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Energia Felice aderisce all’appello “La via maestra”

Milano, Settembre 2013

Ai promotori dell’appello “La via maestra !”

Come rappresentanti di una associazione che promuove la sostenibilità e i beni comuni riteniamo molto interessante il documento programmatico “La via maestra! Applichiamo la Costituzione”, che vede come primi firmatari Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Don Luigi Ciotti, Lorenza Carlassare, Maurizio Landini.

Al di là dell’adesione formale alla manifestazione nazionale del 12 ottobre, che qualcuno di noi a livello individuale e/o collettivo ha già dato, crediamo necessario continuare confronti, approfondimenti, coordinamenti e mobilitazioni comuni, in quello che il documento definisce “uno spazio pubblico informale”, ben più ricco dello spazio politico ufficiale, nel quale non siamo impegnati.

La difesa della Costituzione, con i diritti essenziali che sancisce, si fa innanzitutto  applicandola, inverandola nell’affrontare le contraddizioni sociali, economiche, ambientali che oggi stiamo vivendo in questa crisi molteplice. Nella quale si rischia vengano meno anche le garanzie per la protesta pacifica e le critiche documentate ai poteri forti – come sta accadendo in Val Susa, di fronte al trasporto insicuro delle scorie nucleari e nelle vertenze contro l’inquinamento dei grandi impianti energetici – oltre che una libera e imparziale informazione ai cittadini.

Proprio per delineare una uscita alternativa da questa crisi, noi crediamo che l’affermazione dei diritti fondamentali: lavoro, eguaglianza, welfare, beni comuni (che seppur non citati in questa forma sono comunque previsti dalla Carta costituzionale, a partire dall’art. 9 e 43) debba trovare una convergenza con le tante battaglie per fuoriuscire dalla crescita iniqua e per un cambio del “paradigma dello sviluppo”.

La riconversione del modello produttivo, affinché sia ambientalmente e socialmente sostenibile; la transizione verso una economia a minor intensità energetica, che possa funzionare a fonti rinnovabili e a basse emissioni di carbonio, implicano cambiamenti rilevanti e radicali nel modo di produrre, di consumare, di organizzare le città, incide sugli stili di vita collettivi e individuali. Tutto questo deve inverarsi nell’applicazione piena di tutti i diritti costituzionali, immaginando e realizzando una società diversa da quella che il neoliberismo cerca di imporre.

Per queste battaglie noi siamo disponibili al confronto e alla convergenza con tutti i soggetti sociali interessati, e proponiamo occasioni di incontro prima e dopo la manifestazione del 12 ottobre.

ASSOCIAZIONE ENERGIAFELICE

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La transizione energetica fa bene al PIL

da qualenergia.it – 1 ottobre 2013

Solo considerando gli effetti dello sviluppo delle energie rinnovabili, settore passato dai 160mila addetti del 2004 ai 380mila del 2012, la Energiewende, la transizione energetica verso le energie pulite in atto in Germania, ha già prodotto un aumento del Pil di oltre 2 punti percentuali rispetto ad uno scenario business as usual mentre al 2020 il contributo sarà di quasi il 3%.

Questo processo richiede enormi e costanti investimenti, ma già da ora sta avendo un ottimo impatto dal punto di vista macroeconomico, con, come detto, un aumento del Pil, dell’occupazione e delle esportazioni, oltre ovviamente a un contributo alla riduzione dell’inquinamento e delle emissioni di gas serra. A ribadire il concetto arrivano dati interessanti (vedi allegato in basso) dal DIW, l’Istituto tedesco per la ricerca economica, che li ha in parte elaborati da quelli del ministero per l’Ambiente.

Come sappiamo, la Energiewende, decisa nel 2010 e che ha subito un’accelerazione con l’abbandono del nucleare nel 2011, ha come obiettivo 2020 di raggiungere il 18% di rinnovabili sui consumi finali lordi (nel 2010 la quota era dell’11%) e il 35% sui consumi elettrici (nel 2012 eravamo al 23%). Inoltre, prevede di dimezzare i consumi di energia rispetto ai livelli del 2008 entro il 2050 e, per quel che riguarda il fabbisogno energetico del patrimonio edilizio, tagliarlo del 20% entro il 2020 e dell’80% entro il 2050.

Lo studio del DIW prova appunto a stimare l’ammontare degli investimenti necessari per raggiungere questi traguardi e gli impatti economici che si potranno avere sul sistema-paese. In totale serviranno investimenti tra i 31 e i 38 miliardi di euro l’anno da qui al 2020.

Solo per le rinnovabili si dovranno, infatti, investire dai 17 ai 19 miliardi di euro all’anno fino al 2020; una cifra considerevole anche se nettamente inferiore a quanto investito negli anni scorsi, come si vede nel grafico (clicca per ingrandire). La riduzione degli investimenti deriva soprattutto dal calo di quelli operati nel fotovoltaico, soprattutto per il deciso calo dei prezzi.

Altri 6 miliardi all’anno (vedi grafico sotto) dovranno essere spesi per le reti elettriche,sia per linee di trasmissione (circa 4 mld) che di distribuzione; tra 6 e 13 miliardi di euro dovranno essere investiti nella riqualificazione energetica degli edifici e un altro miliardo all’anno servirà ad integrare le rinnovabili nel sistema elettrico, ad esempio realizzando sistemi di accumulo, compensando le fonti fossili per la loro flessibilità aggiuntiva o sviluppando punti di ricarica per le auto elettriche.

Investimenti che come detto avranno importanti effetti positivi a livello macroeconomico. Per calcolarli al DIW hanno utilizzato un modello che mette a confronto uno scenario in cui vengano messi in campo gli interventi previsti dalla Energiewnde, con un ipotetico “scenario zero”, in cui si assume che dal 2000 gli investimenti in rinnovabili siano, appunto, pari a zero. Ne emerge che la Energiewende è valsa alla Germania un incremento del Pil nel 2010 pari al 2,1%  rispetto allo “scenario zero”; incremento che al 2020 sarà di 2,8 punti percentuali.

Lo stesso vale per la produttività pro capite: due punti percentuali in più nel 2010 e tre nel 2020. Per quel che riguarda l’occupazione, l’impatto è più ridotto al 2020 rispetto al 2010: le rinnovabili che, come detto, sono passate dai 160mila addetti del 2004 ai 380mila del 2012 (vedi grafico sotto), danno al 2010 circa 43mila posti in più e al 2020 circa 14mila in più. Tra gli impatti positivi da considerare, oltre ad un aumento delle esportazioni (1% al 2010 e 1,2% al 2020), la riduzione dell’import di combustibili fossili.

Dunque, la Energiewende fa bene al Pil tedesco e lo si può dire anche limitandosi a guardare l’effetto degli investimenti nelle sole tecnologie rinnovabili. Lo studio, infatti, purtroppo non approfondisce la questione dal lato efficienza energetica in edilizia, dove gli impatti economici potrebbero essere enormi se si pensa che nel 2011 l’edilizia in Germania ha avuto un fatturato di 166 miliardi di €, di cui 125 in interventi sull’esistente e 38 miliardi legati a interventi di efficientamento (con circa 7 miliardi direttamente imputabili alla riqualificazione energetica).

Da questo punto di vista dal DIW si limitano a un commento, senza fornire stime: “gli investimenti in efficienza in edilizia saranno compensati dal risparmio energetico e, quindi, dalla riduzione delle importazioni di fossili; i benefici riguardo all’export sono presumibilmente minori (rispetto alla voce rinnovabili, ndr), tuttavia gli effetti positivi globali sono maggiori grazie all’alta intensità occupazionale e all’impatto sul Pil domestico del settore”.

Lo studio DIW (pdf)

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Il referendum svizzero boccia il carbone della Repower in Calabria!

da Il Manifesto – 24 settembre 2013 – Eleonora Martini

Il destino dell’ambiente in quel lembo di terra che si affaccia sullo Stretto di Messina, nella punta estrema della Calabria, l’hanno deciso domenica scorsa i cittadini. Solo che a esprimersi tramite un referendum popolare e a decidere che no, la centrale a carbone progettata nel distretto industriale di Saline Joniche, frazione di Montebello, in provincia di Reggio Calabria, non s’ha da fare, sono stati i cittadini svizzeri. Grigionesi, per l’esattezza.

In quel cantone hanno discusso e si sono scontrati per anni anche aspramente e alla fine, domenica 22 settembre, in 50 mila hanno partecipato al voto, il 40,17% degli aventi diritto, e hanno scelto – con soli 124 voti di scarto – di rigettare il controprogetto del Gran Consiglio federale che tentava di salvare il piano del gruppo Repower (ex Rezia-energia), società a partecipazione cantonale leader nella produzione energetica, e di accettare invece l’iniziativa popolare cantonale «Sì all’energia pulita senza carbone» che non solo impedisce lo scempio di una megacentrale da 1320 Mw e da oltre un miliardo di euro di spesa su una delle preziose coste italiane ma impedisce anche da subito, con una riforma della Costituzione cantonale, ogni partecipazione dei Grigioni alla costruzione di centrali a carbone.

Nell’urna, i cittadini dei Grigioni hanno risposto a tre domande nelle quali si chiedeva di promuovere o bocciare le due proposte opposte, e nell’ultimo quesito, quello risolutivo, di scegliere tra le due. L’iniziativa del comitato ambientalista Pro Natura ha raccolto 700 voti in meno (28.878 sì) rispetto al progetto del governo federale (29.553 consensi) che intendeva salvare l’investimento della Repower (partecipata per il 58% dal cantone Grigioni) a Saline Joniche e in cambio affermava il divieto a investire in futuro «in centrali a carbone per le quali non vi è una riduzione sostanziale delle emissioni di CO2». Stranamente dunque è solo con l’ultima domanda referendaria che i grigionesi hanno scelto – con 24.650 voti contro 24.526 – di aderire all’iniziativa popolare e di bocciare il controprogetto del Gran Consiglio. Da noi un responso così avrebbe sollevato sicuramente una polemica infinita. E invece molto probabilmente la scelta del cantone influirà inesorabilmente anche sulle politiche ambientali future dell’intera confederazione elvetica. Anche se ieri sera la Repower ha fatto sapere che non intende «cambiare strategia» ma si appresta invece ad osservare «con attenzione il processo legislativo che seguirà» al voto. Perché, secondo la società grigionese, ai votanti è stata sottoposta una «proposta generica» che quindi non ha ripercussioni dirette nel «rispettivo articolo costituzionale».

A questo punto invece la società Repower, dopo aver abbandonato il progetto di una centrale a carbone a Brunsbüttel, in Germania, dovrebbe essere costretta a ritirarsi anche da Saline dove avrebbe investito il 58% dei costi (altri partecipanti sono le italiane Hera, per il 20%, e Aprisviluppo per il 7%, insieme alla statunitense Foster Wheeler che avrebbe finanziato il 15%). Al posto della società energetica svizzera però potrebbe subentrare anche l’Enel. D’altronde il progetto della centrale calabrese che dovrebbe sorgere nel sito dell’ex Liquichimica avrebbe ottenuto nel giugno 2012 dal governo Monti, secondo quanto riportato dal Consiglio federale elvetico, la compatibilità ambientale. Perché, come si legge nelle spiegazioni fornite a corredo della consultazione popolare di domenica scorsa, si tratterebbe secondo il loro punto di vista di un impianto «altamente moderno che soddisfa gli standard ambientali più elevati e riduce le emissioni di Co2 del 30% rispetto agli impianti tradizionali». Nelle intenzioni della Confederazione elvetica – dove la lobby ambientalista ha forte influenza – in ogni caso la società di gestione di Saline Joniche, nel rispetto delle norme europee, deve «acquisire corrispondenti certificati di emissione, finanziando così progetti per la riduzione del Co2 in misura equivalente», in modo da rendere la centrale calabrese «neutrale» dal punto di vista delle emissioni. Secondo il comitato di iniziativa popolare Pro Natura, invece, «una centrale a carbone come quella prevista in Calabria emette ogni anno sei volte più Co2 di tutte le economie domestiche nei Grigioni». Oltre al fatto che «il carbone per quella centrale va trasportato in Italia da oltremare»: «Un’assurdità economica ed ecologica», bollano il progetto i Verdi svizzeri. Tanto più perché, spiegano, «i pericolosi mutamenti climatici potrebbero essere evitati smantellando 550 centrali a carbone in tutto il mondo».

L’eco del referendum grigionese ha risuonato fino a 1.500 chilometri più a sud. Esultano anche gli ambientalisti italiani – Legambiente, Wwf e Greenpeace Italia – per il voto che «indica una scelta chiara e inequivocabile in direzione di una definitiva rinuncia a investimenti sulla fonte fossile più inquinante», e che «deve tradursi come primo atto nell’immediato ritiro del progetto di costruzione di una nuova centrale a carbone a Saline Ioniche, rifiutato nettamente da istituzioni e cittadini calabresi e, contrariamente a quanto affermato dai suoi sostenitori, ben lontano dall’essere autorizzato». Per Legambiente la presa di posizione della Repower rispetto al voto di domenica «è inaccettabile». Piuttosto la società «prenda atto della volontà popolare ritirando il progetto o riconvertendo l’investimento, puntando a Saline come in Svizzera sulle rinnovabili e sull’efficienza energetica».

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La centrale a carbone e il silenzio della politica

di Nicola Stella da Il Secolo XIX

Perché devono essere i consulenti di una procura della Repubblica a dirci se un impianto industriale è pericoloso?

Il caso della centrale a carbone di Vado Ligure assomiglia nel suo piccolo (sempre che mille morti presunti vi paiano pochi) a quello dell’Ilva di Taranto e a tanti altri in cui la magistratura svolge di fatto un ruolo di supplenza rispetto alla politica. Ministero dell’Ambiente, Regione Liguria e Provincia di Savona hanno avuto più occasioni per fare l’interesse dei cittadini, che è quello di avere quantomeno le stesse probabilità di ammalarsi di tumore ai polmoni della media degli italiani.

 

L’ultima solo due anni fa, quando Tirreno Power ottenne l’autorizzazione ad ampliare la centrale realizzando un nuovo gruppo elettrogeno – si suppone e si dichiara – di più moderna concezione e di assai minore impatto rispetto a quelli attualmente in funzione. Ma proprio i vecchi gruppi, che la stessa Tirreno Power dichiara più inquinanti di dieci volte (in fatto di polveri sottili) rispetto a quelli futuri, potranno continuare a funzionare ancora per otto anni. Sembrerebbe sensato che i signori (personalizziamo responsabilità che ovviamente sono più estese) Prestigiacomo, Burlando e Vaccarezza, di fronte a denunce di comitati, cittadini e ordini dei medici, avessero dato di loro impulso un incarico serio di verifica, anziché trovarsi oggi di fronte alle conclusioni di un pool di esperti nominato da un pubblico accusatore che di mestiere si occupa di accertare se un reato sia stato commesso.

In realtà i comuni di Vado e Quiliano, nella loro ristrettezza di risorse, un incarico lo avevano affidato, nel 2011, ma i dati sulla mortalità prodotti dal loro consulente si fermavano al 2004. I dati successivi chi li ha? E perché non sono pubblici?

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L’assedio delle trivelle ai nostri mari e le complicità del ministro Zanonato

Giulio Meneghello – qualenergia.it
06 settembre 2013

 

Parole, parole, parole: un bluff che lascia i mari italiani ostaggio dei petrolieri. Se si vanno a guardare i fatti, si potrebbero tranquillamente definire così le dichiarazioni del ministro dello Sviluppo Economico Flavio Zanonato sul decreto di riordino delle zone marine da poco firmato (allegato in basso).

In un comunicato uscito l’altro ieri, il ministro annunciava che con il nuovo decreto del 9 agosto si determina un “quasi dimezzamento delle aree complessivamente aperte alle attività offshore, che passano da 255 a 139mila chilometri quadrati, spostando le nuove attività verso aree lontane dalle coste e comunque già interessate da ricerche di Paesi confinanti, nel rispetto dei vincoli ambientali e di sicurezza italiani ed europei”. In particolare, il decreto, spiegano dal MiSE, determina la chiusura a nuove attività delle aree tirreniche e di quelle entro le 12 miglia da tutte le coste e dalle aree marine protette, con la contestuale residua apertura di un’area marina nel mare delle Baleari, contigua ad aree di ricerca spagnole e francesi.

Finalmente, dunque, un provvedimento che difende i nostri mari e, come recita la nota ministeriale, “coniuga sviluppo e ambiente”? Niente affatto: “Zanonato fa il furbo etace sulla riapertura per le trivellazioni che, comprese tra le 5 miglia e le 12, erano state vietate da Prestigiacomo e che furono riammesse da Passera. Lui parla solo del futuro, che non era in discussione”, commenta Francesco Ferrante, vicepresidente del Kyoto Club.

Per capire occorre fare un passo indietro. Nel 2010, all’indomani del disastro del Golfo del Messico, seguito all’esplosione della piattaforma Deepwater Horizon della BP, l’allora ministro dell’Ambiente Stafania Prestigiacomo, con il “correttivo ambientale” (decreto legislativo n.128 del 29 giugno 2010) aveva innalzato da 5 a 12 miglia marine(19 km) il limite entro il quale autorizzare prospezioni e ricerca di idrocarburi in prossimità di aree protette marine.
Uno sgarro ai petrolieri cui però si è prontamente rimediato: nel 2012 l’allora ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera con il cosiddetto decreto “Crescita” (Legge 22 giugno 2012, n. 83 convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, all’articolo 35) se da una parte ha confermato il limite delle 12 miglia, in quell’occasione esteso anche a tutte le coste, dall’altra ha condonato di fatto le richieste già in atto, specificando che dalle restrizioni sono fatti salvi i procedimenti concessori che erano in corso alla data di entrata in vigore del cosiddetto ‘correttivo ambientale’ del 2010.

Un condono che non viene minimamente scalfito dal nuovo decreto emanato da Zanonato il 9 agosto. Unica restrizione che il nuovo provvedimento aggiunge è la chiusura a nuove attività delle aree tirreniche. “Peccato che nessuno abbia mai pensato di andare a trivellare lì dato che di petrolio non ce n’è. Sarebbe come vietare di attingere acqua dal Sahara”, sottolinea ironico Ferrante.

“Le aree alle quali il decreto limita le ricerche sono quelle con maggiori prospettive, quelle che elimina sono invece quasi sempre state fuori dalle mire petrolifere”, gli fa eco Pietro Dommarco, autore del libro “Trivelle d’Italia”.

Risultato? Con il dimezzamento delle aree complessivamente aperte alle attività offshore e la conferma del limite delle 12 miglia sbandierate da Zanonato non cambia assolutamente nulla: i nostri mari continuano a essere assediati da chi li vorrebbe trivellare. Per rendersene conto basta confrontare la mappa con cui il ministero mostra le aree cui il nuovo decreto limita prospezioni e trivellazioni (a destra) con quella tratta dal dossier di Legambiente “Per un pugno di taniche”, nella quale si individuano le aree per le quali i petrolieri hanno manifestato interesse.

Al momento, mostra il dossier, ci sono 7 richieste per la coltivazione di nuovi giacimenti per un totale di 732 kmq individuati (ovvero dove le ricerche sono andate a buon fine), che andrebbero a sommarsi ai 1.786 kmq su cui già insistono le piattaforme attive; ci sono 14 i permessi di ricerca attivi per un totale di 6.371 kmq. Infine ci sono 32 richieste non ancora autorizzate per un totale di 15.574 kmq: in totale l’area di mare in cui si trivella o si vorrrebbe trivellare è di 24mila kmq, grande come la Sardegna. E’ in atto un vero assalto al mare italiano, in particolare all’Adriatico centro meridionale, allo Jonio e al Canale di Sicilia dove, oltre a quelle già attive, potrebbero presto sorgere decine di altre piattaforme. E il nuovo decreto emanato da Zanonato non farà nulla per fermarlo.

Tutto ciò come ricordano gli autori del dossier Legambiente “nonostante i numeri dimostrino l’assoluta insensatezza di continuare a puntare sul petrolio: il mare italiano, secondo le ultime stime del ministero dello Sviluppo economico, conserva come riserve certe, circa 10 milioni di tonnellate di greggio che, stando ai consumi attualidurerebbero in teoria per appena due mesi.

Così, alla trasformazione energetica che negli ultimi dieci anni ha portato ad una quasi completa uscita del petrolio dal settore elettrico, si risponde con un attacco senza precedenti alle risorse paesaggistiche e marine italiane, che favorirebbe soltanto l’interesse di pochi e sempre degli stessi: le compagnie petrolifere. Le realtà locali restano succubi di queste scelte scellerate: Regioni, Province e Comuni sono, infatti, ormai tagliate fuori dal tavolo decisionale. Il futuro, la bellezza, l’economia del nostro Paese viene svenduto ‘per un pugno di taniche’”.

Il decreto ministeriale del 9 agosto 2013

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