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Chi inquina non paga: inciuci europei e lobby del carbone

Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano 24 aprile 2013

Quest’anno la Giornata della Terra (22 aprile) ha coinciso, almeno nel nord dell’Italia, con le fioriture in grave ritardo degli alberi, richiamando la nostra attenzione sul fatto che, per stare meglio e godere della vita, occorre anche tener conto del rapporto tra l’evoluzione del clima e i nostri comportamenti in difesa o disprezzo di terra, aria ed acqua.

A proposito, l’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE) afferma che “nel 2012, pur con una debole economia mondiale ed il prezzo del petrolio alle stelle, le emissioni di anidride carbonicahanno raggiunto livelli record. Il modo in cui produciamo ed utilizziamo l’energia minacciano la nostra sicurezza, la salute, la prosperità economica e l’ambiente” (Energy Technology Perspectives 2013).

Nonostante i fiumi di parole sulla green economy, dobbiamo registrare che, se nel 1990 per ogni tonnellata equivalente di petrolio (Tep) di energia venivano emesse 2,39 t CO2, nel 2010 le emissioni erano scese ad appena 2,37 tonnellate. Eppure, ci sono notizie allettanti e positive, come gli investimenti in energie pulite ormai economicamente convenienti (“da oggi al 2050, ogni dollaro investito in più nelle rinnovabili può generare un risparmio di combustibile pari a tre dollari” (Energy Technology Perspectives 2012), la crescita delle vendite di vetture ibride ed elettricheche hanno raggiunto quota 1,2 milioni (+43% nel 2012). E ancora, la decisione di 46 Paesi di eliminare gradualmente entro il 2016 le lampade ad incandescenza e l’utilizzo delle tecnologie per una migliore integrazione e flessibilità dei sistemi, come le smart grid, per cui sono stati investiti 13,9 miliardi dollari nel 2012.

Il fatto è che nel mondo continua a crescere il numero di centrali a carbone (6% nell’ultimo biennio). Perfino nei Paesi più “green” del vecchio continente, si pensi alla Spagna e soprattutto alla Germania, aumenta la quota di elettricità prodotta dalle centrali a carbone, sia perché il suo prezzo è sempre più basso, sia perché eolico e solare fotovoltaico in quote ancora marginali riducono l’uso delle centrali a gas, ma non di quelle a carbone.

E’ proprio l’influente lobby d’affari del carbone che ha convinto una settimana fa (il 16 aprile) ilParlamento Europeo a votare per rifiutare la proposta della Commissione di rilanciare il sistema di scambio di emissioni (ETS), in modo da far pagare chi inquina, bloccando sul mercato i certificati a bassissimo prezzo disponibili nei prossimi anni. I certificati di emissione di anidride carbonica possono essere scambiati, con un pagamento da parte degli inquinatori in eccesso e, al contrario, un risarcimento monetario di chi riduce le emissioni.

Dal lancio del sistema nel 2005, il prezzo per tonnellata è passato da 30 euro a meno di 5, e chiaramente questo ribasso non spinge gli industriali a investire per ridurre le emissioni. Congelando una parte dei “permessi per inquinare”, la Commissione sperava di far risalire il prezzo delle quote fino a 10-12 euro. Ma dopo il rifiuto del Parlamento e la riapertura dell’asta per altre quote di emissione di CO2, il prezzo per tonnellata di gas serra è crollato. Si è così attenuata l’arma principale dell’Ue nella lotta contro il riscaldamento globale, costituita dall’obiettivo di un’effettiva riduzione almeno del 20% delle emissioni di gas serra da conseguirsi anche con forme marcate di incentivo-disincentivo. Obiettivo oggi vergognosamente monetizzabile con due soldi, in base alla decisione dell’europarlamento, approvata di stretta misura (334 contro, 315 favorevoli e 63 astenuti), ma con il plauso di Confindustria. Gli europarlamentari italiani hanno formato una “larga intesa” a favore degli inquinatori, costituita da PdL, Lega, Montiani e parte del Pd.

Analizzando l’episodio e rimarcandone le valenze, è triste dover osservare come l’abitudine a declinare la rappresentanza e le aspettative dei propri elettori non sia malcostume rilevabile solo a livello nazionale. Se la democrazia progressivamente si eclissa e gli interessi si rendono visibili solo agli eletti e rimangono invisibili agli elettori e all’opinione pubblica, l’inciucio viene esecrato a parole, ma confermato negli atti. Non sarebbe male verificare i singoli comportamenti di voto a Strasburgo in un fatidico 16 aprile, stranamente omesso tra le notizie degne di nota e invece assolutamente indicativo di un’ipocrita e nefasta celebrazione da parte della politica della “Giornata della Terra” con una settimana di anticipo.

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Lo sportello energia nella zona 8

Nella nostra zona 8  il COMITATO BENI COMUNI si sta battendo per l’apertura di uno sportello energia in collaborazione con il  CONSIGLIO DI ZONA 8  e l’associazione ENERGIA FELICE.

Iniziativa per lo sportello energia

Lo sportello energia  potrà  diventare un importante strumento al servizio dei cittadini per una maggiore sostenibilità nei consumi energetici.

 

Noi pensiamo che lo  sportello energia potrebbe occuparsi di:

-consulenza su impianti ad energia solare termica e fotovoltaici

-lettura della bolletta elettrica e del gas

-contenzioso con fornitori di energia elettrica e gas

-gestione e costruzione impianti fotovoltaici in forma cooperativa

-soluzioni energeticamente efficienti per la produzione di calore

-certificazione energetica degli edifici

-interventi edilizi per il miglioramento del confort e riduzione dei consumi.

 

Vorremmo che sia possibile per tutti la realizzazione di questi interventi potendo trovare i necessari finanziamenti .

E’ fondamentale districarsi tra le normative che rendono possibili e convenienti questi interventi.

 

Col supporto del Cdz8  e dell’associazione Energia Felice, lo sportello energia verrà realizzato anche nella nostra zona.

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Dal Forum Sociale Mondiale un messaggio di Alex Zanotelli

Forum Sociale Mondiale
Tunisi, 26 – 30 marzo 2013

OSARE CAMMINI NUOVI

La seconda giornata del Forum  è stata ancora più partecipata e più affollata della prima con una entusiasmo soprattutto da parte dei giovani che hanno letteralmente invaso il Campus universitario. Un’impressione questa condivisa  dal quotidiano tunisino La Presse nel suo editoriale di oggi. “Il Forum sociale mondiale che è stato organizzato, per la prima volta in un Paese in pieno processo rivoluzionario, offre nelle sue molteplici manifestazioni, un affascinante sentimento di contribuire al concepimento della nuova Tunisia che deve dare alla luce la transizione democratica”.

Un sentimento questo che si sentiva  oggi nell’Università che sembrava un cantiere in effervescenza, soprattutto quando i giovani tunisini  del futuro politico del loro paese.  Ancora più evidente nelle interminabili discussioni dei gruppi femminili. Si sono sentite parole una volta  proibite, oggi sono invece pronunciate con forza, con determinazione, con coraggio: libertà,dignità,  autonomia e parità di genere.

Da questo mondo in movimento della Tunisia, fa impressione osservare la crisi profonda e la staticità dell’Europa. Molti i workshop sono stati dedicati  a sviscerarne la crisi. A questo riguardo particolarmente indovinata la lettura che ne ha fatta il Centro di Studi di Barcellone: Cristianisme i Justìcia.  “L’Europa dei diritti umani, la culla della democrazia, della rivoluzione francese, delle lotte operaie e del consolidamento della classe media, sta scomparendo”, ha affermato Jaume Botey.  Secondo i relatori è assordante il silenzio delle Istituzioni ecclesiali europee su questa crisi.

Come uscire da questa crisi profonda? Non è certo rinchiudendosi su stessa che l’Europa si salverà. Purtroppo l’Europa con le sue leggi sull’immigrazione è diventata una fortezza che deve difendersi dagli “invasori”.

Una delle sessioni più affollate e belle di oggi dal titolo: l’Europa è in guerra contro un nemico che lei si inventa, è stata quella dedicata al Frontex , una Agenzia di sorveglianza, istituita nel 2009, per difendere i confini dell’Unione Europea. Questa Agenzia ha a disposizione 21 aeri, 113 navi, 475 unità di equipaggiamento, con un bilancio vicino ai 100milioni all’anno. L’invito dei relatori, tutti africani, è stato quello di cambiare il nome in Frontexit (uscire dal Frontex).

Fa una certa impressione guardare il Mediterraneo da Tunisi: questo mare è diventato il cimitero per migliaia migliaia di persone. Commovente la lettera scritta dall’Associazione tunisina La Terra per tutti,  in cui i genitori chiedono all’Italia di avere notizie dei loro figli desaparecidos.  Non a caso sono state molte le  sessioni dedicate al problema dell’immigrazione e del diritto di migrare.

Il Forum però non analizza solo i vari problemi attuali, ma ha il coraggio di prepararsi a importanti eventi in arrivo. Uno di questi è l’incontro che si terrà a Bali nel prossimo dicembre, convocato dal Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio) per liberalizzare ancora di più il mercato, soprattutto nel settore agricolo.  Rappresentanti dei movimenti  dell’Asia (dall’Indonesia al Giappone) sono venuti a Tunisi per chiedere l’appoggio da parte della cittadinanza attiva mondiale, per questo importante appuntamento. Una vittoria del Wto  sarebbe un’altra tragedia per gli impoveriti.

In una giornata così densa non poteva mancare il contributo delle missionarie comboniane e i missionari comboniani che hanno offerto  tre workshop su tematiche che hanno suscitato particolare interesse: La Pace, la riconciliazione e il dialogo interculturale e religioso, presentando esperienze concrete vissute in Egitto, Chad e Congo. Molto seguita è stata la conferenza sulle vicende dei Rifugiati africani in Israele. Nel pomeriggio, è stata presentata l’inedita esperienza dell’Uganda che ha iniziato un programma che permette alla società civile e alle forze di sicurezza di lavorare insieme per costruire la pace.

La giornata si è conclusa nella Cattedrale di Tunisi con una solenne Eucarestia del Giovedì Santo,  facendo memoria di quel Gesù che ci ha insegnato a spezzare il pane, perché tutti ne abbiano in abbondanza.

Tunisi, 28 Marzo 2013

Alex Zanotelli – Elisa kidanè

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La sostenibilità è il nuovo paradigma

di Guido Viale – Il Manifesto 27 marzo 2013

L’esito delle elezioni ha creato una irreversibile instabilità del sistema politico italiano, ma sta anche facendo prendere coscienza a molti che siamo ormai alla vigilia di un “cambio di paradigma”. Il sistema politico che ha retto le sorti del Paese negli ultimi vent’anni, ma soprattutto l’assetto economico che lo ha forgiato e foraggiato, non reggono più. Il successo di Grillo non ne è che un segnale. Questo assetto, espressione e referente del cosiddetto “pensiero unico”, è il combinato disposto di vari fattori.

Globalizzazione, delocalizzazione delle produzioni, precarizzazione del lavoro, diseguaglianze crescenti, finanziarizzazione del comando capitalistico, debito pubblico e privato come strumento di imbrigliamento della società, della politica e del lavoro, guerre, crisi e insicurezza come condizione umana permanente. È il paradigma che si è andato affermando nell’ultimo quarto del secolo scorso a spese di quello che era stato in vigore prima, nei cosiddetti “trent’anni gloriosi” (1945-75) senza che per molto tempo quel passaggio venisse avvertito in tutta la sua portata. Perché fino a quarant’anni fa i meccanismi portanti dell’accumulazione del capitale erano stati il mito dello sviluppo economico (sia nei paesi già “sviluppati” che in quelli “in via di sviluppo”) e la crescita di salari, consumi e welfare: una sintesi di fordismo e politiche keynesiane governata con la continua espansione della spesa pubblica e l’intervento dello Stato nell’economia. Anche quel paradigma aveva comunque concluso il suo corso perché non reggeva più: a metterlo alle strette erano state le aspettative di uguaglianza, di autonomia, di democrazia, di libertà delle nuove generazioni (non a caso si era parlato allora addirittura dei “giovani come classe”): i movimenti studenteschi del ’68, la rivolta antimilitarista contro la guerra in Vietnam, la discesa in campo, in molti paesi, di una classe operaia giovane, spesso immigrata, ancora in gran parte concentrata in grandi stabilimenti industriali; e poi, al loro seguito, una pletora di “categorie” sociali – dai ricercatori ai giornalisti e agli insegnanti, dai poliziotti ai magistrati, dai disoccupati “organizzati” ai baraccati – che aveva messo in moto, senza portarla a termine, quella «lunga marcia attraverso le istituzioni» preconizzata da Rudi Dutschke.

Adesso un nuovo cambio di paradigma, e ben più radicale e traumatico, è di nuovo all’ordine del giorno; non è ancora il contenuto esplicito di un conflitto aperto, ma cova sotto traccia da parecchi anni. C’è chi sostiene che la soluzione alla crisi in corso sia il ritorno al paradigma di un tempo: più Stato e meno mercato, più spesa pubblica per rilanciare redditi e consumi, più Grandi Opere e incentivi alle imprese per creare occupazione. Ma bastano ricette del genere per far fronte alla crisi?

No. Le condizioni che presiedevano al modello dei “trenta gloriosi” non ci sono più. Il mondo si è “globalizzato”: lo hanno reso tale non solo la “libera circolazione” dei capitali (che certamente va bloccata) e l’enorme viavai di merci generato da una divisione del lavoro estesa su scala planetaria (che va drasticamente ridotto). Ma anche internet – una grande risorsa per tutti – la diffusione dell’istruzione, e l’accesso all’informazione, in tutti i paesi e i giganteschi flussi migratori che attraversano il mondo intero, che sono invece fenomeni irreversibili. Tuttavia l’orizzonte esistenziale della nostra epoca è ormai occupato – la si voglia vedere o no – dalla crisi ambientale che incombe tanto su tutto il pianeta quanto, in forme specifiche e differenti, su ogni sua singola porzione. Crescita e sviluppo – pur con tutte le qualificazioni del caso – sono ormai ritornelli ricorrenti ma privi di senso perché la crisi ambientale sbarra la strada a ogni espansione economica che non sia anche e soprattutto devastazione.

Bisogna allora rivedere alle radici gli assetti che ci hanno portato sull’orlo della catastrofe. La finanziarizzazione, da tutti individuata come causa principale della crisi (anche se i più affidano ad essa anche la ricerca delle soluzioni per uscirne) non è che il compimento parossistico di un processo iniziato oltre due secoli fa con quella che Karl Polanyi aveva chiamato «la grande trasformazione»: la riduzione a merci di tre cose che merci non possono essere, pena la distruzione della vita associata (e, oggi possiamo dirlo, anche del nostro rapporto con Madre Terra). Quelle tre “cose” che continuano a rivoltarsi contro la loro riduzione a merci (Polanyi le chiamava «merci fittizie») sono il lavoro, la terra e il denaro. La lotta dei lavoratori contro la propria mercificazione non ha bisogno di illustrazioni, perché è la storia stessa del movimento operaio nelle sue più diverse espressioni. L’appropriazione delle terre (enclosure, ai tempi di Elisabetta I e landgrabbing oggi) è stata ed è la base di quell’«accumulazione primitiva» che per il capitale non è un processo iniziale, ma permanente. Però oggi è tutta la Terra, intesa come ambiente (aria, acqua, suolo ed energia), a essere oggetto di compravendita sotto forma di green-economy: un valido motivo per contrastarla nei suoi presupposti, perché è l’esatto opposto di una vera conversione ecologica. Quanto al denaro, delle sue tre funzioni fondamentali – misura del valore, mezzo di scambio e oggetto di accumulazione – la finanziarizzazione non è che il definitivo sopravvento della terza funzione sulle altre due: il prezzo delle merci è ormai determinato dalle speculazioni su di esse più che dal valore o dal contributo degli input produttivi e gli scambi – il nostro accesso ai beni e ai servizi in commercio – sono sempre più mediati da qualche forma di debito, che è lo strumento fondamentale della finanziarizzazione. La crisi in corso non è altro che questo. Perciò, anche se non abbiamo un modello preciso a cui ispirarci, sappiamo che l’uscita dalla crisi dovrà necessariamente incorporare forme nuove di controllo sociale sul lavoro, sui beni comuni e sul credito (l’attività delle banche; perché denaro e credito sono in gran parte la stessa cosa). Non sarà una passeggiata, ma un conflitto lungo e aspro, che solo una profonda consapevolezza che «ritirarsi è peggio» potrà alimentare. Sapendo però che il nuovo paradigma dovrà convivere ancora a lungo con forme, ancorché depotenziate, di economia del debito; così come la democrazia partecipativa non potrà – né dovrà – fare a meno di quella rappresentativa, e di quel sistema politico degradato che la sorregge ormai in tutto il mondo.

Il nuovo paradigma che può e deve prendere il posto di quello fallimentare imposto dal pensiero unico liberista è la sostenibilità ambientale. La si chiami decrescita, conversione ecologica, giustizia sociale e ambientale o economia dei beni comuni (senza pretendere di annullare le differenze tra questi approcci) è l’unica soluzione che può garantire equità nella distribuzione delle risorse, salvaguardia degli equilibri ecologici e recupero del know-how, del patrimonio impiantistico e dell’occupazione che il sistema economico attuale sta mandando in malora: una fabbrica dopo l’altra, un paese dopo l’altro.

La transizione a questo nuovo paradigma non può essere governata dall’alto o da un “centro” – come è il caso, invece, nella maggior parte delle politiche neokeynesiane – perché si fonda su diffusione, ridimensionamento, differenziazione e interconnessione orizzontale sia degli impianti produttivi che degli interventi: si pensi alla vera vocazione delle fonti rinnovabili (per essere efficienti devono essere piccole, differenziate e distribuite e non concentrate come si fa ancora troppo spesso), all’efficienza energetica, all’agricoltura multifunzionale e a km0, alla gestione dei rifiuti, alla mobilità flessibile, alla salvaguardia degli assetti idrogeologici, ecc. Quel nuovo paradigma è intrinsecamente democratico e indissolubilmente legato a uno sviluppo della partecipazione, perché non può affermarsi senza il concorso dei saperi diffusi presenti sul territorio e l’iniziativa dei lavoratori e delle comunità interessate; il che impone agli asset sottoposti alla transizione il connotato di “beni comuni” .

L’altro requisito irrinunciabile del nuovo paradigma è la ri-territorializzazione (o ri-localizzazione) di molte attività produttive. Gli effetti nefasti della globalizzazione non si combattono con il protezionismo (fermare le merci ai confini preclude la possibilità di esportarne altre: quelle necessarie a pagare ciò che un singolo Paese o anche un singolo continente non potrà mai produrre); e meno che mai con il ritorno alle valute nazionali. Non è l’euro – che è “solo” una moneta – la causa degli squilibri crescenti che investono l’Europa; bensì il modo in cui l’euro è governato: cioè i limiti, che le altre valute mondiali non conoscono, imposti alla sua gestione per trasferire meglio all’alta finanza il comando sulle politiche economiche nazionali e per portare avanti l’attacco a occupazione, salari e welfare. La ri-territorializzazione si realizza invece promuovendo controllo sociale sui processi produttivi; e innanzitutto sui servizi pubblici locali (energia, ristorazione pubblica, gestione dei rifiuti, mobilità, servizi idrici, ecc.) e combattendone la privatizzazione. Convertiti in “beni comuni” gestiti in forma partecipata, i servizi pubblici locali possono diventare il punto di raccordo tra la promozione di una domanda finale ecologicamente sostenibile e l’offerta di impianti, materiali, attrezzature e know-how necessari per soddisfarla. Per esempio, raccordo tra diffusione delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica e imprese riconvertite alla produzione degli impianti e dei materiali corrispondenti. O tra approvvigionamento di cibi sani e a km0 per le mense pubbliche e per tutti coloro che lo desiderino e un’agricoltura ecologica di prossimità; e così per la mobilità, l’edilizia, la gestione dei rifiuti, ecc. Certo garantire l’incontro tra domanda e offerta richiede accordi di programma di cui possono farsi carico solo i governi locali che assumono su di sé la responsabilità della transizione. Accordi che certo limitano la concorrenza – ma non il funzionamento dei mercati – nelle forme propugnate dal pensiero unico e dall’establishment. Ma sono accordi fattibili, persino compatibili, in nome della salvaguardia dell’ambiente, con la normativa dell’Ue; e che in alcuni casi vengono già praticati. E’ la strada che occorre percorrere.

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È nato il coordinamento Rifiuti Zero

Venerdì 15 marzo si è tenuta la riunione regionale organizzata dal Comitato Beni Comuni Monza e Brianza presso l’Urban Center di Monza cui hanno partecipato cinquantotto persone in rappresentanza di varie realtà associative, comitati e movimenti della Lombardia, che ha sancito all’unanimità la costituzione del Coordinamento Regionale a sostegno della proposta di Legge rifiuti zero.

Durante la riunione sono state espresse le adesioni all’iniziativa che rientra nelle azioni di concretizzazione della Strategia Rifiuti Zero e che rispecchia affinità, obiettivi e attività volte a preservare i beni comuni e a riportare l’attenzione dei cittadini in una mobilitazione per la legalità e la trasparenza.

La serata si è anche caratterizzata per la ricchezza d’interventi succedutesi, attraverso i quali è emersa una forte volontà di costruire in Lombardia una fitta rete di collaborazioni tra i movimenti e comitati che operano in Lombardia al fine di realizzare un progetto globale di sviluppo sostenibile e contestualmente avere la capacità di vertenzialità nei confronti delle istituzioni locali dai comuni, province e regione.

Tale collaborazione e progettualità devono avere le seguenti articolazioni:

 

A) Modifica radicale della legge regionale 26 del 2003;

 

B) Incontro con i gruppi eletti in consiglio regionale per abbattere tutte le barriere che ostacolano l’aumento della raccolta differenziata nella regione e contestualmente chiedere l’elaborazione del piano energetico regionale, e incoraggiare il patto dei sindaci per ottemperare alle direttive CE;

 

C) Intessere una fitta rete di contatti in tutti comuni per indurre le amministrazioni comunali ad aderire all’Associazione dei Comuni Virtuosi, e far approvare negli stessi delibere sulla falsa riga del comune di Oristano;

 

Il Coordinamento nelle prossime settimane organizzerà degli incontri itineranti e workshop formativi allo scopo di informare e sensibilizzare i cittadini, di diffondere la cultura sui beni comuni e la partecipazione, di allargare l’adesione al coordinamento di altre realtà presenti sul territorio.

 

Seguiranno degli incontri per comporre i gruppi di lavoro, la comunicazione e l’organizzazione del coordinamento sul territorio con referenti locali per l’operatività della campagna di raccolte firme appena sarà depositata la proposta di legge.

 

 

In fine sono stati definiti e votati all’unanimità i seguenti referenti: Biagio Catena Cardillo del Comitato Beni Comuni Monza, Patrizia Pappalardo di Zero Waste Italy e Maurizio Bertinelli del Comitato Beni Comuni Monza.

 

Coordinamento Rifiuti Zero Lombardia                                                     Monza 16 marzo 2013

 

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