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Tap, per dire no bastava scegliere di ridurre i consumi

di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

Ci sono elementi che da sempre sono stati considerati alla base di una buona politica energetica: la diversificazione delle fonti, la riduzione della dipendenza dalle forniture estere e, nell’ambito della fornitura di fonti fossili, la diversificazione dei fornitori per non essere ostaggio di nessuno. Elementi fondamentali per un Paese come l’Italia, affamato di energia, ricca di fonti naturali, ma senza grandi giacimenti di petrolio e gas fossili. La progressiva incidenza delle Fer e la riduzione dell’intensità energetica hanno contribuito, negli ultimi anni, alla riduzione della dipendenza del nostro Paese dalle fonti di approvvigionamento estere. La quota di fabbisogno energetico nazionale soddisfatta da importazioni nette rimane elevata (pari al 76,5%) ma più bassa di circa sei punti percentuali rispetto al 2010. Quindi, generazione da Fer ed efficienza energetica sono le migliori armi per ridurre la dipendenza dall’estero e aumentare la propria indipendenza. Una considerazione banale ma troppo spesso trascurata.

Dopo un decennio di riduzione dei consumi energetici però, lo scorso anno, la domanda di energia primaria è tornata a crescere (+1,5% rispetto al 2016); e l’energia in più di cui abbiamo avuto bisogno è venuta soprattutto dal gas, il cui contributo al bilancio energetico nazionale è salito al 36,2%. 

Le rinnovabili, come segnalato in precedenti post, continuano a essere stazionarie, nel 2017 segnano un lievissimo aumento passando dal 19,1% al 19,2% del bilancio energetico nazionale, il resto è fossile. Di conseguenza, aumentando la domanda e non aumentando proporzionatamente le fonti Fer, il nostro grado di dipendenza dall’estero, è peggiorato.

Ma torniamo al gas. Nel 2017 la domanda di gas naturale è stata pari a 75,2 miliardi di metri cubi, con una crescita di circa 4,3 miliardi (+6,0%) rispetto ai 70,9 miliardi del 2016. Tale domanda è stata coperta per il 7% dalla produzione nazionale e per il 93% attraverso l’importazione. In particolare, la produzione nazionale di gas naturale è stata pari a 5,5 miliardi di metri cubi in riduzione del 4,3% rispetto al 2016, l’importazione è stata pari a 69,7 miliardi di metri cubi con un incremento del 6,7% rispetto al 2016. L’unico dato positivo da segnalare è che circa 9 milioni di metri cubi di gas sono stati prodotti dall’impianto di biometano di Montello (Bg).

Le importazioni via gasdotto sono state pari a 61 miliardi di metri cubi, ma dai nostri “tubi” con l’estero abbiamo una capacità di import pari a circa 114 miliardi di mc l’anno (Fonte Mise). Quindi molto più che sufficienti. Da dove è venuto l’aumento dei consumi? Soprattutto dalle centrali termoelettriche (2,5 miliardi di metri cubi in più (+10,5%). Quindi in sintesi la nostra scelta è di bruciare più gas per fare elettricità, piuttosto che installare più pannelli solari o pale eoliche. Questo dicono i numeri. Da quattro anni il numero dei nuovi pannelli installati è sufficiente solo a compensare il degrado di quelli installati dieci anni fa, mentre per centrare i target Ue al 2030 si dovrebbero installare in media 4 Gw di nuovi impianti all’anno, contro i 0,4 (400 Mw) che installiamo.

La scelta fossile è esplicitata dalle politiche: l’ok al Tap, anche da parte di chi lo ha sempre contestato a fronte di nessuna misura di incentivazione alle fonti rinnovabili è un messaggio chiaro. Dall’inizio di questa legislatura energia e clima sono sparite dal dibattito politico, azzerate. Eppure, per dire no al Tap non serviva alcuna analisi, bastava scegliere di ridurre i consumi decidendo di fare elettricità con sole, vento e terra. Se oggi abbiamo capacità di import pari quasi al doppio dei consumi basta decidere di non farli aumentare di più scegliendo di portare avanti quella rivoluzione energetica che il nostro Paese aveva iniziato anni fa, lasciandola poi languire negli ultimi anni. Ma, soprattutto, serviva scegliere di proteggere il clima, di far qualcosa non solo propagandistico di fronte alle coste devastate della Liguria o ai milioni di alberi morti nel bellunese o ai morti in Sicilia nell’ondata di maltempo che ha violentato alcune nostre terre.

Anche perché il metano è una delle molecole più climalteranti, molto peggio della CO2; l’Ipcc stima che sia responsabile del 20% del riscaldamento climatico e studi pubblicati anche sul prestigioso Nature hanno rivelato che il 2,3% del metano estratto riesce a “scappare” in atmosfera. Investire nel clima sarebbe stata l’occasione anche per investire soldi generando lavoro (in un anno “scarso” come il 2017 si stima comunque che alle attività legate alla realizzazione e gestione di nuovi impianti alimentati da Fer siano corrisposte circa 70mila unità di lavoro permanenti e 44mila temporanee), riducendo l’inquinamento dell’aria, avviando finalmente anche nel nostro Paese lo sviluppo della mobilità elettrica che deve andare di pari passo con l’aumento della generazione da fonti rinnovabili perché ne è complementare.

Il nostro è uno dei Paesi col più alto tasso di motorizzazione, cioè col rapporto più alto fra cittadini e numero di automobili: 62,4 auto ogni 100 abitanti, dato che ci pone al sesto posto della classifica mondiale. Quindi tanto lavoro da fare. Nei primi 10 mesi dell’anno sono state immatricolate 1.649.678 automobili, di cui elettriche pure solo 4.167, +150% rispetto al corrispondente periodo dello scorso anno ma comunque pari allo 0,3% del totale. Il precedente ministro delle attività produttive aveva annunciato un milione di auto elettriche entro il 2022. Ma rimane un annuncio, che nemmeno l’attuale ministro ha in qualche modo ripreso, mentre resta al palo la creazione di una rete nazionale di colonnine di ricarica, nelle mani al più delle iniziative delle singole imprese elettriche, che guardano al di là del naso del trio di governanti intenti a litigare e riappacificarsi subito dopo con grande dispendio di energia.

L’articolo Tap, per dire no bastava scegliere di ridurre i consumi proviene da Il Fatto Quotidiano.

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Cercasi petrolio e gas da bruciare

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Nel suo recente ed esauriente report sul futuro del petrolio e del gas la International Energy Agency (IEA: Oil 2018, analysis and forecasts to 2023) induce a riflessioni tutt’altro che scontate sul raggiungimento del picco delle fonti fossili. Anzi, caparbiamente le grandi corporation e i gruppi finanziari più esposti esplorano ogni possibilità di rilancio. Perfino, come descriverò, le più assurde dal punto di vista climatico ambientale e le più rischiose sul terreno finanziario e delle bolle ad esso associate. Tutto, pur di contrastare il cambio di modello energetico e di trasferire solo sul piano contabile di governi e multinazionali gli effetti di una combustione dichiarata incompatibile ad ogni impotente e quindi riunione delle Cop (ormai, con quella dopo Parigi e Bonn, arrivate al numero 23).

Lo stesso direttore esecutivo della IEA, Fatih Birol, sostiene che dalla Cop 21 ad oggi si deve registrare una differenza notevole dovuta soprattutto all’impressionante ripresa della produzione di petrolio e gas da scisti negli Stati Uniti. L’impatto globale dell’aumento dello shale oil (LTO) comporta un cambiamento fondamentale nella natura dei mercati petroliferi globali.

US LTO scenari

Previsioni di produzione di LTO a seconda della velocità di esaurimento dei pozzi (http://peakoilbarrel.com/the-future-of-us-light-tight-oil-lto/)

La spina nel fianco di questa tecnologia di perforazione consiste nel più rapido esaurimento dei giacimenti (le varie curve indicano diverse velocità di estrazione – in barili al giorno – e quindi diverse previsioni più o meno pessimistiche di svuotamento dei pozzi). Si deve notare che la tecnologia, estremamente dannosa sul piano ambientale, va comunque ad esaurirsi entro la metà del secolo, ma che tutte le curve (tranne la più bassa) sono in crescita fino al 2023 e, quindi, l’inevitabile picco ancora non è raggiunto, consentendo agli Usa di solidificarsi come il principale produttore di petrolio al mondo mentre la Cina e l’India li sostituiscono come principali importatori di petrolio.

Il Fondo Monetario Internazionale vede una crescita economica globale del 3,9% all’anno fino al 2023 e le economie forti utilizzeranno più petrolio con una crescita della domanda a un tasso medio annuo di 1,2 milioni di barili/giorno. Dove sta la decarbonizzazione, parola d’ordine della Cop di Parigi e della Sen di Calenda?

Spesso si trascura che i prodotti petrolchimici sono un fattore chiave per la crescita della domanda di petrolio e che la corsa al riarmo concentra ancora di più il ricorso ad esso. Man mano che le spedizioni canadesi di shale oil e shale gas verso gli Stati Uniti crescono, questo libera il greggio statunitense più leggero per l’esportazione, in particolare per soddisfare la domanda asiatica di materie prime petrolchimiche. Ogni anno il mondo ha bisogno di rimpiazzare l’offerta persa dai campi maturi e questo è l’equivalente di sostituire un Mare del Nord ogni anno. Le scoperte di nuove risorse petrolifere sono scese ad un altro minimo storico nel 2017. Spinta dall’Lto, nel 2023 la produzione degli Stati Uniti crescerà di 3,7 milioni di barili al giorno, più della metà della crescita totale della capacità produttiva globale, di 6.4 mb/d prevista per allora. Gli Stati Uniti sono in una posizione favorevole per aumentare il proprio ruolo nei mercati globali. Per di più con Trump riprende nettamente la capacità e il ruolo della logistica e dei grandi impianti. Questo include importanti progetti canadesi come Trans Mountain e Keystone XL, e il gasdotto EPIC 550 kb/d di TexStar Logistics, che sarà operativo nel 2019 in Texas.

La domanda petrolifera europea, nel frattempo, dovrebbe tornare alla sua tendenza al declino a lungo termine. La maggior parte della crescita verrà dal Gpl e dall’etano. Buoni guadagni si vedranno anche nel consumo di kerosene dato che i viaggi aerei diventano più accessibili nei paesi non Ocse. La crescita della domanda di benzina rallenta nel periodo con standard più rigidi in materia di risparmio di carburante, mentre la crescita del gasolio rallenta in media dello 0,7% all’anno fino al 2023.

Segnalo alcuni temi chiave destinati a essere considerati nei prossimi 12-24 mesi per il settore globale del Gnl (gas naturale liquefatto), che prendono in considerazione prevalentemente i vantaggi di mercato, lasciando ricadere all’esterno sia i danni ambientali, che quelli sociali e i rischi finanziari (le fonti sono elaborate da informazioni della Banca Mondiale.

L’accumulo nell’approvvigionamento di GNL (Gas naturale liquefatto) a livello globale è significativamente ritardato dalla capacità di liquefazione. Ciò è dovuto a numerosi fattori, tra cui ritardi di messa in servizio e interruzioni di fornitura non pianificate, spesso dipendenti da conflitti locali o dall’onerosità delle infrastrutture di trasporto e trasformazione. Nel 2018 è prevista la maggiore crescita in volume di qualsiasi anno passato, superando sostanzialmente la crescita della domanda globale. Tuttavia, dopo il 2019, la ristrutturazione della pipeline dei progetti di liquefazione si esaurirà e la crescita dell’offerta inizierà nuovamente a decadere. Ciò inciderà sul prezzo al mercato e sui rischi di investimento attuali.

L‘Europa punta ad adottare il ruolo del rigassificatore globale. Ciò vale anche per il carbone, il petrolio, o le biomasse, ma fa gola specialmente per l’esportazione di gas americano. La regione è unica nella sua capacità di assorbire l’avanzo globale, grazie ai suoi mercati del gas ampi, integrati e liberalizzati e ai significativi volumi di offerta flessibile. L’Europa deve però adottare il ruolo di consumatore di gas a livello globale: a questo puntano gli Stati Uniti (con l’esportazione di shale gas) e la Russia (con la costruzione di gasdotti). Nella competizione russo-statiuniti- canadese l’UE favorisce le iniziative di immissione in rete gassosa del Gnl da scisto nordamricano ai nodi degli attracchi europei (dalla Lituania, Estonia e Inghilterra per limitare il gas russo, alla Toscana, per favorire la metanizzazione della Sardegna messa sul piatto dal governo italiano). Nasceranno così nuovi problemi per il mercato del gas, dato che il fattore determinante dei flussi complessivi in ​​Europa sarà il prezzo, con i carichi di Gnl in competizione sugli hub dei porti per eliminare le forniture da gasdotti.

Gli Stati Uniti, nel breve periodo e in funzione del surplus di shale gas, sono probabilmente l’unica fonte di offerta di Gnl a livello globale, nonostante i suoi costi di produzione-liquefazione-trasporto-rigassificazione relativamente elevati. L’espansione del gas è quindi fonte di incertezze e di gravi disagi ambientali, oltre che di rischi finanziari notevoli. Ma tant’è: nonostante tutte le Cop organizzate con grande pompa, la decarbonizzazione paradossalmente rilancia il gas, sotto traccia nella percezione dell’opinione pubblica, abbagliata dalla narrazione sulle rinnovabili nei paesi di industrializzazione matura. Perché mai, visto lo scoraggiamento che dovrebbe provenire dagli appuntamenti sul clima? La verità è che le sanzioni finanziarie sui progetti saranno sostenute dall’aumento dei prezzi delle materie prime, dall’attenuazione dei vincoli di capitale sulle principali compagnie petrolifere e del gas, nonché da una forte deflazione dei costi dei servizi a sostegno dell’economia dei progetti di liquefazione. Ancora una volta il modello di sviluppo finisce sulle spalle del pubblico e dei consumatori, con la complicità dei governanti.

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Gas fossile: il nemico armato del clima

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015In una conversazione privata a conclusione della Cop 21, un dirigente Eni ha previsto in mia presenza che il vero vincitore della conferenza di Parigi sarebbe stato il gas: completamente compatibile con il sistema delle grandi infrastrutture, disponibile in grandi quantità con sempre nuove tecnologie, soggetto alle convenienze geopolitiche delle grandi potenze e alle attenzioni politiche dei produttori di armi, meno osteggiato del petrolio e del carbone per i suoi effetti sulle emissioni climalteranti. Insomma, un utile compromesso per gli enormi interessi minacciati dalle rinnovabili e per mascherare l’urgenza di un cambio radicale di paradigma energetico: la decarbonizzazione innanzitutto.

A distanza di un anno e mezzo, quella previsione è più che confermata e il ritardo nel contenere gli aumenti di temperatura è reso più drammatico, pressoché inarrivabile, ma non esecrato quanto occorrerebbe per l’indifferenza dell’opinione pubblica. Il gas irragionevolmente si impone come la soluzione competitiva che l’economia mondiale (con l’eccezione parziale di Cina, India e Francia) e le multinazionali industriali e dei servizi stanno scegliendo per esternalizzare i costi della catastrofe della biosfera e abbindolare le popolazioni con il mito del ritorno alla crescita, accompagnata dalla riduzione delle tariffe e delle tasse sulle persone fisiche (il prezzo del gas viene tenuto basso, la sua diffusione non è accompagnata da misure di prevenzione private e pubbliche degli effetti nocivi e i danni climatici si abbattono non in generale, ma, per ora, prevalentemente sugli sfortunati più direttamente colpiti).

Dopo gli accordi per non andare oltre l’aumento di 1,5° C, solo il gas – naturale, liquefatto, da scisto, da sabbie bituminose – avanza, in un’autentica guerra commerciale e militare, per prendere tempo fino al 2023, quando i firmatari di Parigi dovranno sottostare a vincoli e verifiche più stringenti. E intanto, a tutto gas!

Se disegnassimo sulle carte geografiche i progetti di gasdotti e le rotte delle navi metaniere avremmo lo stesso effetto delle avanzate delle divisioni in tempo di guerra. I progetti mastodontici fioccano e l’Italia è tra i protagonisti sul fronte della messa in opera e della fornitura di sbocchi. Qualsiasi mare si debba valicare, eccoci pronti: Adriatico (Tap), Mar Nero (Blue Stream), Mar Caspio (Trans Caspian) per contendere alla Polonia, alla Germania e al centro del continente l’occasione dell’ “hub” del gas fossile europeo.

Ma c’è un altro fronte della guerra in corso che complica le strategie. Il gas liquefatto in partenza e poi rigassificato in arrivo, può viaggiare via mare, essere immesso in cisterne a bassa temperatura dai giacimenti naturali del Qatar, come dai giacimenti di sisto e dalle sabbie bituminose, dopo essere stato trasportato sulle coste americane dai gasdotti cui Trump oggi dà il via libera.

“È l’inizio della guerra dei prezzi tra il gasolio americano e il gas di condotta che viene da oriente”, ha dichiarato Thierry Bros, analista di Société générale, citato dal Wsj. Gli analisti dicono che la Russia potrebbe tagliare i prezzi che addebita ai propri clienti europei per cercare di scacciare i nuovi concorrenti statunitensi. Anche se più caro, molti in Europa vedono l’ingresso del gas liquido degli Stati Uniti sul mercato come parte di un più ampio sforzo geopolitico per sfidare il dominio russo delle forniture e mettere in crisi il rapporto Putin-Merkel per la costruzione della condotta North Stream 2 nel Baltico.

E infatti lo scatto americano non si è fatto attendere. A marzo, erano già stati consegnati i primi carichi di shale gas al Brasile, con successive spedizioni verso l’Asia. Il 21 aprile il Wall Street Journal aveva informato che una nave metaniera portava per la prima volta gas liquido americano in Europa. Poi le notizie si sono intensificate: il Guardian informa che 27.500 metri cubi di shale gas sono arrivati in Norvegia.

Trump, nel suo discorso a Varsavia ha voluto mandare un chiaro messaggio alla Russia. “Siamo seduti su una grande quantità di energia fossile ed ora siamo esportatori di energia, quindi, se qualcuno di voi ha bisogno di energia, basta che ci dia una telefonata”, così, secondo la trascrizione del suo discorso diffuso dalla Casa Bianca.

Il terminal nel Mar Baltico di Swnoujscie, dove la Polonia già accoglie Gnl dal Qatar, sarà ampliato e l’allestimento di terminali per il gas americano nei Paesi Baltici sono la risposta al sollecito, mentre si affaccia in concorrenza anche l’Egitto dopo la scoperta da parte dell’Eni di notevoli giacimenti nel Mediterraneo. Così, tutti corrono – un giorno sì e un giorno no – ai terminali del Golfo del Messico, alla corte del Qatar, alle stanze sontuose degli sceicchi arabi o di Al Sisi, dimenticandosi ogni volta di Regeni.

C’è infine la schizofrenia statunitense verso i produttori di gas del Golfo. Dopo l’anatema di Trump e dell’Arabia Saudita verso il Qatar, tre giganti energetici (Exxon, Bp e Total) dichiarano il loro sostegno al piano di Doha di aumentare del 30% la produzione entro il 2024. E Washington diventa mediatrice di una lotta di puri interessi, tutti con la puzza del gas, altro che inebriati da essenze religiose.

D’altra parte, come ha detto alla Reuters il funzionario di una delle compagnie coinvolte: “C’è solo una politica qui: si devono fare scelte puramente economiche. Essere qatariota in Qatar e emiratino negli Emirati”. Non c’è solo Trump a sparare sul clima.

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Referendum: rottamare gas e petrolio? Ma scherziamo?!

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015L’impegno di quegli accaniti sostenitori delle installazioni in mare che, ancora anneriti dai fumi del petrolio e del gas pompato dalle trivelle, sbraitano in TV per i posti di lavoro che andrebbero persi, male si attaglia all’ammirazione che gli stessi manifestano per un futuro fatto di smartphone di ultima generazione e per la “manifattura 4.0”, tutta impreziosita – a loro dire – di robot luccicanti, di software inodori e di pochi addetti, abbigliati in tute impeccabili con il brand della ditta. Una incoerenza, la loro, che si spiega col fatto che dietro l’oro nero che sgorga dal mare si cela la prosaica e sempiterna propensione a cercare affari attraverso le lobby attrezzate a stabilire le connessioni tra economia e politica mediante il familismo e l’intramontabile geometria del cerchio magico.

Non si direbbe il momento giusto per procrastinare la filiera delle fonti fossili dopo l’ammonimento della Cop21 di Parigi che, pur con limiti evidenti per mancanza di controlli e di vincoli cogenti per il contenimento delle emissioni, auspica un limite di 1,5 gradi di aumento della temperatura media terrestre entro il 2050. E ancor più temeraria si direbbe l’insistenza per l’estrazione di gas e petrolio in un mare tra i più belli e fruibili d’Europa, così come l’ammodernamento della più estesa e voluminosa piantagione idrocarburica di terraferma in Europa, con la disseminazione di pozzi di Total e Shell per le colline che circondano il Monte Vulture, scavando e perforando accanto ai filari dell’Aglianico, ai fagioli di Sarconi, le melanzane rosse di Rotonda, i peperoni gialli di Senise e il caciocavallo (lo dicono tutti i visitatori) più buono del mondo.

Ma, se le emissioni di climalteranti vanno ridotte, il petrolio è ai minimi e le royalties che può riscuoterne il governo pure e, per di più, si rischia su paesaggio e qualità dell’ambiente in cambio di pochi, improbabili e temporanei posti di lavoro, che vantaggio ci sarà mai per giustificare lo sconquasso dovuto a pozzi e trivelle? E se, oltre l’esiziale questione ambientale, ci sono sospetti e indagini che riguardano elementi di corruzione, diventa allora commendevole, dopo gli ipocriti apprezzamenti rivolti alla Laudato Sì e la condivisione dell’allarme lanciato da 135 Paesi sottoscrittori dell’accordo di Parigi, la difesa a tutto campo del sito petrolifero di Tempa Rossa. E, nondimeno, di un emendamento, oggetto di una tempestiva e disonorevole comunicazione del ministro dello Sviluppo al fiduciario della Total.

Le attenzioni per il greggio italiano non rappresentano semplicemente un ‘caso Guidi’, come è stato frettolosamente catalogato dai media. C’è tutta una successione di eventi che dà il segno di una politica energetica del governo estranea agli interessi del paese, subalterna a vecchie logiche e interessi e contrapposta alla svolta invocata dalla crisi climatica in corso. Il passaggio da una strategia di conservazione, con un sistema centralizzato di produzione, ad un’alternativa energetica che conti sul risparmio, la micro-generazione e il coinvolgimento delle comunità locali, richiede discussione e democrazia. Solo se le si vuole evitare, si spiegano la disinvoltura con cui il referendum del 17 aprile è stato indetto in tempi impraticabili per un dibattito autentico; l’invito ai cittadini di disertare le urne; l’impedimento ai parlamentari, trattenuti a Roma anche la settimana ventura, di partecipare ad una campagna elettorale come auspica la Costituzione.

Siamo nel mezzo di una crisi energetica, forse la più importante nella storia dell’umanità, in cui le contraddizioni interne al sistema dominante non possono più essere risolte ristrutturando il sistema tale e quale, ma inducono ad un periodo di transizione caratterizzato da instabilità e oscillazioni sempre più estreme tra varie alternative possibili di uscita dalla crisi. Molte evidenze ci dicono che stiamo andando verso la svolta: il risultato delle pressioni dei cittadini diventa coerente e ci si dirige verso un sistema energetico differente, socialmente e ambientalmente- e non solo economicamente – desiderabile. Ciò che dovremmo fare è innanzitutto cercare di comprendere in modo analitico ciò che sta succedendo. È indispensabile uno sforzo di analisi per collocare le nostre scelte nel presente, affinché le cose prendano il corso meno sconsigliabile. Pertanto, meglio rischiare di rottamare qualche trivella, che rinunciare al diritto e alla libertà di contribuire votando ad un futuro auspicabile.

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