Secondo uno studio di Oxford, oltre a costare troppo, le grandi dighe rendono poco. È un’indagine certosina su 245 grandi dighe costruite tra il 1934 e il 2007 in 65 Paesi. E la conclusione è che è meglio concentrarsi su piccoli progetti
È difficile separare il concetto di keynesismo dall’immagine della Diga di Hoover, soprattutto nei manuali di politica economica. Del resto, la Hoover Dam, costruita negli anni Trenta sulle rive del Colorado, al confine tra l’Arizona e il Nevada, è il paradigma dell’opera pubblica ben fatta, che riesce nell’impresa di rilanciare l’economia e promuovere l’occupazione.
La diga è, nell’immaginario umano, il simbolo di una natura domata, un ulisside, un prodotto dell’ingegno e dell’astuzia, che piega il dato naturale verso il bisogno, ancor più di un ponte o di una galleria. È l’emblema del progresso, della tecnica che indirizza l’elemento primordiale, lo converte in energia, nel motore di uno sviluppo che si presuppone infinito. Non a caso, tutti i Paesi, o quasi, in una fase di boom, o di rilancio della propria economia, hanno costruito una diga. L’esempio (tragico) del Vajont è sotto gli occhi di tutti.
Questo fattore non è passato inosservato all’università di Oxford, i cui ricercatori hanno svolto un’indagine certosina su 245 grandi dighe costruite tra il 1934 e il 2007 in 65 Paesi. Il risultato? Quella di Hoover sembra essere un’eccezione. Nella stragrande maggioranza dei casi, costruire enormi dighe è antieconomico, provoca danni ambientali e trasferisce debiti onerosi sulle generazioni future.
La grande infrastruttura rooseveltiana è un’anomalia non solo perché raggiunse il proprio scopo, quello di fornire elettricità a basso costo agli Stati del Sud-ovest, durante la Grande Depressione, ma anche perché venne terminata due anni prima rispetto alle previsioni, con un costo inferiore di 15 milioni di dollari a quanto era stato stanziato. Secondo gli oxfordiani, invece, le dighe hanno superato mediamente il 97 per cento del loro budget iniziale, con il caso limite di Itaipù, al confine tra Brasile e Paraguay, che venne a pesare il 240 per cento in più del previsto. Anche i tempi di costruzione non sono mai stati in linea con i progetti iniziali (una media di 8,2 anni, 2,3 anni in più rispetto a quanto pianificato).
Eppure la corsa a costruire dighe non conosce sosta. Il leader del settore è la Cina (metà delle grandi infrastrutture di questo tipo si trova nel Celeste Impero e le compagnie di Pechino sono impegnate in più di 300 interventi, in 70 diversi Paesi). Il Brasile, dal canto suo, ha lanciato un enorme progetto a Belo Monte, il Pakistan a Diamer-Bhasha. Persino l’Etiopia ha avviato la costruzione della cosiddetta Gilgel Gibe III, 243 metri di altezza, sul fiume Omo (il cui appalto è stato vinto dall’italiana Salini).
La Banca Mondiale vede con favore le mega-infrastrutture idroelettriche, una posizione non condivisa dal Congresso americano, che ha chiesto all’amministrazione Obama di opporsi con forza all’interno delle istituzioni finanziarie internazionali. La ragione del costante interesse per le dighe non è misteriosa: si stima che tra il 2010 e il 2040 il consumo di energia crescerà del 56 per cento. Il nucleare viene messo in discussione (anche se in Asia il numero dei reattori tende a crescere), né si può vivere di solo petrolio, gas o carbone. Più del novanta per cento dell’energia prodotta da fonti rinnovabili viene dalla dighe. Media e politici discutono sempre di eolico, solare, geotermico, ma è l’idroelettrico a dominare ancora in questo campo.
Eppure, come sottolinea Bent Flyvbjerg, il ricercatore capo degli oxfordiani, l’impatto ambientale delle dighe non è del tutto neutro, sia per l’emissione di CO2, sia per la produzione di una grande quantità di metano. Per non parlare dei costi sociali, come il disagio, o meglio il trauma, causato ad interi villaggi, obbligati improvvisamente a trasferirsi, abbandonando tradizioni ed abitudini secolari. Il film cinese “Still Life”, vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 2006, descrive l’alienazione di una comunità costretta a cambiare vita a causa della costruzione della Diga delle Tre Gole, sul Fiume Azzurro.
Nel mirino degli oxfordiani ci sono i grandi progetti, veri e propri behemoth, i cui costi tendono inevitabilmente a crescere in corso d’opera. La già citata diga di Belo Monte – la cui costruzione è stata sospesa più volte per gli interventi della magistratura, a causa di ragioni ambientali – dai 14,4 miliardi di dollari di partenza dovrebbe passare a 27,4 miliardi, lasciando in rosso le casse statali, in un Paese che sta soffrendo proteste di massa per l’eccessivo aumento del costo della vita. I danni riguardano anche l’impatto sull’ecosistema. Si calcola che il grande progetto delle Tre Gole avrà un costo ambientale di 26,45 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni.
Prendere a prestito denaro, spesso in valuta straniera, per finanziare grandi progetti infrastrutturali di questo tipo è un azzardo, soprattutto per le economie ancora fragili, al primo stadio del loro sviluppo. La diga etiope, per fare un esempio, peserà sul budget statale per almeno 2,1 miliardi di dollari, senza contare le conseguenze sulla vita quotidiana degli abitanti della bassa Valle dell’Omo e sulle loro attività produttive, come la pesca. Meglio concentrarsi su piccoli progetti, scrivono ad Oxford, perché le dighe sono comunque necessarie, anche per irrigare i campi, fornire acqua potabile e gestire gli stessi sbalzi climatici, (permettono di accumulare riserve idriche, o di mitigare la piena dei fiumi in caso di forti piogge), oltre ad essere un ottimo volano per l’occupazione (il progetto di Belo Monte darà lavoro a 20.000 persone). Il discorso è valido soprattutto per i Paesi in via di sviluppo, dove si concentra la maggior parte degli investimenti futuri. Qui i capitali privati sono scarsi e tutti gli oneri si riversano sulle casse pubbliche. Fare il passo più lungo della gamba potrebbe essere una scelta esiziale.