Archivi categoria: Generale

Per una economia sociale di territorio

dal Manifesto per un’economia sociale, riportiamo lo stralcio dedicato alla Conversione Ecologica.

LA CONVERSIONE ECOLOGICA  

L’orizzonte dell’economia sociale di territorio contiene infine una terza e ulteriore sfida: la sfida della  transizione verso tecnologie e modi di produzione improntati alla sostenibilità ecologica. Il rapido esaurirsi  delle risorse energetiche e l’inarrestabile dissesto ecologico in cui sta sprofondando la civiltà industriale,  rendono improcrastinabile il ridisegno delle regole dello sviluppo, la rimessa in discussione degli attuali stili  di vita dissipativi e l’implementazione di modelli innovativi di produzione, trasformazione e consumo delle  merci. Possono e debbono rientrare in questa agenda varie misure di riduzione delle emissioni di Co2 e vari  provvedimenti tesi a determinare la prevenzione ex-ante di ogni genere di sprechi, scarti e rifiuti. Ciò  significa ricerca costante dell’efficienza nell’uso delle risorse limitate e riduzione dello spreco già dalla fase  progettuale e produttiva. Possono e debbono quindi rientrare nell’agenda del nuovo modello economico la  diffusione capillare della raccolta differenziata, la promozione del risparmio energetico, il contenimento  dello sfruttamento delle risorse non rinnovabili, il riutilizzo delle merci alla fine del loro ciclo di vita, la tutela  della biodiversità e dei beni comuni essenziali per la vita animale e vegetale, l’implementazione in tutte le  modalità e le scale possibili delle energie alternative, delle produzioni locali, delle coltivazioni biologiche,  degli allevamenti non inquinanti. Possono e debbono rientrare nell’agenda del nuovo modello economico  una serie di norme legislative volte a incentivare i comportamenti più socialmente ed ecologicamente  responsabili, attuati da imprese, enti pubblici e consumatori.

E naturalmente possono e debbono rientrare in una strategia quadro di sostenibilità (economica,  ecologica e sociale) anche le politiche di lotta ai traffici delle eco-mafie, la difesa del paesaggio  dall’invasione della cementificazione e in generale la valorizzazione dell’ambiente come motore di ripresa  economica del Paese. Che si tratti di paesaggi naturali, urbanistici, architettonici o artistici, in tutti i casi i  paesaggi vanno mantenuti, curati e attentamente gestiti. In funzione del godimento della loro bellezza  intrinseca, ma anche in funzione del sostegno a un turismo che deve costituire un asse portante della  ripresa economica nazionale.

La via verso un nuovo modello di economia passa anche dalla rivalutazione complessiva del ruolo  dell’agricoltura multifunzionale nel mantenimento degli equilibri tra uomo e natura. E dunque dal sostegno  delle produzioni di carattere familiare, delle piccole e medie aziende agricole, dei network di agricoltori a  kilometro zero, dei soggetti dell’economia rurale che lavorano alla riproduzione dell’ambiente, alla  socializzazione della ricchezza. Così come dal recupero e dalla riscoperta dei modelli più efficaci di  autogoverno locale dei beni comuni -pascoli, sistemi irrigui, bacini imbriferi, parchi, aree verdi- e in  generale dalla tutela dei diritti d’uso comunitari sulle terre.

D’altra parte non è pensabile che ci si possa davvero avviare verso un’economia sostenibile senza  politiche industriali innovative e coerenti in settori come quelli dell’energia, della chimica verde, della  metalmeccanica, dei trasporti, della logistica, dell’estrazione mineraria, delle nanotecnologie, delle  tecnologie dell’informazione. Settori nei quali è urgente pianificare e agire innovazioni tecnologiche volte a  creare nuovi prodotti, nuovi servizi e nuovi modi di produzione non inquinanti. Facendo sempre attenzione  a prevenire le chiusure di impianti repentine e le drammatiche perdite di posti di lavoro. La sfida della  conversione ecologica sta infatti nel trovare soluzioni manifatturiere compatibili da un lato con la finitezza  delle risorse naturali e la preservazione del creato, e dall’altro con l’esigenza di dare lavoro e degna  protezione sociale a tutti coloro che versano nella disoccupazione e nella precarietà.

L’intero documento è scaricabile qui: Per un’economia sociale. Idee e persone per una Italia Sostenibile.

Condividi

La FIOM per la green economy

“Non si tratta di sperare in una generica ripresa dopo la prolungata crisi che è tuttora in corso, ma si può immaginare un futuro per l’industria solo ripensando in chiave ecocompatibile il concetto stesso di produzione industriale”. Ad affermarlo Maurizio Landini, segretario generale della Fiom. Il sindacato dei metalmeccanici Cgil crede fermamente nella green economy come unica via per far ripartire la realtà industriale italiana. E sta portando avanti un proficuo dialogo con ambientalisti e mondo delle rinnovabili, che ha avuto una tappa importante nel seminario tenutosi ieri a Roma, dal titolo “Strategie energetiche nazionali: l’industria delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica”. “Un’alleanza –  ha sintetizzato Maria Grazia Midulla del WWF, intervenendo al seminario – in cui ognuno, ambientalisti e sindacati, assume un po’ del punto di vista dell’altro”.

La crisi verrà vinta con il superamento definitivo dello storico conflitto ambiente-lavoro? “Il caso Ilva insegna. Occorre chiedersi cosa si produce, come lo si produce e perché”, risponde indirettamente Eliana Como del centro studi Fiom. “Troppe merci, prodotte male e con poco lavoro: questo ha portato alla crisi, che è una crisi di paradigma. Il sistema non può ripartire com’era. Non si tratta più di rendere compatibile ambiente e lavoro, ma di mettere l’ambiente al centro dell’attività produttiva”, spiega Danilo Barbi, della segreteria nazionale Cgil.

Una ripartenza – è stato il filo conduttore del convegno – che non può avvenire senza una politica energetica e industriale lungimirante e stabile, della quale si sente fortemente la mancanza. Cosa abbia portato l’incertezza normativa e il tentativo di ostacolare le rinnovabili di questi ultimi anni lo sanno bene i metalmeccanici che lavorano nelle rinnovabili. Come hanno ricordato diversi delegati RSU di aziende del settore intervenuti, la politica ondivaga in materia di energia pulita ha esacerbato la piaga del precariato.

Degli effetti sull’occupazione nel comparto, d’altra parte, su queste pagine abbiamo parlato più volte: solo per fare l’esempio del fotovoltaico, in un anno di incertezza normativa terminato con lo sconvolgimento del quinto conto energia si sono persi circa 6mila posti di lavoro su 18.500 (indotto escluso), ha ricordato il presidente del GIFI Valerio Natalizia, intervenendo all’incontro.

“Non è l’eccesso di diritti dei lavoratori che ostacola la realtà produttiva italiana, ma una politica industriale che non c’è”, ha sottolineato Landini. Interessante da questo punto di vista la testimonianza di Paolo Mutti, a.d. di Solsonica, importante produttore italiano di celle e moduli FV sulla competizione con la Cina: il costo del lavoro, ha spiegato, èun fattore trascurabile in un prodotto come le celle e i moduli fotovoltaici, a rendere più competitivi i cinesi è la politica di Pechino che, avendo deciso di puntare sulle rinnovabili, li sostiene anche nei periodi difficili, garantendo l’accesso al credito tramite le banche nazionali.

In Italia invece un indirizzo politico che promuova con una certa stabilità uno sviluppogreen manca. Preoccupa l’assenza del tema della politica industriale nella campagna elettorale, mentre il governo uscente, come ha sottolineato il responsabile delle politiche ambientali Fiom Maurizio Marcelli, guarda al passato riproponendo un modello basato sulle fonti fossili.

Nel nostro paese, mentre si taglia il sostegno alle rinnovabili  e si pensa a nuove trivellazioni, da 3 anni gli investimenti industriali sono in declino e l’innovazione langue, tanto che abbiamo un quarto dei brevetti per abitante che ci sono in Germania, come ha ricordato Carlo Buttarelli, rappresentante sindacale Flc all’Enea, ente che dovrebbe promuovere ricerca e sviluppo, ma che è “commissariato e in cui ogni 5 ricercatori pensionati se ne assume uno, così che si è raggiunta l’anzianità media di 53 anni”.

di Giulio Meneghello – 18 gennaio 2013

“Servirebbe un programma di sostegno alla ricerca e alle filiere industriali innovative come era stato ‘Industria 2015’ introdotto dal governo Prodi e cancellato dal successivo: il nuovo governo dovrebbe mettere in piedi un programma ‘Industria 2020’” ha suggerito Gianni Silvestrini, illustrando le varie possibilità di riconversione verde della nostra economia puntando su rinnovabili, efficienza energetica in edilizia e mobilità sostenibile. Una riconversione, ha suggerito, che “potrebbe essere finanziata spostando gradualmente quei 60 miliardi l’anno che il nostro paese spende per importare dall’estero combustibili fossili”.

Un’idea, quella della riconversione verde, che sembra piacere a Landini, che ha ricordato come ad esempio la Fiom da tempo sostenga l’eolico galleggiante come attività per la riconversione di Fincantieri. “Per uscire dalla crisi occorre una politica energetica, dei trasporti, delle infrastrutture che guardi al futuro – ha concluso – Bisognerà confrontarsi con il nuovo governo su una nuova politica industriale”.

Condividi

Un piano nazionale contro la povertà energetica

di Giovanni Carrosio

Con l’aggravarsi della crisi economica, il tema della fuel poverty (povertà energetica) – molto studiato e dibattuto soprattutto nei paesi anglosassoni – sta assumendo una sua rilevanza anche in Italia. Cresce il numero di famiglie che si trovano nella difficoltà o nell’impossibilità di assicurare un riscaldamento adeguato nelle proprie abitazioni e di dotarsi di sistemi elettrodomestici e di illuminazione sufficienti a causa del costo dell’energia elettrica. Secondo una ricerca europea, nel 2010 in Italia l’11% delle famiglie non aveva la disponibilità economica per riscaldare in modo adeguato la propria abitazione e il 9% delle famiglie aveva una cronicità nel ritardo dei pagamenti delle bollette (Eurostat, 2010). Il dato è destinato a crescere in modo incrementale con la crisi economica, a meno che non intervengano ambiziose politiche capaci di invertire la rotta. Ad essere colpite non sono soltanto le classiche situazioni di povertà, che trovano sostegno ad esempio nel social housing, ma un serie di figure nuove che vanno sotto il concetto di working poors: persone che, pur avendo un reddito da lavoro, non hanno sufficienti disponibilità economiche per vivere in modo dignitoso. Il fenomeno dei working poors è dilagante e coinvolge circa il 10% dei lavoratori italiani nel complesso e il 18% dei lavoratori con contratti temporanei.

Fino ad oggi, le istituzioni hanno elaborato risposte alla fuel poverty parziali e insoddisfacenti, basate soprattutto su due indirizzi: la creazione di mercati energetici concorrenziali, che permettano un abbassamento dei costi medi dell’energia, e l’attivazione di politiche per la salvaguardia dell’accesso ai servizi energetici delle fasce più deboli della popolazione. Sul primo fronte, si assiste oggi in Italia allo sviluppo di forme di concorrenza nel mercato elettrico e, in misura assai più limitata, in quello del gas. Sul versante delle politiche specifiche di salvaguardia delle fasce deboli della popolazione, è oggi avviata una tariffa sociale per l’energia elettrica, finalizzata a ridurre la spesa energetica dei consumatori in condizioni di disagio economico o in gravi condizioni di salute. Inoltre, l’Autorità per l’energia è da tempo intervenuta con specifici provvedimenti (rateizzazione dei pagamenti, tassi massimi di interesse, divieti di sospensione del servizio in casi di particolare disagio) nell’ottica di tutelare i consumatori più vulnerabili.

Esiste un terzo versante, tuttavia, sul quale non si è ancora intervenuto in modo strutturato e mirato, quello degli interventi di miglioramento dell’efficienza negli usi finali dell’energia. Anziché intervenire in modo assistenziale sul sostegno alla spesa delle famiglie in difficoltà, è possibile intervenire sul miglioramento della qualità degli alloggi, con vere e proprie ristrutturazioni energetiche. In questo modo si abbatte strutturalmente il fabbisogno energetico delle famiglie, innalzandone contestualmente il comfort. Perché ciò sia possibile, sono necessarie però politiche integrate, comprensive di diverse questioni: sociali (la lotta alla povertà energetica), ambientali (la riduzione delle emissioni climalteranti), energetiche (incremento dell’efficienza negli usi dell’energia), economiche (l’impulso al settore delle ristrutturazioni edilizie e la creazione di nuovi green jobs).

Intervenire sull’efficienza energetica degli edifici, infatti, consente non solo di alleviare il carico delle bollette sul bilancio famigliare, ma anche di diminuire il peso del settore edile sulle emissioni e di creare nuova occupazione legata ai lavori verdi.

Seguendo questa logica le politiche devono intervenire incrementando le capabilities delle famiglie con bassi redditi, invertendo la logica assistenzialistica. Fino ad oggi, però, tutte le incentivazioni nazionali sul risparmio energetico negli edifici sono state concesse senza distinzione di reddito (i meccanismi del 55% e del 36%) ed è facile ipotizzare che siano state utilizzate esclusivamente da redditi medio-alti. Per come gli incentivi sono impostati, le famiglie più giovani senza risparmi e senza continuità di reddito e le fasce di reddito medio-basse difficilmente trovano attraente l’incentivazione (impossibile fare gli interventi per mancanza di risorse e ridurli fiscalmente per insufficiente imponibile).

È arrivato il momento di iniziare a pensare alle politiche di incentivazione in modo differenziato per le fasce di reddito. Sia per l’installazione di dispositivi di produzione di energia da fonti rinnovabili, che per gli interventi di risparmio energetico degli edifici. Bisogna anche mettere a punto un piano di interventi diretti, sulla scorta di quello immaginato da Gallino per la messa in sicurezza del territorio. Abbandoniamo le grandi opere e investiamo in autonomia energetica a partire dalle singole abitazioni. Le future generazioni ci ringrazieranno.

Condividi

Conferenza di Doha, politica e governi a mani vuote

di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano 28 novembre 2012

Nientemeno che la Banca Mondiale ha allertato sulle conseguenze di una mancata drastica riduzione di emissioni di anidride carbonica ed ha perciò esortato i governi di 119 Paesi riuniti in questi giorni a Doha – la capitale del Qatar che ha l’impronta di CO2 pro capite più alta al mondo, soprattutto a causa del suo petrolio – ad accettare tagli più profondi del previsto per i cosiddetti gas ad effetto serra. Tuttavia, secondo il capodelegazione USA, “gli Stati Uniti non intendono andare oltre il 3% rispetto ai loro obiettivi di emissione”. Al contrario, lo studio britannico del Tyndall Centre suggerisce che il Nord industrializzato dovrebbe fare tagli del 70 per cento entro il 2020, mentre la maggior parte degli altri Paesi dovrebbe fare tagli analoghi, un decennio più tardi.

I negoziati di Doha sono più complessi che mai perché si pongono tre obiettivi che nessuno dei protagonisti politici interpreta come irrinunciabili e da conquistare dando battaglia agli irresponsabili negazionisti. Il primo è di concordare obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra entro il 2020, come cornice avanzata per un rinnovo certo del Protocollo di Kyoto. Il secondo obiettivo è di preparare il terreno per un nuovo trattato globale sul clima post-2020. Il terzo è di garantire l’assistenza tecnica e finanziaria per aiutare i Paesi in via di sviluppo a ridurre le emissioni di carbonio e adattarsi agli impatti dei cambiamenti climatici, come la siccità, le inondazioni e la perdita di produttività agricola.

Sennonché, mentre per salvare le banche, il mondo finanziario e le ricchezze frutto di speculazione, sono stati immessi soldi pubblici dell’ordine del PIL di intere nazioni, per il 2013 i governi hanno già preannunciato che non ci sono soldi per l’ambiente e il clima. È un segno di miopia gravissima, poiché l’obiettivo climatico di limitare l’aumento della temperatura globale entro i 2°C sta diventando sempre più difficile e più costoso. E col crescere della temperatura del pianeta, l’acqua stessa, soggetta a sempre più elevate evaporazioni, sta diventando un parametro decisivo per valutare la fattibilità dei progetti energetici. Questo perché la crescita economica e demografica sta intensificando la concorrenza per accaparrarsi le risorse idriche ormai scarse e destinate conflittualmente all’agricoltura, all’alimentazione diretta e/o alla produzione elettrica.

Perfino l’Unione Europea non si impegna a rinnovare il finanziamento del Fondo per il Clima che si esaurisce a fine anno. “Ovviamente, quando l’intera popolazione UE è in fase di proteste contro l’austerità, non è esattamente il momento di parlare di finanziamento verde”, ha detto improvvidamente il commissario per l’ambiente Connie Hedegaard. In compenso, il Regno Unito e alcuni altri Stati membri puntano a iniziative in cui le fonti di finanziamento pubblico e privato si fondono. Clima come affare, quindi, non come priorità politica e responsabilità verso le future generazioni.

Non è nemmeno in prospettiva una proroga di Kyoto, data la contrarietà di Stati Uniti, Canada, Russia e Giappone. È la mancanza di fiducia e di coesione uno dei principali nodi del momento. Eppure le recenti relazioni scientifiche sul cambiamento climatico mostrano in modo drammatico che il mondo sta rapidamente tornando indietro sui suoi obiettivi di taglio alle emissione di CO2 e, se questo trend non si inverte bruscamente, il mondo dovrà affrontare le conseguenze devastanti di un mondo più caldo di 4° C.

In assenza di un reale protagonismo della politica, troppo legata agli interessi delle grandi lobby fossili, è la società civile che sta facendo la differenza. Dalle comunità che sostengono l’agricoltura locale e sostenibile in tutto il mondo, per arrivare alle transition town tanto diffuse in Europa, fino alle proposte alternative di fornitura energetica, come ha dimostrato l’esperienza di Co-energia, associazione legata alle reti dell’economia solidale italiana, che permette di poter abbandonare un colosso energetico come Enel per alternative più sostenibili e low-carbon. Cambiamento dello stile di vita assieme alla mobilitazione sociale: solo così, sembra possibile dare una spinta decisiva ad una transizione ecologica sempre più ineludibile e sempre più lontana dalla visione della politica. Ma lo sanno i nostrani e ruspanti contendenti delle primarie che proprio in questi giorni sull’altra sponda del Mediterraneo si gioca una partita drammatica sul futuro del pianeta?

Condividi

La rivoluzione delle rinnovabili non si ferma con una modifica della Costituzione

di Giovanni Carrosio

Molto è già stato scritto sulla Strategia Energetica Nazionale. Si vedano l’intervento di Agostinelli su Pubblico e l’editoriale di Silvestrini sul numero di settembre/ottobre della rivista Qualenergia, che mettono in luce le criticità di una strategia improntata principalmente sul gas e sull’intensificazione di estrazioni petrolifere nel nostro paese. Condividendo nel merito gli interventi citati, preme fare qualche considerazione sulla parte del documento che intende intervenire sugli aspetti di governance, nel quale si paventa una modifica della Costituzione per ri-centralizzare la programmazione energetica nelle mani dei ministeri competenti, al fine di ridurre il potere delle autonomie locali sia nelle fasi di programmazione, che di intervento nelle procedure di valutazione ambientale delle infrastrutture energetiche.

La “modernizzazione del sistema di governance” prevede una serie di interventi importanti: la modifica del titolo V della Costituzione; l’adozione di procedure di coinvolgimento degli enti locali; l’introduzione di procedure autorizzative semplificate per le infrastrutture energetiche strategiche e l’accorciamento degli iter autorizzativi in generale.

Intanto un dato politico che denota una involuzione della capacità della classe dirigente di intervenire in termini di programmazione con una visione di lungo periodo: dopo anni di retorica sull’integrazione europea, sull’Europa delle regioni e delle autonomie locali, con la modifica dell’articolo V della Costituzione si ritorna all’interesse Nazionale, che deve prevalere sui sistemi territoriali locali e sulle dinamiche transfrontaliere. In secondo luogo, nel documento si afferma come sulla modifica della Costituzione vi sia un largo e trasversale consenso in parlamento. Sarebbe bene capire che cosa ne pensano le forze politiche e a questo punto che il dibattito sulla SEN entri con forza nelle primarie di entrambi gli schieramenti.

 

Bisogna cogliere la filosofia generale della revisione dei meccanismi di regolazione  e dei livelli di governo del comparto energetico: la strategia energetica nazionale individua nell’accentramento il sistema di governance migliore per depotenziare la diffusione delle rinnovabili e salvaguardare il tradizionale oligopolio legato alle fonti convenzionali. Ai territori non spetta più la facoltà di programmare, ma soltanto un potere consultivo, perché il piano Passera ha sostanzialmente due obiettivi: combattere il decentramento energetico in atto, che vede interi territori diventare energeticamente autonomi e sovrani grazie alla straordinaria diffusione delle rinnovabili, ed evitare che le autonomie locali intralcino lo sviluppo delle grandi infrastrutture energetiche. Si prevede un passaggio da una governance prevalentemente orizzontale ad un sistema di governo gerarchico, dove il centro decide e le periferie si adeguano.

 

Il ruolo dei territori diverrebbe così marginale: essi andrebbero coinvolti soltanto al fine di ratificare le scelte prese ai piani alti dei ministeri, attraverso strumenti capaci di prevenire proteste a priori dovute ad una “cattiva informazione”. Si cita persino uno strumento partecipativo, il “dibattito pubblico informativo” (ben diverso dal dibattito pubblico alla francese), come marchingegno di governo funzionale a favorire l’inserimento delle grandi infrastrutture energetiche (metanodotti, rigassificatori, trivelle, impianti di raffinazione) nel territorio. Dopo anni di studi sui fenomeni partecipativi e sui movimenti territoriali, francamente stupisce una visione così grezza della partecipazione, banalizzata nell’adozione di strumenti di coinvolgimento volti a superare “la mancanza di informazioni affidabili e concrete”.  Come se i movimenti di protesta fossero mossi da ignoranza e non da approfondita conoscenza. Come se bastasse indottrinare, e non coinvolgere realmente nella formazione delle politiche.

 

Del resto la filosofia che emerge dalla lettura del documento è questa: il centro progetta grandi infrastrutture energetiche, individua i territori destinati ad ospitarle, tenta di inserirli sui territori in modo consensuale, illustrando i benefici per le popolazioni locali, e “in caso di mancata intesa della Regione, la decisione sia rimessa al Consiglio dei Ministri”.

 

Siamo di fronte ad una vera e propria offensiva, che vede le procedure autorizzative e le autonomie locali come intralci alla modernizzazione del paese. Francamente non si capisce se vi sia della cattiva fede o una mancata percezione dei fenomeni realmente in atto: calano i consumi di energia, diminuisce progressivamente l’intensità dei picchi di domanda, crescono le energie rinnovabili e decresce il ruolo strategico delle centrali convenzionali. Migliaia di piccole imprese e cittadini diventano produttori di energia, grazie alla installazione diffusa di piccoli dispositivi energetici. Si diffondono progetti di integrazione territoriale delle energie rinnovabili, con l’obiettivo di conquistare spazi di sovranità energetica. Nuove imprese investono in ricerca e sviluppo, creando lavoro e conquistando importanti quote di mercato anche all’estero. È certo che questa esplosione delle rinnovabili fa paura alle grandi lobby dell’energia, delle quali il ministro Passera si presenta come uno strenuo garante. Ma non sono proprio i riformisti di ogni colore ad averci ribadito in questi anni che i processi vanno accompagnati? E sull’energia cosa facciamo, tentiamo di congelare il corso della storia con una modifica delle Costituzione? Per fortuna la costruzione dell’alternativa energetica è un processo che è partito dal basso, che è radicato nei territori e si sta diffondendo a macchia di leopardo formando tanti presidi di democrazia reale – perché produrre energia sui territori significa accrescere la democrazia locale distribuendo il potere economico – che poco badano alle macchinazioni ministeriali.

Condividi