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Petrolio a gogo’ e lavoro usa e getta

di Mario Agostinelli

C’è una relazione tra un presunto ritorno del petrolio ai fasti economici di inizio ’900 e la riduzione dei lavoratori a pura merce? Credo di sì, almeno nella testa di chiunque trasforma in valore economico ogni relazione e per profitto degrada natura e lavoro. Quanto sia illusoria questa pretesa di ritorno a duecento anni fa’, lo dimostra la “guerra del prezzo del petrolio” che agita i mercati con le sue mille inquietanti contraddizioni.

Come ho già evidenziato nei post più recenti, gli attuali prezzi del petrolio sono imposti dai cartelli e dagli interessi geopolitici del momento, anche se costituiscono una tendenza non sostenibile a lungo termine, con una perdita di orientamento delle politiche energetiche, climatiche, industriali e per l’occupazione a livello mondiale. La volatilità che ne proviene è tale che la presunta vittoria degli Stati Uniti nel campo dei fossili con il ricorso alla produzione shale è stata in poche settimane messa in dubbio dall’azione dei Sauditi, disposti a buttare fino a 25 miliardi di $ l’anno (http://www.eia.gov/forecasts/steo/) pur di tener botta sul mercato con un prezzo artificialmente basso, ancor più spinto di quello delle produzioni da scisto.

Giochiamo su un precipizio di cui non percepiamo la profondità, sprecando risorse finanziarie e naturali, con ferite all’ambiente e un accanimento miope verso il lavoro e la povertà, al punto da tradire ancora una volta gli appuntamenti sul clima e di fare della ripresa una fiammata che non crea occupazione, ma ulteriori disuguaglianze, profitti e speculazione finanziaria.

Se il petrolio rimane a 60 dollari, l’economia della Russia si contrarrà di circa il 4% nel 2015. Ma, nella guerra fredda che si è riaperta, Bloomberg New Energy Finance (http://about.bnef.com/) del 5 Gennaio ammonisce che la crisi del petrolio americano è alle porte. La Continental Resources Inc perde 4,6 miliardi di dollari nel 2015, avendo previsto un prezzo di 80 €. Halliburton Co., il più grande fornitore al mondo di servizi di fracking alle compagnie petrolifere, ha annunciato il licenziamento di 1.000 lavoratori.  Il petrolio di West Texas Intermediate, che aveva raggiunto un picco di107,7 $ nel mese di giugno, è sceso a 52 dollari il 2 gennaio e ben 37 dei 38 giacimenti di scisto americani l’hanno seguito nella caduta. Michael Feroli, capo economista americano presso JPMorgan scrive (http://www.bloomberg.com/news/2015-01-05/oil-below-60-tests-u-s-drive-for-energy-independence.html) che la crisi potrebbe spingere l’intero Texas in una “recessione regionale dolorosa”.

Anche per il carbone si addensano nubi: la Banca Mondiale rifiuta di finanziare nuovi progetti nel settore, mentre i conflitti europei non si limitano al gas: 66 delle 126 miniere di carbone ucraine non sono in attività a causa dei combattimenti a Donetsk e Luhansk (http://www.reuters.com/article/2014/12/12/ukraine-crisis-miners-idUSL6N0S83K120141212).

In questo scenario che non induce all’ottimismo, c’è, al contrario, la conferma di un andamento costantemente positivo del settore delle rinnovabili, cioè della possibilità di ricorrere ad energia pulita per sopravvivere alla caduta del prezzo del petrolio.  Da metà ottobre, mentre il greggio è sceso di quasi 30 dollari al barile, non ci sono stati cambiamenti nelle quotazioni dell’energia da fonti naturali, come misurato dal NEX (New Energy Global Innovation Index). E questo perché godono ormai di fatto di un sostegno politico e sociale generale – anche se contrastato nei media e disdegnato da Governi alla giornata come il nostro – che assicura stabilità oltre la tempesta.

Di fatto, le rinnovabili continuano a dar risultati promettenti nell’eolico offshore, dopo che hanno raggiunto competitività nei due settori principali (vento onshore e PV), con costi molto ridotti e una valutazione dei rischi da parte delle agenzie di credito all’esportazione che risultano inferiori a quelli per le opere di estrazione e trasporto dei fossili. Così, si sono aperti mercati all’estero per le imprese tedesche, danesi, coreane e statunitensi, sostenute dalle azioni dei loro governi, quando il nostro latita in balia di vergognosi stop and go, nocivi per gli utenti, le imprese, l’occupazione, l’ambiente.

Possibile che EXPO 2015 si sia ridotto solo al capitolo alimentazione, cancellando quel binomio energia-vita che era, assieme al cibo, nello slogan di presentazione al mondo della manifestazione? Certamente, in mancanza di una politica energetica nazionale che ci renda presenti con know-how, imprese e lavoro, oltre che sui mercati tradizionali (Europa, Cina e USA), anche su quelli in autentica esplosione, come le Filippine, l’Africa l’India e il Cile!

Eppure, nel 2014 l’energia “pulita” nel mondo è volata ancora in alto, superando le aspettative (v. Ansa del 9 Gen 2015), con una crescita del 16% – pari a 310 miliardi di $ in investimenti – con un balzo record in Cina (+32%) e con crescite assai maggiori rispetto ai settori tradizionali anche in USA (+8%), Giappone (+12%), Canada (+26%), India (+14%), mentre da noi gli investimenti sono calati del 60% rispetto al 2013.
E si capisce, se si riflette sul tipo di sviluppo pensato dal governo attuale: da una parte, aspettative miracolistiche per il calo del prezzo del petrolio, accompagnato dalle prospettiva di trivelle lungo le coste e di costruzione di condotte e rigassificatori per 45 miliardi; dall’altra, flessibilità e licenziabilità per i nuovi assunti e meno diritti e welfare per chi al lavoro c’è già. Se si ritiene che la “rivoluzione” stia nel Job Act e nella “riforma Fornero”, perché scervellarsi a ragionare anche sull’energia che il sole invia quotidianamente sul suolo del bel Paese?

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Chi influenza il prezzo del petrolio?

di Roberto Meregalli

Il petrolio non è una commodity particolare, è la numero uno perché il mondo in cui viviamo è scaturito dal suo sfruttamento; una società ed una economia si sviluppano sopra ad una piattaforma energetica ed il capitalismo moderno poggia sul petrolio.

Uno degli eventi più rilevanti del 2014 è stata la caduta del suo valore avvenuta nel secondo semestre. Più che il termine caduta andrebbe utilizzato quello di “crollo”, poiché dal valore di 116,7 dollari al barile di giugno 2014 si è passati al valore di 58 dollari l’ultimo giorno dell’anno. Nei primi giorni del 2015 la discesa non si è arrestata sfondando la soglia dei 50 dollari.

Perché questo crollo? All’inizio tutti avevano dato la colpa all’Arabia Saudita, responsabile (a fine ottobre), di un abbassamento dei listini di vendita in nordamerica, ma non di quelli asiatici, con lo scopo di colpire i produttori statunitensi, quantomeno questa era la tesi dell’accusa. Perché gli USA? Perché negli ultimi anni negli Stati Uniti si è verificata una vera e propria rivoluzione in campo energetico con un boom nelle tecniche estrattive non convenzionali (alternative al classico giacimento a pozzo) sia per estrarre petrolio che gas (ossia shale gas e shale oil). E’  stato nel corso del 2013 che è apparso evidente un cambiamento strutturale nel mercato petrolifero: a giugno gli Stati Uniti avevano esportato 7,3 milioni di barili al giorno, ben 1,2 milioni in più rispetto allo stesso mese del 2012, un incremento equivalente all’intera offerta di un paese come l’Algeria, superiore a quello di Equador e Qatar. Non si capisce bene per quale motivo, ma gli esperti del settore si attendevano una reazione dell’OPEC che non si è manifestata; Riad alla relativa conferenza di fine novembre, aveva fatto approvare la linea di fermezza: nessun taglio produttivo per sostenere il prezzo del greggio. Nelle settimane successive, altri scrissero che il gioco in realtà era combinato e che il vero obiettivo del ribasso era la Russia di Putin che certamente ha subito e sta subendo un danno economico pesantissimo, come testimonia la caduta del rublo e l’aumento dei tassi di interesse sui titoli di stato.

Ma qual è il vero motivo del crollo? Il prezzo del petrolio è influenzato da molti fattori ma alla base permane l’iterazione fra domanda ed offerta e i dati mettono in chiaro una cosa: l’offerta è cresciuta più della domanda e oltretutto la domanda appare debole per una situazione economica che non da indicazioni di un ritorno a stagioni di crescita come nel passato. Le stime sono negative e nel 2015  gli economisti scommettono solo sulla crescita dell’economia americana, l’Eurozona è ferma, il Giappone pure e la Cina sembra un treno sempre più in fase di decelerazione (queste anche le previsioni del famoso economista Roudini).

Nel 2014 la domanda petrolifera è aumentata di un esiguo 0,7% toccando 91,15 milioni di barili al giorno (fonte OPEC); sempre di un aumento si tratta certo, ma del più basso da cinque anni a questa parte e gli ultimi cinque anni non sono stati di vacche grasse! Per i paesi OCSE la parola da usare è diminuzione perché la domanda è calata dello 0,9%. I prezzi bassi per i prodotti energetici sono un fatto positivo ma non se lo sono per effetto di una crisi economica e questo spiega perché il crollo del petrolio non ha dato entusiasmo alle borse, anzi le ha depresse.

L’offerta è invece aumentata del 2%, un valore maggiore dell’aumento medio degli ultimi cinque anni ed è salito a 93,2 milioni di b/g. Sintetizzando con le parole di Maugeri, grande esperto del settore, “la capacità produttiva mondiale di petrolio è cresciuta troppo, mentre la domanda ha continuato a crescere troppo poco”[i][i].

Chi ha aumentato la produzione? Gli storici paesi OPEC? Per niente, la loro produzione è rimasta ferma. L’83% dell’aumento produttivo globale è da imputare ad un solo paese: gli Stati Uniti d’America. l’OPEC nel 2014 ha difeso la propria quota di mercato. L’Arabia Saudita sta banalmente affidando al libero mercato la fissazione del prezzo, come dire: c’è troppo petrolio? Che scenda il prezzo, così aumenteranno i consumi e ad uscire fuori mercato saranno i produttori più costosi! In perfetta coerenza con le leggi dell’economia di mercato che abbiamo esportato nel mondo.

Gli USA negli ultimi tre anni hanno aumentato la produzione di 3,6 milioni di barili/giorno riducendo drasticamente le importazioni, facendo cioè sparire l’equivalente di 100 superpetroliere al mese.

Chi sta soffrendo? Praticamente tutti i produttori che vedono tagliati i loro ricavi e si ritrovano a vendere sottocosto. Il prezzo del petrolio di un paese non dipende banalmente dal costo di estrazione, per la maggior parte dei “petro-paesi” questa commodity costituisce la fonte primaria di entrate e su tali stime vengono scritti i bilanci statali.

Se parliamo di costi di estrazione, in medio oriente siamo sotto i 40 dollari con pozzi di molto al di sotto di questo valore, altrove i costi aumentano e sotto i 50 dollari per la quasi totalità si tratta di sottocosto o al limite di costo senza margini nel caso dei giacimenti migliori. Fuori costo lo shale americano, per il quale si stimano 65 dollari al barile, e ancor più quello canadese estratto da sabbie bituminose.

Passando ai bilanci statali la musica cambia e nessun paese si salva, neppure il Qatar e l’Arabia Saudita, che si prevede possa accumulare un deficit nel 2015 di 50 miliardi, ma le riserve del paese sono talmente ingenti da poter garantire due/tre anni di inerzia. Riad ha fatto bene i propri calcoli comprendendo di essere il paese in grado di resistere più a lungo al ribasso. I più colpiti sono Iran (guarda caso storico nemico dell’Arabia), Venezuela, Algeria, Nigeria, Equador, Russia ed Iraq.

Chi sta sorridendo? Gli automobilisti, perché risparmiano denaro e quello che sta accadendo equivale ad una grande manovra di stimolo che oltretutto colpisce a tappeto, favorendo anche le classi sociali più basse, quelle che un aumento di stipendio se lo sognano e che sono sempre sfavorite nelle politiche fiscali. Anche in Italia sta accadendo, nonostante sui carburanti sia applicato un carico fiscale enorme che spiega perché un calo della materia prima del 50% non potrà mai tradursi in analogo sconto sul costo finale, poiché la materia prima nel 2013 valeva solo il 32% del prezzo finale del carburante.

Gli economisti valutano un aumento del Pil dello 0,6% per il nostro paese per effetto del calo-petrolio e la bolletta energetica nazionale, già scesa globalmente di 11 miliardi nel 2014[ii][ii], si stima calerà di altri 6/7 miliardi nell’anno corrente.

Tornando a guardare oltreconfine, quasi unanime è la convinzione che siano sempre gli USA a vincere ma non è così scontato poiché se da un lato carburanti a buon mercato (e in America lo sono più che altrove per le basse tassazioni) sono indubbiamente un forte stimolo all’aumento dei consumi interni e alla produzione industriale, d’altro canto è forte l’impatto negativo sulla nuova industria petrolifera e sono alti i rischi finanziari per la grande mole di investimenti nelle imprese dello shale oil che potrebbero andare in bancarotta.

Quanto durerà il calo? Ci sarà poi un rimbalzo o il prezzo si stabilizzerà su un nuovo valore?

A tutti piacerebbe saperlo! Per fermare la caduta occorrerebbe un aumento della domanda superiore all’esiguo valore previsto dall’Agenzia Internazionale (+0,9 milioni di barili al giorno). Oppure un drastico calo di offerta. Entrambe le soluzioni non hanno chance di materializzarsi in tempi rapidi, ma lasciato a se stesso il mercato sta colpendo il petrolio più costoso (e peggiore anche in termini di impatto ambientale) da estrarre. Col perdurare di questi prezzi le estrazioni di shale oil in nordamerica non potranno che diminuire, ma non accadrà a breve per la natura stessa di questo settore.

Quello che appare probabile è che più prosegue la discesa, minore sarà il periodo low-cost perché nel caso di crollo sotto i 40 dollari, i tagli agli investimenti saranno rilevanti ed il ridimensionamento della capacità produttiva più rapido.

Nel frattempo però sarà tempesta con molteplici effetti. Ne risentiranno i negoziati sul clima? Si sa che prezzi bassi per le fonti fossili spingono al consumo e non al risparmio (in Italia i consumi di carburante nel mese di dicembre 2014 sono aumentati del 4,2% rispetto allo stesso mese del 2013). Ci sarà instabilità nei paesi più colpiti dal calo petrolio? Certamente per Russia, Venezuela, Algeria e altri ci sono molti rischi. Effetti sulle rinnovabili? Qui meno di quanto si possa immaginare perché le rinnovabili sono ad uno stadio di sviluppo avanzato, dal 2007 ad oggi l’evoluzione è stata rapida e dopo la stasi del biennio recente si prevede nuovo slancio; inoltre solo il gas interessa la generazione elettrica, settore dove maggiore è la loro penetrazione.

Quale morale?

Nessuno è oggi in grado di influenzare il prezzo del petrolio, né l’Arabia, né gli Stati Uniti poiché l’industria petrolifera a stelle e strisce non è un’industria di stato. Lo sconquasso in atto ci dice che il mondo cambia più rapidamente di quanto gli esperti sappiano immaginare e non è sufficiente studiare il passato per prevedere il futuro. La fame di energia dell’Asia non è infinita e il loro sviluppo non sarà la fotocopia del nostro perché rinnovabili ed efficienza sono ad uno step evolutivo ben diverso rispetto a quelli dei nostri tempi di sviluppo. Petrolio e gas di scisto non hanno inaugurato una nuova stagione dell’abbondanza, hanno solo reso accessibili risorse conosciute grazie al prezzo elevato del greggio e solo a tale prezzo avranno ancora chance. Il legame sempre più stretto fra le economie del mondo fa sì che non esistano più solo effetti positivi per qualcuno e negativi per un altro (eccetto che per quei paesi che nel gioco non sono ancora integrati), nessun paese può considerarsi esente da danni e deve farsi strada la consapevolezza, fra chi governa, che essere sullo stesso pianeta e alimentarsi delle stesse risorse impone una politica globale di collaborazione se si ha come obiettivo la sicurezza, la difesa del clima e una vita decente per tutti. La nuova bonanza dell’oro nero non durerà molto, un anno sì, difficilmente andrà oltre il 2015, il riequilibrio di domanda ed offerta riporteranno i prezzo sui valori corrispondenti ai costi produttivi e guardando oltre l’orizzonte, tali costi non potranno che aumentare per il semplice fatto che serve energia per estrarre petrolio, ne servirà sempre di più, e l’energia costa! La strada più virtuosa che possiamo perseguire è quella di continuare a ridurre la quantità di petrolio che ci serve, per liberarci dai vincoli politici con i paesi produttori, per ridurre l’inquinamento e per proteggere il clima. Come ha ricordato uno studio recente pubblicato sulla rivista Nature[iii][iii]: se vogliamo preservare il clima, e con esso la produzione agricola e quindi la nostra stessa sopravvivenza, dovremo lasciare sotto terra, sotto il ghiaccio e sotto gli oceani una bella fetta di fossili per non rilasciare in atmosfera in pochi anni quello che madre natura ha concentrato nei fossili nel corso dei secoli. E dovremo abbandonare lo sfruttamento dei giacimenti più “sporchi”, come le sabbie bituminose in Canada e il petrolio (e il gas) di scisto.

Se l’occidente vuole difendere la libertà deve riempirla di contenuti e fra questi ci deve essere il rispetto per l’aria, l’acqua e la terra, premessa indispensabile per offrire concretamente una vita dignitosa agli esseri umani; la libertà di distruggere in nome del diritto alla ricchezza, non è libertà ma violenza.

Una versione più dettagliata e corredata di grafici è disponibilie qui 

Roberto Meregalli – www.martinbuber.eu
BCP – Energia Felice

[i][i] Leonardo Maugeri su L’Espresso, 15 novembre 2014.

[ii][ii] Queste stime sono sempre dell’Unione petrolifera.

[iii][iii] “The geographical distribution of fossil fuels unused when limiting global warming to 2 6C”, Christophe McGlade1 & Paul Ekins. University College London (UCL), Institute for Sustainable Resources, Central House, 14 Upper Woburn Place, London WC1H 0NN, UK.

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CIBONONCIBO, La fragilità alimentare

copertina CIBONONCIBO Meregalli

Autore: Roberto Meregalli
Titolo: CIBO non CIBO
La fragilità alimentare
Dai campi alla tavola conoscere per cambiare
Formato 15×21 cm
Pagine 192 – carta FSC
ISBN 978-88-88432-41-0
Prezzo 19 euro
In libreria da novembre 2014
Sullo scaffale alimentazione, ambiente, ecologia, Expo2015, sviluppo sostenibile, salute, economia.

Cosa sta succedendo al cibo? Come e in che modo ci nutriamo?
Si parla di cibo come il petrolio del futuro: cosa avviene in agricoltura? Chi sono oggi i proprietari della terra, dei semi e degli alimenti?
Un terzo della popolazione mondiale ha problemi alimentari e si muore di più per la cattiva alimentazione che per la fame; mentre proliferano le diete, gli obesi hanno superato i 2 miliardi a fronte di 800 milioni di persone che non riescono a sfamarsi; si sbandiera la sicurezza alimentare ma, in campo agricolo, la nostra sopravvivenza è affidata a sole 30 specie vegetali e il 75% di ciò che mangiamo proviene da 9; si sfruttano terra e animali per produrre sempre di più e oltre il 30% del cibo va nella spazzatura.
La FAO ha evidenziato che la sicurezza alimentare è ormai una questione globale con conseguenze cruciali sulla salute di tutti: occorre capire meglio cosa c’è dietro a quanto ci arriva sulla tavola.
Il libro spiega in modo chiaro, documentato e avvincente come funziona il complesso sistema agroalimentare e ne mette in luce le tante contraddizioni: una grande clessidra che vede a un’estremità 1,3 miliardi di agricoltori e all’altra 7 miliardi di persone da sfamare. Per passare da un capo all’altro, il cibo deve attraversare una strozzatura composta da chi commercia, compra e distribuisce, un numero assai ridotto di soggetti.
Dieci imprese controllano quasi per intero il mercato delle sementi e quello dei prodotti chimici per l’agricoltura: con quali conseguenze per coltivatori e consumatori? Le industrie alimentari si riforniscono da una manciata di multinazionali che trasportano cereali e carni da una parte all’altra del pianeta.
Da un lato, iper-igiene nel sistema produttivo, che toglie di mezzo le tipiche produzioni locali; dall’altro, contaminazioni da antibiotici, ormoni, batteri.
Il cibo è merce, i fondi di investimento vanno a caccia di terre coltivabili, i prezzi degli alimenti base sono oggetto di speculazione finanziaria; l’agricoltura, come l’allevamento, è un’industria per la produzione di cibo, entrata negli Accordi internazionali di libero scambio, come il TTIP.
Il nostro modo di coltivare, trasformare, distribuire e mangiare cibo produce troppe emissioni di gas serra, consuma combustibili fossili, distrugge foreste, spreca e inquina le acque, contamina e impoverisce la terra. Questo modello di globalizzazione che ha rotto il legame fra un territorio e la sua produzione alimentare va compreso nelle sue conseguenze e abbandonato: il libro dedica un lungo capitolo alle nuove agricolture e alle possibilità di cambiamento che anche come consumatori possiamo mettere in campo.

Leggi Introduzione (PDF, 60Kb)
L’autore
Roberto Meregalli si occupa di energia e ambiente da venticinque anni. Ha all’attivo diverse pubblicazioni e articoli sul tema dell’economia e dell’energia. Partecipa alle Associazioni Beati i costruttori di pace e Energia Felice.
Per MC ha pubblicato Acqua Terra Energia. Progettare il futuro in tempo di crisi (2013), Energia. Un nuovo inizio (2011), e ha collaborato al libro Non è Vero. I dogmi del neoliberismo alla prova dei fatti (2003).

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Scenari energetici conseguenti la caduta del prezzo del petrolio

Mario Agostinelli (www.energiafelice.it)

La caduta del prezzo del greggio e il contemporaneo rifiuto degli arabi dell’OPEC di ridurne l’offerta, incide certamente sulla competizione nel mercato del petrolio, del gas e del carbone, ma probabilmente meno sul futuro energetico in Europa e nel mondo, più che mai conteso tra affermazione delle rinnovabili e ripresa del nucleare. L’obiettivo più evidente del tracollo sui mercati sembrerebbe l’attacco alla Russia di Putin, ma non va sottovalutata l’intenzione di mettere fuori gioco la concorrenza di parte dello shale gas americano – o almeno della produzione dai sedimenti meno remunerativi – così da farne emergere senza più l’alibi del prezzo tutti i rischi ambientali e la bolla speculativa che si porta alle spalle. E’ questione di cui da noi si parla pochissimo, ma che mette in ansia i grandi finanziatori delle fossili “non convenzionali”. Se la partita del petrolio – con il paradosso di una offerta superiore alla domanda – nonostante il superamento accertato del “picco di Hubbert” – sfugge al controllo del cartello dell’OPEC e si gioca in un mercato senza protezioni, abbiamo la conferma che stia finendo un’epoca caratterizzata da un sistema fortemente centralizzato, controllato da un intreccio di monopoli e stati produttori, retto su combustibili ad alta densità calorica e agevolmente trasportabili dopo estrazione.

L’eccesso di offerta di petrolio non è dovuto a previsioni sbagliate sul suo accertato esaurimento, ma agli enormi investimenti progettati più di un quinquennio fa, quando il prezzo del barile era a 110 $ e si andava a perforare nei luoghi più impervi. Le stime di consumo poi, non hanno tenuto conto del boom delle rinnovabili e del carattere strutturale della crisi: si pensi che solo nel 2014 la IEA ha rivisto al ribasso le stime della domanda mondiale ben sei volte!

Non facciamoci quindi impressionare dai colpi di coda di un sistema che dovrà comunque fare conti inesorabili e non procrastinabili con il riscaldamento globale e la diffusione sempre più imprevedibile di conflitti armati per il controllo dei giacimenti. Hermann Scheer nel 2005 sosteneva che la sfida energetica del XXI secolo si sarebbe giocata tra atomo e sole, in un anticipo ridotto all’essenziale dello scenario entro cui la geopolitica deve far i conti con la sfida per la sopravvivenza della biosfera. E’ questo scenario che vorrei attualizzare, anche a fronte delle manovre, pur rilevanti, sui prezzi del greggio.

La mia opinione è che non si stia affatto allontanando l’opportunità di scenari alternativi ai fossili e nemmeno che il crollo dei prezzi del combustibile possa prolungare oltremodo il sistema attuale, in quanto la connessione tra clima e combustioni dei fossili comporta danni non stimabili per la vita e costi economici altissimi per la riparazione dell’ambiente, ancorché costantemente occultati, ma sempre più avvertiti dall’esperienza comune.

Nei fatti e nelle statistiche degli ultimi dieci anni, si può constatare il progresso continuo di decisioni locali, non certo assunte ai vertici per il clima, per accelerare il passaggio ad un sistema energetico decentrato, fondato sulle rinnovabili e sulla riduzione dei consumi. A riprova, in una interessante intervista del 26 Novembre il nuovo presidente dell’ENEL Francesco Starace parla di reti intelligenti, crescita delle rinnovabili e riassetto organizzativo, con un approccio così innovativo e sensato per l’Ente nazionale, da mettere a disagio gli interlocutori del Sole 24 Ore.

Anche per i sacerdoti del sistema energetico attuale (la IEA), entro il 2040 la fornitura mondiale di energia sarebbe scompaginata e divisa in quattro parti quasi uguali: fonti a basso tenore di carbonio (nucleare e rinnovabili), petrolio, gas naturale e carbone. Le energie rinnovabili diventerebbero il numero uno al mondo come fonte di produzione di energia elettrica, superando il carbone, mentre la crescita della domanda mondiale di petrolio rallenterebbe fino quasi a fermarsi, con un calo rilevante anche dello shale gas.

La discesa dei prezzi del combustibile è in definitiva vista come fase di transizione, di durata imprecisata, ma che influirà ancora per un breve periodo sulla fornitura di calore e sulle soluzioni alternative per la mobilità, anche se ormai il binomio petrolio+auto individuale sembra in progressiva consunzione. La “rivoluzione shale”, è parte anch’essa della transizione. Attualmente fornisce agli USA un vantaggio competitivo che si riflette nel rilancio della manifattura, ma che potrebbe nel medio periodo rivelarsi strategicamente non risolutivo, dato che i vincoli climatici e finanziari potrebbero risultare per questa tecnologia esiziali nel tempo.

Per contestualizzare la sfida atomo-sole, aggiungo che, mentre la tecnologia nucleare mostra limiti insormontabili, soprattutto per l’eredità delle scorie e per l’eventualità insopprimibile di incidenti catastrofici, le fonti rinnovabili decentrate, pur limitate da una relativa discontinuità, sono sfruttabili direttamente in pressoché ogni angolo del mondo e stanno raggiungendo la “grid parity” a ritmi fino ad un decennio fa impensabili.

La continuità di chi vuole mantenere un sistema centralizzato, è in realtà affidata alle chance di un nucleare “di nuova generazione” (!?), sostitutivo dei fossili, che contrasti a infrastrutture in larga parte invariate la diffusione capillare di impianti alimentati da fonti naturali. Il nucleare rimane l’opzione che il sistema elettrico delle grandi utilities si riserva anche oltre la metà del secolo. Il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti ha emesso un prestito garanzia per 12,5 miliardi di dollari per progetti di reattori innovativi. La US Energy Information Administration ha recentemente riferito che quasi tutte le centrali nucleari degli Stati Uniti dovrebbero ottenere un prolungamento della vita oltre i 60 anni per operare dopo il 2050.  La Cina ha avviato il nuovo programma nucleare con la realizzazione di 31 reattori e la presa in considerazione di ulteriori 110. La Russia assicura impianti chiavi in mano e manutenzione per i Paesi con ridotte risorse tecnologiche.

Le rinnovabili però continuano a crescere a ritmi sorprendenti, con il vantaggio di una parity grid ormai raggiunta anche senza particolari incentivi. Nei primi tre trimestri del 2014, la Cina ha speso 175 miliardi dollari in progetti di energia pulita e il paese installerà 14 GW di capacità solare nel solo 2014. Secondo il National Renewable Energy Laboratory (NREL), il costo di pannelli solari su una tipica casa americana è sceso di circa il 70 per cento negli ultimi dieci anni e mezzo. In Europa la convenienza è ormai accertata e migliorerà con investimenti in reti intelligenti e accumuli appropriati.

Purtroppo il Governo Italiano si pone in Europa in una posizione di retroguardia, dato che prevede 45 miliardi per infrastrutture fossili (30 miliardi per rigassificatori+ 15 miliardi per la quota italiana di gasdotti), senza una seria riflessione sui costi in alternativa di una infrastrutturazione rinnovabile con stoccaggi diffusi. E sarebbe interessante conoscere chi spinge Federica Mogherini, ministro degli esteri della UE voluta da Renzi, a premere sul segretario di Stato americano John Kerry per l’inserimento di un capitolo sull’energia (cioè carbone, petrolio e gas di scisto) nel Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP), nonostante le motivate critiche degli ambientalisti, preoccupati dell’abbassamento degli standard ambientali dell’UE. E, dopo le accuse agli affetti da NIMBY e il pretenzioso Sbloccaitalia, solo un Governo ineffabile ha potuto pensare di trivellare fuori tempo massimo e di mandare la polizia a caricare manifestanti che si rivelano non solo attenti all’ambiente ma ben competenti in economia e finanza!

Il futuro dell’energia è uscito ormai dai confini della geopolitica e della finanza tradizionali e l’interesse della collettività si fa spazio, entrando in conflitto con il computo economico che si vorrebbe imporre a qualsiasi costo.

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SHALE E SABBIE BITUMINOSE IN REGRESSO?

di Mario Agostinelli per Il Fatto Quotidiano

La caduta del prezzo del greggio e il contemporaneo rifiuto degli arabi dell’OPEC di ridurne l’offerta, muta la competizione nel mercato del petrolio, del gas e del carbone. Sono molti gli analisti che ritengono che non solo l’attacco è rivolto alla Russia, ma anche alla concorrenza del gas e dell’olio da shale americano (v. Bloomberg News del 27 Nov), così da farne emergere, senza più l’alibi di un prezzo inferiore, tutti i rischi ambientali e la bolla speculativa che si porta alle spalle. E’ questione di cui da noi si parla pochissimo, ma che mette in ansia i grandi finanziatori delle fossili “non convenzionali”.

In uno scenario in movimento, Circle of Blue, un periodico americano che affronta il problema delle risorse

http://www.circleofblue.org/waternews/2014/world/north-american-fossil-fuel-boom-raises-risks-expanding-oil-gas-transport-network/ e The Nation, con un articolo di Naomi Klein (http://www.thenation.com/article/191417/4-reasons-keystone-really-matters ), mettono impietosamente in evidenza gli inconvenienti dell’olio e del gas di scisto.

Sono diffuse in USA e Canada preoccupazioni sui rischi per l’acqua, la terra, e le comunità, dato che il boom di estrazione da scisto richiede cambiamenti dirompenti dei sistemi di tubazione e di quelli ferroviari di trasporto. Le nuove riserve energetiche si trovano in aree che non sono ben collegate ai porti o alle raffinerie già sviluppate nel secolo precedente e le imprese del settore energetico sono impegnate in una rete ferroviaria e di gasdotti per abbinare la mutata geografia alla nuova offerta.

Nel corso degli ultimi due anni, treni che trasportano petrolio dal Canada e Dakota sono esplosi almeno in sei località, con perdita di centinaia di vite e vasti inquinamenti. Nel 2010, un oleodotto che trasporta greggio per la raffineria a Detroit dalla regione di sabbie bituminose di Alberta ha rovesciato quasi 1 milione di litri di greggio appiccicoso nel fiume Kalamazoo. Gli analisti del settore prevedono che una media di circa 50 miliardi di dollari all’anno saranno spesi da qui al 2025 per creare reti di gasdotti e di ferrovie adeguate: con 28968 km. di condutture si tratta di uno “tsunami di nuovi gasdotti

In attesa dei nuovi tubi il trasporto ferroviario è cresciuto in modo esponenziale con un aumento del 3600%.

Il percorso del gasdotto Keystone XL, che collegherebbe Alberta al Golfo del Texas, è l’esempio più visibile di protesta nazionale (l’itinerario proposto attraversa un acquifero sensibile in Nebraska, che i cittadini e il governatore dello stato vogliono proteggere). Le proteste vanno al di là delle popolazioni locali, perché si considera che l’arresto del programma possa bloccare la produzione da sabbie bituminose, una delle fonti più costose e più sporche (più del doppio di effetto serra rispetto al petrolio tradizionale), che porta benefici economici ad una parte dell’industria, ma danni rilevanti all’agricoltura e al turismo.

In meno di un anno, Shell, Statoil e Total hanno abbandonato i loro progetti sulle sabbie bituminose, avviati quando il petrolio era a 100 $.

Barack Obama, a questo punto, deve decidere se, fermando Keystone, ferma anche un progetto industriale che sta destabilizzando il clima. Nel frattempo i rappresentanti delle popolazioni indigene continuano a vincere coi loro ricorsi in tribunale.

Il cambiamento climatico è tornato sulla scena mondiale, ad un livello che non si scorgeva da quando è fallito il vertice di Copenaghen nel 2009  (http://www.repubblica.it/speciale/2009/summit-sul-clima/)  . Mentre Stati Uniti Cina e Europa sembrano indotti a ricorrere a drastiche misure, il Canada, con emissioni di quasi il 30 per cento superiore a Kyoto, comincia esso stesso a dubitare che le sue sabbie bituminose siano opportunità di business a lungo termine, in cui depositare centinaia di miliardi di dollari nei prossimi decenni.

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