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EUnergia

di Roberto Meregalli
La Commissione il 28 maggio ha pubblicato la propria strategia per la sicurezza energetica. Shale gas? Cattura e confinamento della CO2? Nucleare? Rinnovabili? Quale la soluzione?
“A mano a mano che l’energia è diventata parte vitale dell’economia europea e degli stili di vita moderni, è diventato naturale aspettarsi forniture energetiche sicure: accesso ininterrotto alle fonti di energia ad un prezzo accessibile.” Così inizia lo studio presentato dalla Commissione Europea a corredo della propria comunicazione relativa alla sicurezza energetica[1]. Ed è innegabile che “Ci aspettiamo di trovare la benzina alle pompe, gas per riscaldamento ed energia elettrica senza limiti”; senza alcuna consapevolezza di quanto sia complesso mantenere in piedi un sistema che risponda ad ogni nostra esigenza, di quanto sia onerosa la complessa infrastruttura che sta dietro alla presa di corrente di casa nostra o al distributore di benzina presso cui ci riforniamo.
La crisi Russia-Ukraina ha riacceso i riflettori, anche della stampa non specializzata, sul tema della sicurezza energetica e delladipendenza europea dai fossili oltreconfine e la Commissione, il 28 maggio, ha rilasciato la sua strategia. Buona o cattiva?

La strategia, partendo dalla sottolineatura del fatto che ogni giorno l’Unione spende più di un miliardo di euro per importare fossili, si pone giustamente l’obiettivo di “ridurre la dipendenza da particolari fonti, fornitori e vie di importazione”.
Nel concreto però non appare molto convincente.
Da un lato contiene indicazioni assolutamente condivisibili anche se poco concrete, come l’invito a moderare la domanda di energia, a sviluppare nuove tecnologie, a migliorare il coordinamento fra i diversi stati, a rafforzare meccanismi di solidarietà.
Ragionevoli sono le indicazioni a continuare l’integrazione dei mercati, a diversificare fonti e fornitori, ma manca di incisività sul punto focale: come aumentare le fonti locali?
Si invita allo sviluppo delle fonti fossili disponibili in Europa (Mare del Nord, Mediterraneo orientale e Mar Nero), anche se la stessa UE nei documenti correlati ammette che le riserve convenzionali di gas stimate sono pari a 1.412 Mtep, sufficienti per meno di 4 anni di consumi europei.
Si scrive che lo shale gas potrebbe parzialmente compensare il declino dei giacimenti convenzionali indicando che “è necessaria una accurata analisi delle riserve non convenzionali europee alfine di rendere possibile una produzione commerciale”, si promette “il lancio di una rete scientifica e tecnologica europea sull’estrazione non convenzionale di idrocarburi” ma per sole, vento, acqua, geotermia e biomasse, pur sottolineando che hanno fatto risparmiare almeno 30 miliardi di euro l’anno, la commissione si limita a raccomandare di “continuare lo sviluppo delle fonti rinnovabili per raggiungere il target al 2020 nell’ambito di un approccio orientato al mercato”, segnalando i problemi legati ai costi e al loro impatto sui fatidici mercati, poiché è innegabile come il “Davide fotovoltaico” abbia messo all’angolo il gigante delle utility.
Eppure potenzialmente sono queste le fonti che possono renderci davvero più indipendenti e darci maggiore sicurezza; sono le rinnovabili ad essere raddoppiate nell’ultima decade e riguardano elettricità e riscaldamento. Nel settore elettrico, l’unico con statistiche precise, nel 2012 sono stati prodotti 799 miliardi di chilowattora (TWh), il 13% in più in un solo anno, pari al 24% di tutta l’elettricità prodotta in Europa.
Nella comunicazione occupa spazio la cattura ed il sequestro del carbonio (CCS), tecnologia che permetterebbe di continuare a bruciare carbone, nonostante negli ultimi anni non risultino passi avanti in questa direzione. La commissione sottolinea invece “la necessità di ulteriori sforzi in ricerca, sviluppo e applicazioni” per beneficiare di questa tecnologia. Non manca la parte dedicata all’elettricità prodotta dal nucleare che “costituisce una attendibile fonte di elettricità di base libera da emissioni, che gioca un ruolo chiave nella sicurezza energetica”, la raccomandazione della commissione è di non affidarsi ad imprese russe per la fornitura del combustibile dei reattori. Un messaggio diretto, fra le altre, all’Enel che per i suoi reattori in Slovacchia si rifornisce proprio dalla russa Tvel.

Quale soluzione allora?
La situazione europea è realmente una condizione di dipendenza energetica e siccome la dipendenza energetica significa anche dipendenza politica ed economica, urge una soluzione che deve avere un orizzonte temporale adeguato.
Se nel campo della riduzione dei consumi domestici (elettricità e riscaldamento) le recenti direttive hanno posto obiettivi rilevanti, nei trasporti va focalizzata l’attenzione perché la gran parte del petrolio ci serve per muoverci e quindi la mobilità va ridisegnata.
Relativamente al capitolo gas, questa fonte serve a produrre elettricità e calore, nell’elettrico le rinnovabili sono già disponibili, per il riscaldamento e per cucinare si può spostare sull’elettrico, attraverso cucine a induzione e pompe di calore, parte dei consumi, aumentando così la domanda elettrica con buona pace di chi è preoccupato dell’impatto delle rinnovabili sui mercati esistenti.
Le aspettative verso la CCS e lo shale gas sono roba vecchia, nel senso che rappresentano il tentativo di non cambiare nulla fidando di soluzioni sperimentate. Ma al momento la prima è una tecnologia costosa che non mostra apprendimenti (ricorda molto il nucleare!), per lo shale gas il discorso è più complesso. Gli annunci di Obama dopo la crisi Ukraina-Russia hanno fatto balenare la facile soluzione di una sostituzione del gas russo con quello statunitense, ovviamente non via tubo, ma via nave sottoforma di gas liquefatto.
Ma non sarà così. A parte il fatto che il primo impianto di liquefazione USA sarà pronto entro il 2017 e quindi bisognerà aspettare il 2020 per ipotizzare l’arrivo di quantità decenti in Europa (il primo contratto è stato firmato da Enel con Cheniere Energy per rifornire le centrali spagnole), non è neppure detto che questo accada. Il perché è presto detto.
Lo shale gas e lo shale oil hanno rivoluzionato il quadro energetico statunitense ponendolo di fronte ad un cambio radicale di strategia geoenergetica: da import oriented ad export oriented. Importare si inquadrava in una strategia di controllo in alcuni paesi e di spinta verso le proprie multinazionale ad entrare in alcuni mercati regionali. I dollari servivano in Venezuela, Messico, Arabia, Angola e Nigeria, diventare ora un esportatore significa influire sull’economia e le relazioni con tutti questi paesi.
Inoltre lo shale gas ha abbassato i prezzi all’interno degli USA a valori che hanno permesso una sorta di rinascita industriale. Tutti sanno che quanto più si esporta gas, tanto più il prezzo sul mercato domestico si allinea a quello internazionale, il che annullerebbe il vantaggio per l’industria americana, quindi gli USA esporteranno gas ma sulle quantità non c’è certezza.
Queste riflessioni servono a mettere in guardia dall’illusione di facili soluzioni, quella vera che può garantire all’Europa di non dover dipendere da Russia o Stati Uniti è di sviluppare tecnologie in grado di consumare meno e di sviluppare le proprie risorse rinnovabili. Anche perché, tornando allo shale gas, quello che è accaduto in America in Europa non accadrà, a differenza dei giacimenti convenzionali lo shale gas è fatto di un una miriade di pozzetti che hanno un picco di produzione nelle prime 4/5 settimane e poi si esauriscono in uno/due anni, per cui il numero di pozzetti da scavare aumenta in maniera esponenziale, in una logica per cui il terreno diventa un groviera (ignoriamo qui le conseguenze sull’ambiente).
Questo negli USA è successo perché ci sono tante piccole imprese dotate della necessaria tecnologia, bassa densità abitativa e i diritti minerari sono privati (quello che sta sotto casa mia è mio). Tutte condizioni che in Europa non ci sono, per cui pensare di sfruttare lo shale gas in Europa emulando l’America è velleitario.
La comunicazione della Commissione si conclude con una frase che ha la sensazione di avere un ruolo cosmetico ma che invece deve essere centrale: la sicurezza energetica è inseparabile dagli obiettivi per il 2030 sul clima.
Clima, sicurezza ed ambiente devono essere i riferimenti nel disegno di un nuovo sistema energetico, non il mercato. O facciamo questa scelta o l’economia anziché strumento per vivere (meglio) si confermerà strumento di schiavitù per la maggior parte di noi. Al nuovo Parlamento Europeo tocca questa entusiasmante sfida.
Il testo completo di questa analisi con una premessa sulla situazione energetica europea è disponibile quì

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[1] http://ec.europa.eu/energy/doc/20140528_energy_security_communication.pdf

 

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Giornata mondiale dell’ambiente 2014, una bella notizia da Obama

di Mario Agostinelli

Questo blog spesso trasmette giustificate preoccupazioni e allarmi che riguardano le popolazioni e altrettanto frequentemente precisa il contesto in cui trovano ragione le accuse dirette a chi governa sconsideratamente il nostro pianeta. Mi sembra però opportuno, nella Giornata Mondiale dell’Ambiente, sottolineare una notizia positiva, che è frutto di un mutamento profondo nell’opinione pubblica mondiale, a cui non si può sottrarre nemmeno chi ha la massima responsabilità nel degrado ambientale. La buona notizia riguarda i nuovi sforzi annunciati da parte degli Stati Unitiper ridurre le proprie emissioni di anidride carbonica. Lunedì 28 maggio, la US Environmental Protection Agency (EPA) ha annunciato un piano per tagliare entro il 2030 le emissioni di carbonio delle centrali elettriche del 30% rispetto ai livelli del 2005.

Forse è l’azione più forte mai adottata per combattere il cambiamento climatico da parte del governo degli Stati Uniti, prima avversari del protocollo di Kyoto e poi protagonisti nel rendere inconcludenti gli incontri internazionali sugli effetti dei gas climalteranti.

Essendo il presidente del più grande emettitore storico di anidride carbonica, Obama chiama il Giappone, il Canada, l’Australia e, su piani diversi, la Cina e l’India ad un investimento politico sulla salvaguardia dell’ambiente. Come è già successo, il presidente Usa potrebbe non dar seguito ad annunci e visioni su cui incontra forti opposizioni e, quindi, deludere le aspettative create in molte parti del mondo. L’industria del carbone e i suoi sostenitori nel partito repubblicano cercheranno di bloccare l’Epa, ma sembra che i negazionisti non abbiano ormai più il vento a favore, nemmeno tra i grandi finanziatori della Banca Mondiale né tra gli opinionisti dei grandi giornali. (v. articoli su New York Times del 2 giugno).

Nel prendere una forte posizione pubblica sulle emissioni, gli Stati Uniti stanno inviando ai settori manifatturieri e energetici un segnale forte che il paese si sta allontanando dal carbone e abbracciando l’efficienza energetica e le energie rinnovabili. La stessa questione dello shale gas va inquadrata in una fase in forte movimento, in cui transizione e strategia a lungo termine si stanno continuamente ridefinendo, con risparmio, vento e sole sostitutivi nell’offerta elettrica e con un crescente decremento del ricorso complessivo alle fonti fossili.

La Cina ha recentemente aumentato il suo obiettivo per le energie rinnovabili e ha vietato le nuove centrali a carbone in molte regioni urbane. Appena due settimane fa, il Messico ha aumentato il suo ambizioso obiettivo di energia rinnovabile dal 15 al 25 per cento entro il 2018.

Anche l’Unione Europea, che ha già quasi raggiunto il suo obbiettivo per il 2020, dovrà fare di più, anche in occasione del nuovo trattato globale sul clima, che si discuterà a Parigi nel 2015.

Purtroppo gli scienziati avvertono che le emissioni di carbonio devono avere il loro picco prima del 2020, per avere una ragionevole speranza di rimanere al di sotto dei 2°C di riscaldamento globale.

Intanto, la notizia che in Italia ci si avvia nei mesi estivi a produrre probabilmente altrettanta o più energia elettrica da fonti naturali che da fossili (alla potenza massima erogata nel giorno di punta del mese di aprile, secondo Terna, le energie rinnovabili – eolico fotovoltaico idroelettrico – hanno contribuito per il 49,1%, superando la quota fossile ferma al 39,2%), assume un significato straordinario, in quanto viene dimostrato che, nonostante una politica erratica e controversa da parte degli ultimi governi, i cittadini coscientemente tendono a sistemi decentrati e locali di approvvigionamento.

In questo quadro stupisce la posizione del nostro ministro dello sviluppo Federica Guidi cheripropone una strategia favorevole alla ripresa dei fossili. In materia di politica energetica, poi, colpisce l’assenza totale di qualsiasi riferimento “rivoluzionario” da parte del premier Matteo Renzi. In effetti, anche per l’energia e l’ambiente, il cambiamento – quello vero, frutto di conflitto democratico e di partecipazione –  non si porta avanti appoggiandosi alle antichissime lobby che ci hanno portato al disastro, ma disegnando insieme un futuro di giustizia sociale e – perché no – climatica, riconsegnato a un mondo in cui le persone e i movimenti reali che stanno nella società non sopportano più di fare solo da spettatori.

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IL CLIMA DELL’EUROPA: RINNOVABILI SENZA IL NUCLEARE

di Mario Agostinelli e Alfonso Navarra

A Brescia l’8 Maggio si è svolto un interessante incontro pubblico, per evidenziare  come “Un’Altra Europa con Tsipras” intenda dar corpo ad una diversa politica energetica per l’Europa. In questa fase della campagna elettorale sembra impraticabile riconquistare il merito della discussione, dato che l’azione irresponsabile e gregaria dei media ha allestito una partita finta tra chi nei fatti manterrà l’UE così come è (o non è!) e chi l’Europa non la vuole affatto, accantonando così ogni ipotesi di costruzione del cambiamento. Per la verità, attraverso la lente dell’energia interpretata come bene comune si potrebbero traguardare molte delle delusioni di un modello europeo consegnato al mercato, alla espansione della Nato, alla rinuncia della salvaguardia del pianeta. A Brescia abbiamo provato a ragionare con realismo e con quel tanto di utopia concreta che la situazione drammatica oggi richiede.  Quando parliamo di un programma energetico per l’Europa lo facciamo battendo i pugni sul tavolo, ma pensandoci “europei”, non italiani. L’Europa per noi è innanzitutto una comunità politica che deve offrire una opportunità alla pace globale: non a caso prende avvio in seguito al ripudio di una storia secolare di guerre sul proprio territorio – perfino la primitiva Comunità del Carbone e dell’Acciaio e i 5 centri di ricerca Euratom per il nucleare nascevano per superare in una dimensione pubblica continentale l’eventualità di nuove contese per il controllo delle risorse strategiche – e deve ora caratterizzarsi, meritando il Nobel ricevuto nel 2012, per un impegno coerente alla promozione della pace, anche all’esterno di essa.

Per questo il confronto di Brescia è partito dalla valenza strategica e geopolitica dell’energia come fattore di cooperazione. Sappiamo bene che il modello fossile e nucleare è collegato alla guerra, mentre al contrario il modello rinnovabile è connesso ad una società solidale e governata democraticamente.

Le donne e gli uomini in carne ed ossa non sono astratte monadi in interazione (e competizione) ma singolarità concrete, frutto di “campi sociali” che vivono in prossimità ristrette e allargate (il villaggio globale), inserite nella base dei rapporti di produzione e dei cicli ecosistemici, anche essi locali e globali.

L’energia perciò è risposta a bisogni umani, allo sviluppo sociale e a esigenze naturali, non equazione per l’equilibrio di sistemi economici: non è per noi questione solo di “efficienza termodinamica” o di “economicità dei costi” o di “emissioni climalteranti” o di “indipendenza geopolitica”. E’ tutte queste cose, ma messe insieme per realizzare, allo stesso tempo ed allo stesso modo: 1) pace e sicurezza; 2) tutela e valorizzazione dei beni comuni e pubblici; 3) occupazione, reddito, lavoro dignitoso e giustizia sociale; 4) potenziamento e diritti delle persone, partecipazione e democrazia locale ed internazionale.

Esiste, in sostanza, un conflitto radicale tra l’energia intesa come prodotto di proprietà di una combinazione tra Stati, imprese multinazionali, strutture militari e, invece, il diritto all’energia dei cittadini, gestito come bene comune.

Queste premesse possono sembrare metodologiche, ma servono a chiarire le discriminanti che, in campo energetico, ma non solo, contrassegnano la nostra visione di “Un’Altra Europa” come alternativa alla UE presente.

Questa UE considera – lo dicono i documenti ufficiali NATO – l’energia un “interesse vitale strategico” e per garantire quantità e qualità dei flussi di approvvigionamento energetico è predisposta perfino a fare la guerra nell’ambito del “blocco occidentale” a leadership americana. La crisi ucraina sta dettando i termini di una svolta: la dipendenza da petrolio e gas russo (ed anche nordafricano) deve essere sostituita, dalla fornitura di shale gas americano, per la quale va messa a punto l’infrastruttura adeguata. Il nucleare, in questo contesto, non va ridimensionato, ma conservato e addirittura foraggiato con specifici incentivi e lo attesta l’impegno che Francia, Inghilterra e Polonia rilanciano attraverso i loro accordi in ambito industriale e militare. Altro che il 100% di rinnovabili auspicato dall’europeissimo Hermann Sheer!

L’altra Europa, nella transizione ad un nuovo modello energetico, non può rinunciare a lavorare tutti insieme, europei, americani, russi, cinesi, arabi e quanti altri, “comune umanità”, alla conversione energetica che ci eviterà la catastrofe climatica: l’ultimo rapporto dell’IPCC ci fa intuire che, se salta il tetto dei 2° C di aumento della temperatura, i costi della “riparazione” supereranno quelli di qualsiasi programma di prevenzione e adattamento. In altri termini, l’abbandono dei fossili, il decentramento energetico e la riduzione dei consumi costituiscono il nerbo di una politica economica che affronti la crisi con la rivalorizzazione del lavoro, senza ripararsi dietro l’imbroglio del fiscal compact avallato dai governi delle larghe intese. Il nuovo modello rinnovabile, distribuito sul territorio e nel quale si fa un uso efficiente ed intelligente dell’energia è la base della “rivoluzione” anche culturale che può impegnare in autonomia le menti e le braccia delle nuove generazioni.

Nello spirito dei referendum che hanno vinto in Italia nel 2011, ed il cui significato ha da essere esteso a livello europeo, abbiamo bisogno di una infrastruttura pubblica e di una politica su scala continentale, di eccellenti aziende nazionali e di municipalizzate pubbliche, orientate alla partecipazione e sciolte dai vincoli di borsa e dalle strategie imposte dalle corporation della vecchia economia.

Questa UE vuole invece un mercato unico, dominato da pochissimi grandi player privati. L’altra Europa farà il contrario: darà ascolto all’opinione pubblica che, per quanto manipolata, resta tuttavia favorevole ad una gestione dell’energia come “bene comune”, risorsa prevalentemente territoriale, governata democraticamente, estranea al sistema militare di offesa, rispondente ad obiettivi climatici non più procrastinabili. Si può, si deve.

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NUCLEARE: UNA PATATA BOLLENTE PER L’EUROPA

di Mario Agostinelli

Dopo il rigetto del nucleare al referendum del 2011, i nostri politici hanno preferito stendere una cortina di silenzio sulla vicenda e non prendere alcuna iniziativa verso quegli stati europei confinanti che dovrebbero garantire la sicurezza dei loro reattori. Anzi, l’Enel è stata invogliata a acquisire partecipazioni nel nucleare fuori confine, i trasporti all’estero di materiale radioattivo sono avvenuti di nascosto e – caso clamoroso! – per un EXPO sotto l’insegna di “energia per la vita” si sono versate tangenti alla Sogin, che tratta non senza ombre le scorie più esiziali ( v.  http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/05/13/expo-sogin-e-le-tentazioni-del-nucleare/983161/ ).

In occasione delle europee del 25 Maggio nessuna lista, a parte Tsipras e Verdi, fa il minimo cenno ad un’Europa senza nucleare, sia militare che civile. Eppure il problema ha una assoluta priorità e richiederà enormi sforzi, anche finanziari, che peseranno sui bilanci dell’Europa.

Ne tratta con un lungo articolo la prestigiosa rivista Business Monitor International

(http://bmo.businessmonitor.com/cgi-bin/request.pl?SessionID=9148887EDF8C11E3808424077B297F78&iso=DE&service=-1), che esamina gli enormi problemi che conseguono alla decisione del governo tedesco di chiudere definitivamente i reattori entro il 2022.

Per farlo, occorre infatti affrontare la questione controversa ed estremamente onerosa della dismissione delle centrali: per assorbirne i costi le grandi aziende elettriche della Germania hanno addirittura proposto di istituire una “bad bank” con un fondo fisso, riversando ogni extra o imprevisto sulle tariffe.

Il governo tedesco è certo criticabile per il temporaneo aumento di quote di carbone nel suo mix elettrico, ma, evidentemente, ritiene decisivo l’abbandono graduale dell’energia nucleare, con la totale sostituzione sia di atomo sia di carbone con le fonti rinnovabili, in base al programma  Energiewende ( transizione all’energia pulita  http://en.wikipedia.org/wiki/Energy_transition_in_Germany ).

Per evitare di accollarsi i costi delle dismissioni forzate, stimati in 60 miliardi di euro, le aziende elettriche suggeriscono che il governo e – per estensione – il contribuente, debbano assumersi l’onere tramite la creazione di una “bad bank per l’energia nucleare”. In sostanza, il costo del decommissioning ricadrebbe sul contribuente, mentre le utility tedesche, E.ON , RWE , EnBW e la svedese Vattenfall pagherebbero circa 30 miliardi di euro attraverso il fondo di riserve già accantonate per legge per coprire i costi di disattivazione (e già versati attraverso le tariffe in corso e i sussidi governativi usati per introdurre il nucleare in Germania e poi trasferite per l’espansione delle rinnovabili) . Il governo tedesco naturalmente rifiuta la proposta, perché teme che, accettandola, sarebbe come assumere un progetto di opere pubbliche che potrebbe esplodere in termini di costi imprevedibili.

Il governo tedesco tiene duro perché ha potuto fermare e programmare di rimuovere le centrali nucleari dalla rete più rapidamente del previsto in seguito alla creazione di potenza rinnovabile decentrata e nuove reti intelligenti. Nell’ambito della politica Energiewende, una quantità senza precedenti di capacità rinnovabile ha accesso prioritario alla rete elettrica e questo irrita le grandi aziende con impianti termici e nucleari, mentre favorisce le municipalizzate che si occupano sempre più di sistemi territoriali, rinunciando ad andare in borsa, al contrario delle nostre senza strategia.

Insomma, la Germania fa politica energetica e ne parla, aprendo uno scontro con la lobby energetica europea. Il governo e i chiacchieroni di casa nostra, che si contendono gli elettori a suon di sberle, sono invece incredibilmente silenziosi al riguardo. In compenso, gira la voce che ridurranno il ristorno degli incentivi pattuiti sugli impianti rinnovabili già in funzione, con il risultato di bloccare ancora una volta un settore qualificato e con grandi potenzialità e di fare l’ennesimo favore a quell’intreccio di affari e politica che è sotto gli occhi del mondo.

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Per la transizione energetica, verso la decarbonizzazione, quali politiche in Europa?

Mentre siamo agli ultimi giorni di campagna elettorale per le elezioni europee è uscito un prezioso libro   http://www.edizioniambiente.it/libri/1038/un-altra-europa/ a cura di Silvia Zamboni (di cui il contributo di Gianni Silvestrini  http://www.qualenergia.it/articoli/20140516-l%E2%80%99europa-alla-guida-della-transizione-energetica-della-decarbonizzazione ) e invece continua la pressocchè totale assenza, dal dibattito politico e dai programmi elettorali, di questi temi.

Tra le poche iniziative in merito, un convegno “Il clima dell’Europa senza nucleare”, svolto a Brescia l’8 maggio, promosso  dalla lista “L’Altra Europa con Tsipras”, che ci ha chiesto un contributo di merito http://youtu.be/fG9TOBfwlgM .

A proposito di politiche negative sulle questioni energetiche, il servizio di Report sullo shale gas del 12 maggio  http://www.cinetvmania.it/2014/05/12/report-anticipazioni-e-streaming-rai3-lunedi-12-maggio-2014/  ha riproposto l’inquietante questione dell’estrazione di gas con la pratica del fracking, ossia la frantumazione del sottosuolo attraverso l’immissione a pressione di acqua e solventi chimici, ed inoltre delle possibili relazioni tra attività di estrazione del gas e di esplorazione per idrocarburi ed aumento dell’attività sismica.

Su quest’ultima vicenda, in relazione al terremoto in Emilia-Romagna del mese di maggio 2012, era stata istituita, dalla Protezione Civile su richiesta del Presidente della Regione, la Commissione ICHESE, il cui rapporto finale  http://ambiente.regione.emilia-romagna.it/geologia/notizie/primo-piano/commissione-ichese-on-line-il-rapporto-integrale  è stato reso pubblico dal Presidente Errani solo dopo che un giornalista  di Science aveva denunciato “pressioni per non pubblicare il rapporto”.

Come si può vedere dalle conclusioni, non si esclude la possibile relazione tra trivellazioni e sisma del 2012, anche se si specifica che da sole “le attività non possono averlo provocato”. Dopo la pubblicazione del rapporto il Presidente Errani si è scusato per il ritardo e la Regione Emilia-Romagna ha sospeso ogni nuova autorizzazione alla ricerca di idrocarburi, ma restano in vigore i permessi già concessi.

Noi pensiamo che per un principio di precauzione in Italia e in Europa, non solo vada esclusa qualsiasi ricerca sullo shale gas, ma che intanto in Italia andrebbe fatta una moratoria, sulle trivellazioni e i depositi sotterranei di stoccaggio.

Questa è una proposta sulla quale intendiamo aprire un confronto con tutte le Associazioni ambientaliste, i movimenti, i tanti comitati contro le trivellazioni e i depositi che sono sorti nel nostro paese.

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