da parte delle agenzie di credito all’esportazione risulta più vantaggiosa per investimenti nelle rinnovabili che non per opere di estrazione e trasporto dei fossili. Di conseguenza, si sono aperti mercati all’estero per le imprese “green” tedesche, danesi, coreane e statunitensi, sostenute dalle azioni dei loro governi.

Di fatto, i costi nell’eolico offshore sono sempre più ridotti, dopo che è stata raggiunta competitività nei due settori principali (vento onshore e PV). E la parity grid è stata ormai raggiunta anche senza particolari incentivi. Secondo il National Renewable Energy Laboratory (NREL), il costo di pannelli solari su una tipica casa americana è sceso di circa il 70 per cento negli ultimi dieci anni e mezzo. In Europa la convenienza è ormai accertata e migliorerà con investimenti in reti intelligenti e accumuli appropriati. I dati di produzione, poi, sono illuminanti: nel 2014 l’energia “pulita” nel mondo è volata ancora in alto, superando le aspettative (v. Ansa del 9 Gen 2015), con una crescita del 16% – pari a 310 miliardi di $ in investimenti – con un balzo record in Cina (+32%) e con crescite assai maggiori rispetto ai settori tradizionali anche in USA (+8%), Giappone (+12%), Canada (+26%), India (+14%), mentre da noi gli investimenti sono calati del 60% rispetto al 2013.

Il mondo cambia più rapidamente di quanto gli esperti sappiano immaginare e non è sufficiente studiare il passato per prevedere il futuro. La fame di energia dell’Asia e del Sud del mondo non è infinita e il loro sviluppo non sarà la fotocopia del nostro, perché rinnovabili ed efficienza sono ad uno step evolutivo ben diverso rispetto a quelli dei tempi della nostra crescita.

Alla luce di un esame attento, petrolio e gas di scisto non hanno inaugurato una nuova stagione dell’abbondanza: hanno solo reso accessibili risorse già conosciute e recuperabili grazie al prezzo elevato tenuto dal greggio fino a qualche tempo fa e solo a tale prezzo avranno ancora chance. E qui aggiungo: se glielo permetteranno lo sviluppo prevedibile delle fonti naturali diffuse e il risparmio praticabile negli edifici. I prodotti “shale” sono oggetto di aumentate preoccupazioni e perdita di consenso, con probabili effetti sul loro prezzo in futuro, come è già avvenuto per il nucleare.

A riprova, le preoccupazioni in USA e Canada per i rischi per l’acqua e il suolo, dato che il boom di estrazione da scisto richiede cambiamenti dirompenti nella gestione delle falde e dei terreni, ha indotto le comunità locali a chiedere garanzie con investimenti onerosi nella depurazione e nelle compensazioni ambientali, nonché nella sicurezza dei sistemi di tubazione e in quelli ferroviari di trasporto. Per di più, le nuove riserve energetiche si trovano in aree che non sono ben collegate ai porti o alle raffinerie già sviluppate nel secolo precedente e le imprese del settore energetico sono impegnate a costruire infrastrutture per abbinare la mutata geografia alla nuova offerta.

Un esempio delle riserve nell’opinione pubblica sulla tecnologie di estrazione non convenzionali viene anche dalla Germania, che, ha in queste settimane presentato un progetto di legge che ha cambiato le carte in tavola, anticipando al 2019 il permesso per estrarre gas da scisto. Quando il Ministro dell’Ambiente Barbara Hendricks ha detto che saranno applicate “le regole più severe che siano mai esistite nel settore del fracking”, ha freudianamente aggiunto che le perforazioni “saranno consentite solo con il massimo rispetto per l’ambiente e l’acqua potabile”.

Con un sapore da umorismo noir, la ministra prevede che il fracking sia vietato in tutte le aree di approvvigionamento idrico pubblico e consentito solo con criteri chiari per la gestione dell’acqua del serbatoio in cui finiscono i fluidi dell’operazione, suscitando un po’ di sconsolata ilarità e l’allarme dell’Associazione di Municipal Utilities (VKU), che fornisce circa l’80% di acqua potabile ai tedeschi.  Vincoli e normative rigide e sempre da migliorare per le popolazioni: costi in ascesa, quindi, o non se ne fa niente.

Intanto la Cina, il maggior consumatore in prospettiva, prevede l’autosufficienza energetica e la riduzione radicale delle emissioni di carbonio. Il presidente Xi Jinping annuncia sul South China Morning Post del 7 Febbraio di puntare ad abbassare il picco delle emissioni di anidride carbonica prima del 2030, con un ricorso al nucleare, ma, soprattutto, con una crescita impressionante delle rinnovabili. E aggiunge, significativamente, che “il cambiamento in atto nel mix energetico del Paese si basa su una minore dipendenza da carbone, lignite e petrolio e sull’aumento del consumo di energia pulita, cui seguirà il riequilibrio economico della nazione con un marcato rallentamento della crescita delle industrie manifatturiere ad alta intensità energetica e una rapida espansione del benessere e delle attività dei servizi”.

Per raggiungere gli obiettivi programmati, il “continente” ha bisogno di creare ex novo entro il 2030 da 800 a 1.000 GW di capacità di produzione di energia elettrica con zero emissioni. Il dettaglio presentato mette all’ultimo posto il ricorso al nucleare: 275 GW di capacità eolica, 385 GW di capacità solare e 120 GW di capacità idroelettrica, contro 85 GW di capacità nucleare. Suscettibili oltretutto di contenimento, per le riserve che si manifestano dopo l’incidente di Fukushima. L’esplosione degli impianti rinnovabili sulla scala macro del territorio cinese comporterà una drastica caduta del prezzo del kwh prodotto da pale, pannelli, digestori etc., con tecnologie di facile esportazione e adattamento anche nei paesi poveri.

Si ridurrà di conseguenza l’offerta eccedente di petrolio e gas da cui dipende in parte l’attuale caduta dei prezzi, pronti a risalire per l’impiego nei settori della mobilità, dei derivati post cracking e in quelli che richiedono la più alta densità energetica.

Se queste sono le condizioni nel medio periodo, meglio non adagiarsi sul prezzo attuale del greggio, ma prendere il tempo per le corna e accelerare il cambio di paradigma energetico che le energie naturali e rinnovabili – incardinate in stili di vita sostenibili – possono già innescare. Deve farsi strada la consapevolezza, fra chi governa e i cittadini, che essere sullo stesso pianeta e alimentarsi delle stesse risorse impone una politica globale di collaborazione, quando si ha come obiettivo la sicurezza, la guerra alla povertà, la difesa del clima e una vita e un lavoro decente per tutti. E questa è, forse, la chance vincente per decidere di superare rapidamente il sistema fossile e nucleare.

Di tutto questo non si è accorta l’organizzazione di EXPO 2015, che ha ridotto l’occasione di un appuntamento mondiale nel nostro Paese al solo capitolo alimentazione, privilegiando implicazioni prevalentemente commerciali rispetto alla sfida che quel binomio “energia-vita” –  originalmente presente all’avvio, ma praticamente cancellato dalla manifestazione che si aprirà – avrebbe comportato per un ripensamento  della sostenibilità a partire dalla Lombardia e dalla città di Milano.

 

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Il principio di realtà che vanifica il Piano Passera

Se diamo uno sguardo al rapporto mensile sul sistema elettrico di Terna di settembre, scopriamo una serie di dati interessanti, che nei fatti vanificano e mettono al di fuori dei processi reali il Piano Passera.

Che cosa è successo nei primi 9 mesi del 2012?

– hanno continuato a calare i consumi di energia (-2,3% rispetto al 2011);

– è calata la produzione di energia (-1,6%), ma eolico e fotovoltaico sono cresciute rispettivamente del 37,2% e del 91,3%, mentre il termoelettrico ha perso ancora quote di produzione (-4,3%).

 

Il quadro che emerge, perciò, conferma il trend dei rilevamenti dei mesi scorsi (si veda per i dettagli il Quaderno di Energia Felice 1). Ad un calo dei consumi corrisponde un incremento della produzione da rinnovabili e una progressiva marginalizzazione del termoelettrico.

Le politiche energetiche ed industriali dovrebbero accompagnare questo processo, che appare ormai irreversibile. il Governo, però, sembra rispondere non agli interessi delle ormai migliaia di famiglie e piccole imprese che producono energia decentrata da fonti rinnovabili, ma dei pochi grandi produttori inquinatori.

 

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Ilva, Alcoa, Sulcis e l’energia fossile di Passera

di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano online – 2 ottobre 2012

 

Ilva, Alcoa e Sulcis rimbalzano cupe nelle manifestazioni di piazza, mostrando a dito l’impotenza dei banchieri, dei professori al governo, dei maghi dello spread quando si tratta di affrontare la crisi dal lato delle persone in carne ed ossa. Dietro questi tre simboli del declino di un modello di sviluppo, c’è innanzitutto il dramma del lavoro e della salute. Un nodo intricato che si scioglierebbe, secondo dichiarazioni stampa di ministri e imprenditori, con la riduzione dei costi dell’energia e con una maggiore offerta di fonti fossili a buon mercato. Prendo in considerazione quest’ultimo aspetto, significativo dell’informazione distorta e dell’insensatezza della politica industriale ed energetica dell’attuale governo.

A fine agosto ha visto la luce una bozza della “nuova” strategia energetica nazionale. Un irritante ritorno al passato (gas, petrolio e “carbone pulito”) già anticipato dalle rivelazioni di Wikileaks sulla presenza delle maggiori banche nazionali, di Enel ed ENI ai banchetti russi e turchi. Lì infatti, si stava tracciando il potenziamento delle reti di fonti fossili da Oriente a Occidente. Si tratta di un piano vetusto, mascherato dalla retorica della diminuzione del costo del Kwh, della minore dipendenza dall’estero, dell’incremento dell’occupazione. Niente di più improbabile.

L’idea di fondo è quella di cercare petrolio in casa e di costruire rigassificatori e nuovi metanodotti, al fine – si scrive – di abbassare i prezzi. Ma perforare i nostri fondali corrisponde ad avere un numero irrilevante di barili ad alto costo, mentre fare dell’Italia un “hub del gas” non rappresenta affatto una formula in grado di abbassare il costo del gas che consumiamo. È un’illusione pensare che attraverso i rigassificatori ci si rivolga solo al mercato spot (quello alimentato in borsa dal trasporto su nave) senza avere alle spalle contratti di fornitura a lungo termine (quelli siglati con i Paesi grandi produttori che spediscono “via tubo”).

La proposta quindi non abbasserà il prezzo del gas. In compenso, darà il via a grandi opere e all’introduzione delle cosiddette “essential facilities”, infrastrutture da costruire con “garanzia di ricavi” e “iter autorizzativi accelerati”. Il che significa che i nuovi impianti saranno costruiti grazie a incentivi che graveranno sulle bollette di tutti.

Esattamente quanto è già successo per “invitare” Alcoa in Sardegna. Alcoa è una multinazionale statunitense, leader mondiale nella produzione di alluminio, che sbarca in Italia acquisendo nel 1966 dallo Stato la società ALUMIX (gruppo EFIM). Fino al 2009 la società acquistava energia elettrica a prezzi scontati e per evitare le sanzioni Ue il Governo italiano aveva emanato un decreto legge contenente nuove norme che permettessero all’Alcoa di continuare a rifornirsi di energia elettrica a prezzi scontati. Scontati di quanto? Beh a 30 euro al MWh rispetto ai circa 70 di mercato. Tanto per avere un riferimento, noi consumatori finali in bolletta paghiamo 90 euro al MWh. La differenza fra i 30 euro e il prezzo di mercato viene “ovviamente” coperta da tutte le bollette.

Ora si cerca un nuovo acquirente che garantisca i 702 posti di lavoro. Prima della rottura della trattativa, solo qualche giorno fa, la più gettonata era la svizzera Glencore, multinazionale specializzata in materie prime, dotata di magazzini e di flotte navali. Glencore è il numero uno nel trading di carbone. Esperta in fonti fossili, per fare l’accordo chiede la stessa cosa per cui Alcoa se n’è andata: energia elettrica a basso prezzo, che il governo si è affrettato ad assicurare. Ecco una politica energetica avventurosa, basata sul rilancio dei fossili dal costo imprevedibile.

Anche lo stabilimento Ilva di Taranto, come Alcoa, subisce un passaggio dallo Stato ad una multinazionale privata. Ed anche per esso si parte con uno sconto energetico. Lo stabilimento per tubi saldati di grande diametro, nasce come oggetto di un accordo riservato tra Urss, Eni e Finsider: greggio a basso prezzo dall’Unione sovietica in cambio di tubi saldati. Esaurito col tempo l’accordo sull’energia, si è fatto avanti un tacito accordo sulle emissioni, che Riva, il proprietario attuale, ha rigorosamente reclamato, producendo inquinanti e tralasciando il costo dell’effettivo e necessario risanamento. Lavoro, in questo caso, al prezzo della salute.

Infine il Sulcis. Il passaggio di proprietà in questo caso è anomalo: dall’Eni alla Regione sarda. Con un unico cliente (obbligato), l’Enel, che utilizza la miniera prevalentemente come discarica, mentre estrae un carbone di scarsa qualità. Non per beneficenza, ma per supportare un mix di combustibile solido che tenga aperte le porte alla chimera del “carbone pulito”, producendo nel frattempo quasi alla chetichella grandi quantità di inquinanti.  In questo quadro risulta davvero sbagliata la proposta di investire per creare nella miniera un impianto di cattura e sequestro della CO2. Ha senso investire un miliardo e mezzo di euro per continuare a bruciare carbone? È un futuro a carbone, col trucco del sequestro dei gas serra, che immaginiamo?

Si capisce allora perché scompaiano i sostegni alle rinnovabili, l’unico settore per cui nel progetto di Monti-Passera lo sviluppo è previsto compatibilmente con la sostenibilità economica. In realtà, questo Governo non considera queste fonti una scelta strategica per il settore elettrico e termico. A riprova di ciò il fatto che per i trasporti punti sui biocarburanti di seconda generazione, verso i quali si sposterebbero gli incentivi tolti al fotovoltaico.

E sulla governance l’ultima chicca: la nuova strategia energetica nazionale individua nell’accentramento il sistema migliore per depotenziare la diffusione delle rinnovabili e salvaguardare il tradizionale oligopolio legato alle fonti convenzionali. Meno democrazia e basta con la programmazione territoriale, il ricorso alle fonti naturali, la riduzione degli sprechi, visto che la questione climatica non toccherà gli over 60 che comandano. Loro si stanno svenando per governare i picchi di un tenace quanto irriducibile spread, non per una politica industriale ed energetica che porti salute e buona occupazione.

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Solare Usa e Ue: la Cina è vicina

di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano online – 18 settembre 2012

In questi mesi è stata più volte sottolineata la “rivoluzione” in atto sul mercato dell’energia elettrica. In sintesi, i 13 GW (milioni di kW) di pannelli fotovoltaici installati in Italia producono dalle 9 del mattino alle 18 serali un flusso di energia elettrica sufficiente a modificare la determinazione del prezzo del kWh in borsa, cosicché oggi l’energia elettrica all’ingrosso tocca il suo massimo costo non alle ore 12, come da tradizione, ma alle 22 di sera, realizzandosi così un disaccoppiamento fra prezzi e consumi: il costo non è più massimo quando massima è la domanda. Ad esempio il prezzo delle ore 12 (ora di maggior richiesta quando di questi tempi il picco della domanda sale a 43 GW) contrattato per l’8 giugno 2012 è stato pari a 86,49 euro al MWh, mentre alle ore 22 era a 100,15 (quando la potenza richiesta in rete è intorno ai 38 GW) e 96,85 alle 24 (32 GW di richiesta – dati da Gestore Mercati Energetici).

Tutto questo contribuisce a dimostrare che c’è una nuova speranza per il cambiamento climatico: il 20% dell’energia elettrica mondiale è già prodotto da energie rinnovabili. La Cina ha investito miliardi in energia solare, il che rende questa fonte ormai a buon mercato come i combustibili fossili. Sembrerebbe insensato dal punto di vista della cooperazione ambientale, eppure la Ue e gli Usa sono intenzionati a imporre tariffe per le importazioni di pannelli solari cinesi, finendo con ostacolare questa rivoluzione energetica pulita. Lo denuncia Avaaz, che avanzerà una richiesta formale al Commissario per il commercio della Ue e la International Trade Commission degli Stati Uniti per aprire un dialogo e non ricorrere a dazi odiosi.

Pur avendo la Cina un triste primato in materia di diritti umani e ambientali, sta aprendo con le sue politiche industriali un raggio di speranza. Negli ultimi dieci anni, ha investito miliardi in energia solare e ha avviato strategie ambiziose per sovvenzionare la produzione, il che significava il crollo dei prezzi dei pannelli. Stati Uniti e Ue stanno tornando a concedere sovvenzioni pubbliche alle lobbies del petrolio e del carbone, e ora sono in procinto di aumentare il costo dell’energia solare, imponendo tariffe alla Cina. La partita è aperta: l’Occidente punta ad abbassare sul mercato il prezzo di petrolio e gas ottenuti da nuovi giacimenti di scisti bituminosi ad altissimo costo ambientale. Un prezzo fittizio reso praticabile dalla speculazione sul mercato finanziario e gravoso di debiti ambientali verso le future generazioni.

Alcuni sostengono che il basso costo dei pannelli solari cinesi mette in pericolo i posti di lavoro dei lavoratori locali, ma la maggior parte del lavoro che il settore dell’energia solare procura riguarda l’installazione e l’adattamento dei pannelli, la manutenzione e l’integrazione nelle reti intelligenti, oltre che la loro fabbricazione.

Tornare indietro, per fortuna, non è più possibile. Le fonti rinnovabili hanno mostrato una curva di apprendimento straordinaria e in alcune regioni sono già pronte a far concorrenza a quelle fossili anche senza incentivi. La concorrenza cinese non significa estromissione delle nostre tecnologie e della crescita di competenze locali: più energia “verde” significa più imprese e quindi più lavoro. Nel primo trimestre 2012 sono sorte complessivamente 120.278 imprese ma ne sono morte 146.368, quindi un saldo negativo (-0,43%). Per le imprese energetiche invece il saldo è positivo per 511 unità (+7,6%). Ed è dal 2007 che di trimestre in trimestre ciò accade. Fra il primo trimestre 2012 e quello 2011, le imprese del comparto energetico sono cresciute del 37,1% mentre il totale delle imprese italiane è calato dello 0,3%.

Lavorare a un nuovo sistema energetico non significa quindi rifluire nel protezionismo, ma creare lavoro di qualità, innovare su base territoriale, armonizzare attività umana e natura, fare ricerca per valorizzare risorse naturali che possono integrarsi, ma non essere semplicemente surrogate dalla contabilità del commercio internazionale.

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La terza rivoluzione industriale secondo Jeremy Rifkin (video)

Crisi economica, riscaldamento globale, scarsità di combustibili fossili: la nostra civiltà si sta avvicinando alla fine di un ciclo. La stessa specie umana è minacciata. Jeremy Rifkin, economista americano e consulente della Commissione europea ha appena pubblicato il libro “La terza rivoluzione industriale”. Secondo l’economista solo con la diffusione di energia rinnovabile e con il potere laterale possiamo superare la crisi e garantire un futuro felice per i nostri figli.

Intervista pubblicata da Euronews l’11 luglio 2012.

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