di Telmo Pievani
Un maestro lo vedi dalla libertà e
dalla curiosità. Di lui ricordo un insegnamento cruciale: quando
intravedi un tema di ricerca promettente in cui ancora nessuno si è
cimentato – diceva – quella è la direzione in cui puntare senza remore.
Io ci ho provato con la mia filosofia della biologia, e mi è andata
bene. Lo devo anche a quel consiglio, benché Luca Cavalli Sforza fosse
molto sospettoso sul ruolo e sull’utilità della filosofia. Lo
rassicuravo dicendogli che nella mia di filosofia c’era ben poca
metafisica, ma non bastava. Provavo a cavarmela dicendogli che nella sua
opera di ricercatore c’era un sacco di ottima filosofia della scienza,
da lavorarci per anni. Ed ecco che allora tornava per un attimo quel suo
sorriso intriso di curiosità e di sempre nuove domande di ricerca.
Oggi
tantissimi ricercatori in tutto il mondo lavorano all’ombra delle sue
intuizioni. Nessuno meglio di Luigi Luca Cavalli Sforza, il grande
genetista spentosi il 31 agosto all’età di 96 anni a Villa Buzzati di
Belluno, ha incarnato la figura del pioniere, di colui che inaugura
campi di studio prima inesplorati e li lascia in eredità a intere
generazioni di continuatori. Forse anche perché era alto, elegante e
carismatico, ora che non c’è più vien da pensare ai giganti della
scienza e a noi nani che guardiamo lontano arrampicandoci sulle loro
spalle.
Dopo gli studi di medicina a Torino
con Giuseppe Levi e a Pavia negli anni delle leggi razziali e poi della
guerra, Cavalli Sforza dal 1942 fu introdotto allo studio della genetica
di drosofila da un maestro del calibro di Adriano Buzzati Traverso,
fratello di Dino. Fu Buzzati Traverso, pare, a suggerirgli di aggiungere
come secondo nome Luca, con cui tutti lo chiamavamo. Il legame di una
vita con la famiglia Buzzati sarà sancito dal suo matrimonio con una
nipote dei Buzzati, Alba Ramazzotti, che lo seguirà per tutta la sua
carriera e gli darà quattro figli.
Fra il 1948 e il 1950 lavorò a Cambridge, sotto la guida di Ronald A.
Fisher, insigne statistico e tra i fondatori della genetica delle
popolazioni. Con il microbiologo Joshua Lederberg, poi Nobel nel 1958 a
33 anni, Cavalli Sforza studiò l’allora sconosciuto sesso dei batteri,
cioè lo scambio orizzontale di pacchetti di informazione genetica tra un
batterio e l’altro, dando contributi fondamentali. Dal 1951 ricoprì uno
dei primi insegnamenti di Genetica e Microbiologia in Italia, a Parma,
dove cominciò ad appassionarsi alla genetica umana. Qui intuì che i
nostri geni recano con sé preziose tracce della storia umana profonda e
degli antichi spostamenti di popolazioni.
Fiutò questa pista a modo suo, mescolando come nessuno aveva fatto prima
dati provenienti da discipline diverse: analisi dei gruppi sanguigni,
ricerca di marcatori genetici, registri parrocchiali, storia
demografica, alberi genealogici e indagini sulle distribuzioni dei
cognomi (anche dai buoni vecchi elenchi telefonici). Collaborò con
l’Istituto Sieroterapico Milanese e dal 1962 fu professore di ruolo
all’Università di Pavia. Divenne intanto antropologo anche sul campo,
guidando spedizioni di ricerca sui cacciatori raccoglitori khoi-san del
Kalahari e prima sui suoi amati popoli pigmei dell’Africa centrale,
campioni di sostenibilità e saggezza ambientale. L’incontro con la
diversità umana reale lo convinse sempre di più che attraverso la lente
delle differenze genetiche umane fosse possibile ricostruire l’albero
delle separazioni storiche tra i popoli della Terra e la diffusione dei
geni tra le popolazioni tramite mescolanze e migrazioni.
Non sempre in armonia con le logiche
accademiche italiane, nel 1971 Luigi Luca Cavalli Sforza lasciò l’Italia
per la cattedra di Genetica delle popolazioni e delle migrazioni a
Stanford, dove assunse la guida di un programma di ricerca mondiale che
mirava a ricostruire per via genetica niente meno che l’albero genealogico dell’umanità.
Le analisi sempre più raffinate sulla variabilità umana (sul DNA
mitocondriale, sul cromosoma Y e poi sull’intero genoma) lo portarono a
scoprire che la specie Homo sapiens ha avuto un’origine unica, africana e
recente, confutando il vecchio modello che prevedeva centri multipli di
origine graduale in differenti regioni. La sua idea, poi confermata e
precisata, fu che una grande diaspora fuori dall’Africa aveva prodotto,
circa 60mila anni fa, il meraviglioso ventaglio delle popolazioni umane
attuali e passate, diversificando i loro geni, ma anche le culture e le
lingue del mondo. Geni, popoli e lingue è uno dei suoi libri di maggior successo.
Se questo è il quadro dell’evoluzione umana recente, significa che siamo
tutti figli di stratificazioni migratorie successive, dall’Africa
all’Eurasia, e poi da questa all’Australia e alle Americhe. Tutti
migranti, insomma, e tutti discendenti da un piccolo gruppo di pionieri
africani. Le differenze genetiche tra due esseri umani presi a caso nel
mondo sono comunque minime. Ne discende, e Cavalli Sforza lo capì
subito, che la separazione dell’umanità in “razze” ben distinte non
regge, perché la variabilità genetica umana si distribuisce in modo
continuo a partire dall’Africa dove ce n’è di più.
Collaborando con archeologi, antropologi e linguisti, forte della sua
preparazione matematica e statistica, cominciò a utilizzare le
comparazioni genetiche per ricostruire anche migrazioni più recenti,
come quella degli agricoltori mediorientali che arrivarono in Europa
portando con sé fisicamente le loro innovazioni, e per definire la
struttura genetica di regioni più limitate (Italia compresa, crogiuolo
di diversità biologiche e culturali). Nel 1994, insieme a Paolo Menozzi e Alberto Piazza, diede alle stampe un atlante monumentale che ancora oggi è un riferimento: Storia e geografia dei geni umani. Qualche anno prima, con Marcus Feldman a Stanford aveva proposto la prima teoria quantitativa della trasmissione culturale, poi aggiornata nel libro L’evoluzione della cultura.
Cavalli Sforza nella seconda metà del Novecento ha contribuito in modo
decisivo alla maturazione professionale e tecnologica della genetica
mondiale. Fin dal 1991 fu il primo promotore e direttore dello Human Genome Diversity Project,
cioè lo studio comparato delle variazioni del genoma all’interno della
nostra specie. Si trattava in sintesi di esplorare non soltanto un
singolo genoma “medio”, ma la diversità effettiva dei genomi umani
dispersi nel mondo, con importanti implicazioni per il miglioramento
delle nostre conoscenze mediche e storiche.
Il ruolo delle migrazioni in archeologia e il parallelismo tra albero
genealogico dei geni e albero di diversificazione delle lingue gli
furono contestati, ma comunque la si pensi erano idee feconde. Una delle
sue ultime intuizioni scientifiche, una decina di anni fa, fu di rara
eleganza. Scoprì che la deriva genetica, cioè il campionamento casuale e
la riduzione di variabilità genetica dovuti alla separazione di piccole
popolazioni, aveva lasciato una traccia limpida in tutti i genomi del
pianeta. La variabilità genetica umana infatti decresce progressivamente
mano a mano che ci si allontana dall’Africa meridionale, probabile
punto di partenza dell’ultima espansione globale che portò alla
diffusione delle popolazioni di Homo sapiens
attuali. Riduzione di variabilità genetica e distanza geografica
dall’Africa, in virtù di un “effetto del fondatore in serie”, correlano
fortemente. Gli piaceva particolarmente questo risultato, perché
mostrava come fenomeni casuali quali la deriva genetica potessero dare
origine a schemi statisticamente molto eleganti e predicibili.
Il valore culturale (e persino filosofico) della scienza di Cavalli Sforza sta tutto in quella domanda, chi siamo,
che fa da titolo a un altro suo fortunato libro, scritto con il figlio
Francesco (come anche la sua appassionante autobiografia scientifica: Perché la scienza. L’avventura di un ricercatore).
La risposta è che siamo una storia di diversità, ancora in corso. Nel
2011 il Palazzo delle Esposizioni di Roma gli dedicò un’importante Mostra, Homo sapiens. La grande storia della diversità umana, inaugurata dal Presidente della Repubblica.
Il contributo eccezionale che Luigi Luca Cavalli Sforza ha dato alla
scienza si misura nel mezzo migliaio di pubblicazioni internazionali ai
massimi livelli, nelle alte onorificenze accademiche (tra le quali,
Accademico dei Lincei e membro straniero della Royal Society), nei tanti
premi (Balzan, Nonino, Serono), nelle innumerevoli lauree honoris
causa. Per l’ampiezza e la fecondità del suo lavoro, avrebbe senza
dubbio meritato il Nobel, ma essere un italiano e un evoluzionista non
aiuta nell’impresa. A pensarci bene, per tutta la vita non ha fatto
altro che dedicarsi in modo disinteressato alla ricerca pura e di base,
nel senso più alto del termine.
Come Darwin, non amava gli steccati disciplinari. Non era mai dogmatico e
spaziava da una linea di ricerca all’altra quasi con leggiadria. Gli
veniva tutto facile. Da dieci anni era professore emerito a Stanford, ma
era tornato in Italia, spendendosi con generosità nella divulgazione e
nella lotta ai pregiudizi antiscientifici, primo fra tutti quello di chi
per ideologia o ignoranza nega ancora la realtà e la bellezza
dell’evoluzione darwiniana. Sull’eterna minaccia del razzismo ha scritto
pagine intense (per esempio in Razzismo e noismo,
con Daniela Padoan) e tenuto conferenze memorabili. Era un uomo
schietto, ironico, profondamente libero, che avresti voluto interrogare
su tutto, e invece era sempre lui a fare le domande a te. Da ogni gesto e
parola sprigionava quella gioia che nasce da insaziabile desiderio di
conoscenza, sulla natura e sull’umano. Certe volte ti proponeva
connessioni tra fatti ed evidenze talmente lontani fra loro che stentavi
a vederci una logica, e invece poi… aveva ragione lui, una logica
c’era. La sua è stata davvero una bellissima avventura di ricerca.
(*) ripreso da “Nazione indiana”
con questa nota introduttiva di Antonio Sparzani: «è scomparso il 31
agosto scorso Luigi Luca Cavalli-Sforza, grande scienziato e grande uomo
per il quale nutro una grandissima stima, per averlo sentito raccontare
le sue idee e per aver letto molti dei suoi scritti. Ho chiesto a Telmo
Pievani, ordinario di filosofia della biologia all’Università di Padova
e collaboratore e amico suo, di scrivere per Nazione Indiana un post che ricordi un così importante maestro».