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L’aria che tira sul pianeta

È disponibile nella sezione Shop una nuova pubblicazione di Mario Agostinelli, L’aria che tira sul pianeta.

Dalle avvertenze dell’autore:

“Il testo va letto come la compilazione riordinata di una serie di appunti che non hanno trovato una versione definitiva, perché ho ritenuto che fosse assai più urgente di una pubblicazione organizzata e ben meditata una riflessione di getto su quanto il tema dell’immigrazione richiami ben altre emergenze rispetto cui va riscritta l’agenda politica del nostro tempo. Chi migra e chi accoglie (a questi ultimi sono rivolti gli appunti) sa che le reali emergenze del nostro tempo sono lontane dal falso e volgare racconto dell’invasione, così caro a Salvini.

 La tesi che sostengo è che i cambiamenti climatici vengono prima e impongono di osare di più, con un approccio meno timido di quanto normalmente facciamo, nel pensare che tocca a noi già ora“abitare” il nostro futuro. Il negazionismo con cui veniamo fissati al presente, non è nient’altro che un trucco riuscito di distrazione di massa. La misura delle soluzioni da prendere in considerazione e per cui cominciare a lottare non andrà certo nella direzione voluta dalla globalizzazione univocaliberista.

Con la persecuzione in atto dei migranti, giustizia climatica e sociale continuano ad essere posticipate e tenute fuori gioco e a non procedere di pari passo.

 Gli appunti sono forse disorganici e un po’ripetitivi, ma non mancano di uno sforzo di spiegazione e di una analisi approfondita con – credo – una sua originalità. “



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Libertà di parola, la solitudine del mondo operaio

Sentenza sui licenziamenti a Pomigliano

Mario Agostinelli ex segretario Gen. CGIL Lombardia

La vicenda del rilicenziamento dei cinque operai di Pomigliano da parte di FCA è noto per l’esposizione, da parte di manifestanti fuori dal loro orario e luogo di lavoro, di un fantoccio di Marchionne, che in effige si impicca da sé, dicendosi pentito per i suicidi che erano seguiti alle angherie sui dipendenti da lui segregati in un reparto confino a Nola. All’immediato licenziamento degli operai aveva fatto seguito una sentenza di reintegro da parte del tribunale di Napoli, contro cui FCA ha fatto ricorso in Cassazione.

La sentenza di questo autorevole organo della Magistratura, che ha articolato senza pretese di equidistanza le motivazioni a sostegno dell’allontanamento dei cinque dal lavoro e dal salario maturato, va considerata come un segno amaro e preoccupante dei tempi. Un segnale che va contrastato nella sostanza, per i valori di cui si fa interprete contro l’autonomia del lavoro e a favore della supremazia dell’impresa. E questa asimmetria avanza giorno dopo giorno nella solitudine del mondo operaio e proprio anche quando i contendenti continuano a confliggere aspramente. Questo avviene nella disattenzione dell’opinione pubblica e, purtroppo, in assenza, dopo l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, di un arbitro che restituisca simmetria al diritto al lavoro rispetto agli interessi dell’impresa. Vengono oggi ridefiniti nella pratica – e anche purtroppo nella più recente giurisprudenza – vincoli non più in sintonia con l’art.1 o l’art. 21 della Costituzione, come nel caso del malinteso “obbligo di fedeltà” da parte della lavoratrice o del lavoratore cui ha fatto riferimento la sentenza della Cassazione.

Diciamolo con nettezza: un obbligo di fedeltà nel rapporto di lavoro che non sia quello della segretezza o del know-how dell’impresa, appare come un “valore apocrifo”, tale per cui l’adesione ad un contratto di lavoro consegnerebbe le convinzioni personali al giudizio dell’impresa. Nel caso in questione si è innalzato il potere dell’azienda al di sopra dello Statuto dei Lavoratori e in contrasto con l’art. 21 della Costituzione, che tutela la libertà di opinione in ogni sua manifestazione, attuando così la rinuncia di condizionare il mercato a tutela dei lavoratori come corpo sociale dotato di diritti inalienabili una volta conquistati.

Vero è che il caso del licenziamento in ultima istanza dei cassintegrati Fiat, colpevoli di aver espresso, anche in modo brusco, dolore e rabbia per il suicidio di tre compagni di lavoro, si presenta a noi tutti come un fatto di straordinaria importanza sul piano della libertà e di quella democrazia “che ha varcato – come ripeteva Vittorio Foa – i cancelli della fabbrica”. Non si tratta, quindi, di uno sgradevole episodio di relazioni industriali o di provvedimenti attinenti ai comportamenti di questa o quella organizzazione sindacale.

 Ormai trova corso anche in settori della magistratura la rimozione dell’intralcio che il cuneo dell’art.18 della legge 300 poneva tra l’impresa e il lavoro, affidando il ruolo di arbitro nei licenziamenti senza giusta causa al potere e al rispetto della Costituzione, assicurato non dall’impresa o dal sindacato, ma dalla garanzia statuale messa in atto dal Giudice. Nella sentenza della Cassazione, che cassa, su ricorso della FCA, le decisioni del tribunale di Napoli sul reintegro dei 5 manifestanti licenziati, rimane in ombra quella responsabilità sociale fatta valere dal “terzo potere” dello stato contro il sistema delle imprese e il dispotismo padronale in fabbrica.

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Un ricordo di Luigi Luca Cavalli Sforza

di Telmo Pievani

Un maestro lo vedi dalla libertà e dalla curiosità. Di lui ricordo un insegnamento cruciale: quando intravedi un tema di ricerca promettente in cui ancora nessuno si è cimentato – diceva – quella è la direzione in cui puntare senza remore. Io ci ho provato con la mia filosofia della biologia, e mi è andata bene. Lo devo anche a quel consiglio, benché Luca Cavalli Sforza fosse molto sospettoso sul ruolo e sull’utilità della filosofia. Lo rassicuravo dicendogli che nella mia di filosofia c’era ben poca metafisica, ma non bastava. Provavo a cavarmela dicendogli che nella sua opera di ricercatore c’era un sacco di ottima filosofia della scienza, da lavorarci per anni. Ed ecco che allora tornava per un attimo quel suo sorriso intriso di curiosità e di sempre nuove domande di ricerca.

Oggi tantissimi ricercatori in tutto il mondo lavorano all’ombra delle sue intuizioni. Nessuno meglio di Luigi Luca Cavalli Sforza, il grande genetista spentosi il 31 agosto all’età di 96 anni a Villa Buzzati di Belluno, ha incarnato la figura del pioniere, di colui che inaugura campi di studio prima inesplorati e li lascia in eredità a intere generazioni di continuatori. Forse anche perché era alto, elegante e carismatico, ora che non c’è più vien da pensare ai giganti della scienza e a noi nani che guardiamo lontano arrampicandoci sulle loro spalle.

Dopo gli studi di medicina a Torino con Giuseppe Levi e a Pavia negli anni delle leggi razziali e poi della guerra, Cavalli Sforza dal 1942 fu introdotto allo studio della genetica di drosofila da un maestro del calibro di Adriano Buzzati Traverso, fratello di Dino. Fu Buzzati Traverso, pare, a suggerirgli di aggiungere come secondo nome Luca, con cui tutti lo chiamavamo. Il legame di una vita con la famiglia Buzzati sarà sancito dal suo matrimonio con una nipote dei Buzzati, Alba Ramazzotti, che lo seguirà per tutta la sua carriera e gli darà quattro figli.
Fra il 1948 e il 1950 lavorò a Cambridge, sotto la guida di Ronald A. Fisher, insigne statistico e tra i fondatori della genetica delle popolazioni. Con il microbiologo Joshua Lederberg, poi Nobel nel 1958 a 33 anni, Cavalli Sforza studiò l’allora sconosciuto sesso dei batteri, cioè lo scambio orizzontale di pacchetti di informazione genetica tra un batterio e l’altro, dando contributi fondamentali. Dal 1951 ricoprì uno dei primi insegnamenti di Genetica e Microbiologia in Italia, a Parma, dove cominciò ad appassionarsi alla genetica umana. Qui intuì che i nostri geni recano con sé preziose tracce della storia umana profonda e degli antichi spostamenti di popolazioni.
Fiutò questa pista a modo suo, mescolando come nessuno aveva fatto prima dati provenienti da discipline diverse: analisi dei gruppi sanguigni, ricerca di marcatori genetici, registri parrocchiali, storia demografica, alberi genealogici e indagini sulle distribuzioni dei cognomi (anche dai buoni vecchi elenchi telefonici). Collaborò con l’Istituto Sieroterapico Milanese e dal 1962 fu professore di ruolo all’Università di Pavia. Divenne intanto antropologo anche sul campo, guidando spedizioni di ricerca sui cacciatori raccoglitori khoi-san del Kalahari e prima sui suoi amati popoli pigmei dell’Africa centrale, campioni di sostenibilità e saggezza ambientale. L’incontro con la diversità umana reale lo convinse sempre di più che attraverso la lente delle differenze genetiche umane fosse possibile ricostruire l’albero delle separazioni storiche tra i popoli della Terra e la diffusione dei geni tra le popolazioni tramite mescolanze e migrazioni.

Non sempre in armonia con le logiche accademiche italiane, nel 1971 Luigi Luca Cavalli Sforza lasciò l’Italia per la cattedra di Genetica delle popolazioni e delle migrazioni a Stanford, dove assunse la guida di un programma di ricerca mondiale che mirava a ricostruire per via genetica niente meno che l’albero genealogico dell’umanità. Le analisi sempre più raffinate sulla variabilità umana (sul DNA mitocondriale, sul cromosoma Y e poi sull’intero genoma) lo portarono a scoprire che la specie Homo sapiens ha avuto un’origine unica, africana e recente, confutando il vecchio modello che prevedeva centri multipli di origine graduale in differenti regioni. La sua idea, poi confermata e precisata, fu che una grande diaspora fuori dall’Africa aveva prodotto, circa 60mila anni fa, il meraviglioso ventaglio delle popolazioni umane attuali e passate, diversificando i loro geni, ma anche le culture e le lingue del mondo. Geni, popoli e lingue è uno dei suoi libri di maggior successo.
Se questo è il quadro dell’evoluzione umana recente, significa che siamo tutti figli di stratificazioni migratorie successive, dall’Africa all’Eurasia, e poi da questa all’Australia e alle Americhe. Tutti migranti, insomma, e tutti discendenti da un piccolo gruppo di pionieri africani. Le differenze genetiche tra due esseri umani presi a caso nel mondo sono comunque minime. Ne discende, e Cavalli Sforza lo capì subito, che la separazione dell’umanità in “razze” ben distinte non regge, perché la variabilità genetica umana si distribuisce in modo continuo a partire dall’Africa dove ce n’è di più.
Collaborando con archeologi, antropologi e linguisti, forte della sua preparazione matematica e statistica, cominciò a utilizzare le comparazioni genetiche per ricostruire anche migrazioni più recenti, come quella degli agricoltori mediorientali che arrivarono in Europa portando con sé fisicamente le loro innovazioni, e per definire la struttura genetica di regioni più limitate (Italia compresa, crogiuolo di diversità biologiche e culturali). Nel 1994, insieme a Paolo Menozzi e Alberto Piazza, diede alle stampe un atlante monumentale che ancora oggi è un riferimento: Storia e geografia dei geni umani. Qualche anno prima, con Marcus Feldman a Stanford aveva proposto la prima teoria quantitativa della trasmissione culturale, poi aggiornata nel libro L’evoluzione della cultura.
Cavalli Sforza nella seconda metà del Novecento ha contribuito in modo decisivo alla maturazione professionale e tecnologica della genetica mondiale. Fin dal 1991 fu il primo promotore e direttore dello Human Genome Diversity Project, cioè lo studio comparato delle variazioni del genoma all’interno della nostra specie. Si trattava in sintesi di esplorare non soltanto un singolo genoma “medio”, ma la diversità effettiva dei genomi umani dispersi nel mondo, con importanti implicazioni per il miglioramento delle nostre conoscenze mediche e storiche.
Il ruolo delle migrazioni in archeologia e il parallelismo tra albero genealogico dei geni e albero di diversificazione delle lingue gli furono contestati, ma comunque la si pensi erano idee feconde. Una delle sue ultime intuizioni scientifiche, una decina di anni fa, fu di rara eleganza. Scoprì che la deriva genetica, cioè il campionamento casuale e la riduzione di variabilità genetica dovuti alla separazione di piccole popolazioni, aveva lasciato una traccia limpida in tutti i genomi del pianeta. La variabilità genetica umana infatti decresce progressivamente mano a mano che ci si allontana dall’Africa meridionale, probabile punto di partenza dell’ultima espansione globale che portò alla diffusione delle popolazioni di Homo sapiens attuali. Riduzione di variabilità genetica e distanza geografica dall’Africa, in virtù di un “effetto del fondatore in serie”, correlano fortemente. Gli piaceva particolarmente questo risultato, perché mostrava come fenomeni casuali quali la deriva genetica potessero dare origine a schemi statisticamente molto eleganti e predicibili.

Il valore culturale (e persino filosofico) della scienza di Cavalli Sforza sta tutto in quella domanda, chi siamo, che fa da titolo a un altro suo fortunato libro, scritto con il figlio Francesco (come anche la sua appassionante autobiografia scientifica: Perché la scienza. L’avventura di un ricercatore). La risposta è che siamo una storia di diversità, ancora in corso. Nel 2011 il Palazzo delle Esposizioni di Roma gli dedicò un’importante Mostra, Homo sapiens. La grande storia della diversità umana, inaugurata dal Presidente della Repubblica.
Il contributo eccezionale che Luigi Luca Cavalli Sforza ha dato alla scienza si misura nel mezzo migliaio di pubblicazioni internazionali ai massimi livelli, nelle alte onorificenze accademiche (tra le quali, Accademico dei Lincei e membro straniero della Royal Society), nei tanti premi (Balzan, Nonino, Serono), nelle innumerevoli lauree honoris causa. Per l’ampiezza e la fecondità del suo lavoro, avrebbe senza dubbio meritato il Nobel, ma essere un italiano e un evoluzionista non aiuta nell’impresa. A pensarci bene, per tutta la vita non ha fatto altro che dedicarsi in modo disinteressato alla ricerca pura e di base, nel senso più alto del termine.
Come Darwin, non amava gli steccati disciplinari. Non era mai dogmatico e spaziava da una linea di ricerca all’altra quasi con leggiadria. Gli veniva tutto facile. Da dieci anni era professore emerito a Stanford, ma era tornato in Italia, spendendosi con generosità nella divulgazione e nella lotta ai pregiudizi antiscientifici, primo fra tutti quello di chi per ideologia o ignoranza nega ancora la realtà e la bellezza dell’evoluzione darwiniana. Sull’eterna minaccia del razzismo ha scritto pagine intense (per esempio in Razzismo e noismo, con Daniela Padoan) e tenuto conferenze memorabili. Era un uomo schietto, ironico, profondamente libero, che avresti voluto interrogare su tutto, e invece era sempre lui a fare le domande a te. Da ogni gesto e parola sprigionava quella gioia che nasce da insaziabile desiderio di conoscenza, sulla natura e sull’umano. Certe volte ti proponeva connessioni tra fatti ed evidenze talmente lontani fra loro che stentavi a vederci una logica, e invece poi… aveva ragione lui, una logica c’era. La sua è stata davvero una bellissima avventura di ricerca.

(*) ripreso da “Nazione indiana” con questa nota introduttiva di Antonio Sparzani: «è scomparso il 31 agosto scorso Luigi Luca Cavalli-Sforza, grande scienziato e grande uomo per il quale nutro una grandissima stima, per averlo sentito raccontare le sue idee e per aver letto molti dei suoi scritti. Ho chiesto a Telmo Pievani, ordinario di filosofia della biologia all’Università di Padova e collaboratore e amico suo, di scrivere per Nazione Indiana un post che ricordi un così importante maestro».

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Partecipazione alla Via Crucis Pordenone-Aviano del 18 marzo 2018

L’iniziativa è promossa dai Beati i Costruttori di Pace di Pordenone e Padova e dal Centro di Accoglienza Ernesto Balducci di Zugliano.

Il percorso della “marcia”, che chiede la rimozione delle armi nucleari di Aviano, è tra i 12 e i 14 km. La Via Crucis parte dalla piazzetta San Marco (Cattedrale) alle 13:30 e i conclude alle davanti alla Aerobase di Aviano alle 18:00

Il Punto Pace di Pax Christi di Tradate e i Missionari Comboniani di Venegono Superiore organizzano un pullman per raggiungere Pordenone con le seguenti indicazioni logistiche:

Andata

– Ore 08:30 Partenza da Varese (piazzale delle FF.SS.)

– Ore 09:00 Partenza da Tradate (piazza del mercato)

– Ore 09:30 Partenza da Saronno (presso Lazzaroni – Ingresso autostrada)

– Ore 13:15 Pordenone

Ritorno

– Ore 18:00 Partenza da Aerobase Aviano

– Ore 21:45 Arrivo a Saronno (presso Lazzaroni – Ingresso autostrada)

– Ore 22:15 Arrivo a Tradate (piazza del mercato)

– Ore 22:45 Arrivo a Varese (piazzale delle FF.SS.)

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Riflessioni spazio-tempo per l’energia

da Qualenergia Aprile 2017

Occorre utilizzare un nuovo approccio scientfico per traghettare l’umanità verso la sostenibilità

Velocità massima della luce, tempi relativi, materia granulare, energie discrete, in uenza dell’osservatore sulla realtà : concetti quotidianamente presenti nelle tecnologie di cui ci serviamo, a partire dai pannelli solari sopra i nostri tetti. Nozioni che operano nelle transazioni nanziarie ad alta frequenza cui si a dano le imprese che ci allacciano al gas e all’elettricità e che stanno alla base delle telecomunicazioni, dei Gps sui nostri cruscotti e delle App dei nostri smartphone.

Concetti benfissati, anche se forse più indirettamente rintracciabili, nella moderna organizzazione del lavoro, della produzione e del consumo che quotidianamente osserviamo in la al lettore di cassa laser del supermercato. Immagini della realtà e ettiva con cui conviviamo e di cui siamo fatti, che non fanno tuttavia parte della nostra “cassetta degli attrezzi” per protenderci verso il futuro, per capire un mondo sempre meno prevedibile: magari per attrezzarci meglio alla transizione energetica in corso.

Intanto, una politica miope che si ritira da responsabilità globali ci sta abituando a vivere solo in un eterno presente che è quello che ci illustra come se abitassimo ancora nell’era newtoniana delle risorse illimitate e della trasformazione industriale di natura in merce. Ma no a quando? Il testo “Il mondo al tempo dei quanti” di Mario Agostinelli e Debora Rizzuto (ed. Mimesis, Milano, gennaio 2017) offre un audace e innovativo punto di vista su molti aspetti che riguardano la vita degli uomini e delle donne, il loro organizzarsi in società, la struttura iniqua delle relazioni economiche e la crisi di democrazia che caratterizza il nostro tempo. Diversi sono i destinatari cui suggerire una ri essione sul testo qui proposto.

La tesi fondamentale del libro, che individua nella rivoluzione scienti ca del XX secolo il punto di svolta per l’interpretazione della realtà intera da cui siamo circondati – “dall’in nitamente piccolo all’in nitamente esteso” – non si limita alla materialità del mondo fisico, come potrebbe far intravedere la permanente separazione
delle culture umanistica e scientifica. Com’era avvenuto con il compimento del “momento newtoniano”, nei suoi risvolti istituzionali (l’indebolimento dell’assolutismo), produttivi (la nascita dell’industria), antropologici (la natura diventa quantitativamente e illimitatamente trasformabile in merce e ricchezza), il “momento relativistico-quantistico”, che stiamo percorrendo pur rimanendone concettualmente lontani, andrebbe portato all’attenzione di chiunque abbia il compito di orientare la società in questi tempi di sconvolgimenti tanto repentini da lasciarci privi di chiavi di lettura e, pertanto, senza visioni di lungo periodo.

Il ricorso all’impiego delle più recenti intuizioni e scoperte scienti che è il compito che si danno gli autori usando metafore di forte suggestione per la trasposizione al mondo sensibile, pur mantenendo la sostanza scientfica dell’approccio che ha sconvolto fisica, chimica, biologia e neuroscienze a partire da Plank, Einstein e Bohr. Questa fase storica è segnata da cambio di dimensioni, inomogeneità, discontinuità, incertezza e probabilità al posto del determinismo e della causalità.

L’Universo è un mondo curioso ma non lo riteniamo reale, perché continuiamo a vivere nel “momento newtoniano”, come se Feynman e Heisenberg fossero esistiti solo per chi progetta smartphone, Internet, Gps e laser e non per chi ne fa uso quotidiano.

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