di Mario Agostinelli e Angelo Consoli
Va detto che i costi delle tecnologie per l’idrogeno “blu” non sono affatto prevedibili. In altre parole, mentre sappiamo benissimo quanto sia sempre più competitiva la generazione rinnovabile, quanto costi un elettrolizzatore e quanto potrà variare tale prezzo nel corso del prossimo futuro, nessuno ha mai detto esattamente (e soprattutto nessuno ha mai dimostrato) quanto costa sequestrare sottoterra una tonnellata di CO2 in modo efficace e, soprattutto, sicuro.
La Commissione, pur di schiudersi alle pressioni di Gasnaturally, ha affermato che “al momento attuale né l’idrogeno rinnovabile, né l’idrogeno da fonti fossili con cattura del carbonio sono competitivi se paragonati all’idrogeno fossile”. E, pur ribadendo che “La priorità per l’Ue è lo sviluppo di idrogeno rinnovabile, prodotto utilizzando principalmente energia solare e eolica e che la scelta dell’idrogeno rinnovabile aumenta la capacità industriale europea nel settore degli elettrolizzatori, dispiega nuovi posti di lavoro e crescita economica in Ue” ritiene opportuna “una maturazione della tecnologia e della diminuzione dei costi di produzione”.
Una chiara concessione alle lobby fossili che insistono sul reforming sporco del metano e che non ha nulla a che vedere con il riconoscimento della mancanza di tempo cui l’emergenza climatica ci chiama. E’ chiaro il salto logico: occorre ammettere che, a tutt’oggi, nessuno è in grado di dire quale sia il reale costo del processo di Ccs e, quindi, di affermare che esso sia inferiore o superiore al costo dell’idrogeno da fonti rinnovabili.
Cominciamo col dire che una ricerca internazionale pubblicata di recente su Nature Energy che ha confrontato l’Eroei (il tasso di ritorno energetico di un impianto comparato all’energia necessaria per costruirlo e gestirlo) di impianti a fonti fossili dotati di Ccs con quelli a fonti rinnovabili dotati di sistemi di accumulo ha trovato che gli impianti Ccs hanno un ritorno energetico di gran lunga inferiore. Ma oltre che sul piano energetico, con la Ccs il piatto piange soprattutto su quello economico. Infatti ci sono vari modi di catturare e stoccare la CO2, con diversi livelli di sicurezza. Naturalmente gli impianti di Ccs più economici sono i meno sicuri, e viceversa, i più sicuri sono i meno economici.
Si tratta di un processo che richiede la costruzione di gasdotti particolarmente costosi per il trasporto della CO2 e dell’idrogeno, la cui lunghezza non può essere valutata finché non sia stata decisa la dislocazione dei depositi temporanei, che pure devono essere costruiti appositamente, perché richiedono determinate condizioni geologiche e sismiche che allarmano le popolazioni.
Non tutti sanno che nel 2007, in coincidenza con la strategia energetica sostenibile varata con gran convinzione dalla Merkel durante il suo semestre di presidenza europea (il famoso pacchetto Clima Energia 20 20 20), le lobby del fossile ottennero in compensazione 1 miliardo di euro per realizzare “la costruzione e la messa in funzione nell’Ue, entro il 2015, di 12 impianti di dimostrazione per la produzione commerciale di elettricità con cattura e stoccaggio del carbonio (Ccs)”. A tutt’oggi non se ne ha più alcuna notizia, come è stato certificato da una apposita relazione della Commissione che ha ammesso il fallimento del programma.
Inoltre è intervenuta anche la Corte dei Conti dell’Unione Europea che ha concluso che i finanziamenti ai progetti dimostrativi della Ccs sono stati uno spreco per l’Europa, perché sei progetti non sono stati neanche finanziati per mancanza delle basi minime per accedere ai finanziamenti europei, mentre per gli altri sei il programma “non ha realizzato i propri ambiziosi obiettivi in materia di cattura e stoccaggio del carbonio, poiché nessuno dei progetti che hanno ricevuto finanziamenti dall’Ue ha dimostrato la fattibilità della tecnologia su scala commerciale” (cfr. paragrafi 20-22). Un bilancio catastrofico, dunque, sia sul piano tecnologico che su quello economico, certificato dalla stessa Commissione e dalla Corte dei Conti Europea.
Nel caso esplicito delle dismissioni degli impianti a carbone occorre avviare subito un confronto democratico a partire dai comuni, dai territori e dalle Regioni fino al livello nazionale, per evitare che i prossimi 30 anni siano occupati dal rilancio di una infrastruttura fossile che contrasterà irreversibilmente la transizione europea verso gli ambiziosi obiettivi di idrogeno da rinnovabili. Si avvierebbe così un grande processo di risanamento del territorio e di valorizzazione delle risorse naturali, delle risorse economiche, umane e occupazionali a cui le forze politiche democratiche e i sindacati dei lavoratori non possono sottrarsi.
L’articolo Green deal, per il sequestro del carbonio servono tempo e denaro. Ma l’emergenza clima è qui proviene da Il Fatto Quotidiano.