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Green deal, per il sequestro del carbonio servono tempo e denaro. Ma l’emergenza clima è qui

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di Mario Agostinelli e Angelo Consoli

Va detto che i costi delle tecnologie per l’idrogeno “blu” non sono affatto prevedibili. In altre parole, mentre sappiamo benissimo quanto sia sempre più competitiva la generazione rinnovabile, quanto costi un elettrolizzatore e quanto potrà variare tale prezzo nel corso del prossimo futuro, nessuno ha mai detto esattamente (e soprattutto nessuno ha mai dimostrato) quanto costa sequestrare sottoterra una tonnellata di CO2 in modo efficace e, soprattutto, sicuro.

La Commissione, pur di schiudersi alle pressioni di Gasnaturally, ha affermato che “al momento attuale né l’idrogeno rinnovabile, né l’idrogeno da fonti fossili con cattura del carbonio sono competitivi se paragonati all’idrogeno fossile”. E, pur ribadendo che “La priorità per l’Ue è lo sviluppo di idrogeno rinnovabile, prodotto utilizzando principalmente energia solare e eolica e che la scelta dell’idrogeno rinnovabile aumenta la capacità industriale europea nel settore degli elettrolizzatori, dispiega nuovi posti di lavoro e crescita economica in Ue” ritiene opportuna “una maturazione della tecnologia e della diminuzione dei costi di produzione”.

Una chiara concessione alle lobby fossili che insistono sul reforming sporco del metano e che non ha nulla a che vedere con il riconoscimento della mancanza di tempo cui l’emergenza climatica ci chiama. E’ chiaro il salto logico: occorre ammettere che, a tutt’oggi, nessuno è in grado di dire quale sia il reale costo del processo di Ccs e, quindi, di affermare che esso sia inferiore o superiore al costo dell’idrogeno da fonti rinnovabili.

Cominciamo col dire che una ricerca internazionale pubblicata di recente su Nature Energy che ha confrontato l’Eroei (il tasso di ritorno energetico di un impianto comparato all’energia necessaria per costruirlo e gestirlo) di impianti a fonti fossili dotati di Ccs con quelli a fonti rinnovabili dotati di sistemi di accumulo ha trovato che gli impianti Ccs hanno un ritorno energetico di gran lunga inferiore. Ma oltre che sul piano energetico, con la Ccs il piatto piange soprattutto su quello economico. Infatti ci sono vari modi di catturare e stoccare la CO2, con diversi livelli di sicurezza. Naturalmente gli impianti di Ccs più economici sono i meno sicuri, e viceversa, i più sicuri sono i meno economici.

Si tratta di un processo che richiede la costruzione di gasdotti particolarmente costosi per il trasporto della CO2 e dell’idrogeno, la cui lunghezza non può essere valutata finché non sia stata decisa la dislocazione dei depositi temporanei, che pure devono essere costruiti appositamente, perché richiedono determinate condizioni geologiche e sismiche che allarmano le popolazioni.

Non tutti sanno che nel 2007, in coincidenza con la strategia energetica sostenibile varata con gran convinzione dalla Merkel durante il suo semestre di presidenza europea (il famoso pacchetto Clima Energia 20 20 20), le lobby del fossile ottennero in compensazione 1 miliardo di euro per realizzare “la costruzione e la messa in funzione nell’Ue, entro il 2015, di 12 impianti di dimostrazione per la produzione commerciale di elettricità con cattura e stoccaggio del carbonio (Ccs)”. A tutt’oggi non se ne ha più alcuna notizia, come è stato certificato da una apposita relazione della Commissione che ha ammesso il fallimento del programma.

Inoltre è intervenuta anche la Corte dei Conti dell’Unione Europea che ha concluso che i finanziamenti ai progetti dimostrativi della Ccs sono stati uno spreco per l’Europa, perché sei progetti non sono stati neanche finanziati per mancanza delle basi minime per accedere ai finanziamenti europei, mentre per gli altri sei il programma “non ha realizzato i propri ambiziosi obiettivi in materia di cattura e stoccaggio del carbonio, poiché nessuno dei progetti che hanno ricevuto finanziamenti dall’Ue ha dimostrato la fattibilità della tecnologia su scala commerciale” (cfr. paragrafi 20-22). Un bilancio catastrofico, dunque, sia sul piano tecnologico che su quello economico, certificato dalla stessa Commissione e dalla Corte dei Conti Europea.

Nel caso esplicito delle dismissioni degli impianti a carbone occorre avviare subito un confronto democratico a partire dai comuni, dai territori e dalle Regioni fino al livello nazionale, per evitare che i prossimi 30 anni siano occupati dal rilancio di una infrastruttura fossile che contrasterà irreversibilmente la transizione europea verso gli ambiziosi obiettivi di idrogeno da rinnovabili. Si avvierebbe così un grande processo di risanamento del territorio e di valorizzazione delle risorse naturali, delle risorse economiche, umane e occupazionali a cui le forze politiche democratiche e i sindacati dei lavoratori non possono sottrarsi.

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Green deal, la strategia europea per l’idrogeno ha luci e ombre. E c’è chi ne approfitta

di Mario Agostinelli e Angelo Consoli

L’8 luglio di quest’anno la Commissione Europea ha pubblicato “A hydrogen strategy for a climate neutral Europe”, la tanto attesa strategia per l’idrogeno, complementare alla nuova strategia industriale proposta a marzo scorso, come parte del pacchetto di misure per il Green Deal europeo, annunciato a dicembre scorso con l’obiettivo della neutralità climatica (emissioni zero) entro il 2050.

La Commissione afferma senza ambiguità che la priorità viene data all’idrogeno verde (ossia quello prodotto unicamente da fonti rinnovabili), mentre l’idrogeno da fonti fossili viene scartato, salvo che si tratti di idrogeno “blu” (ossia ottenuto dal gas naturale fossile senza emissioni di CO2, catturata e sequestrata con un processo di cattura, detto Ccs, che non la rilascerebbe in atmosfera).

Questa fantomatica tipologia Ccs finirebbe col giocare, come vedremo più avanti, un ruolo di pura copertura nel breve e medio termine, a causa di una sua pretesa (conclamata e mai dimostrata) convenienza economica rispetto all’idrogeno verde. Si tratterebbe, quindi, di un trucco per far guadagnare tempo alle corporation del gas.

Infatti, nella versione iniziale, fatta circolare semi clandestinamente il 18 giugno 2020, la Commissione si limitava a menzionare, senza assegnargli alcun ruolo significativo, l’idrogeno “blu”. Senonché, il 24 giugno seguente, Gasnaturally, la lobby di una coalizione di imprese del gas, sindacati e produttori di tecnologie energetiche, rivendicava l’adozione di una strategia per l’idrogeno che seguisse una impostazione “technology-neutral”, di modo che sia l’idrogeno da fonti rinnovabili che quello ottenuto dal gas con la Ccs potessero essere considerati “Clean Hydrogen”, ovverosia “idrogeno pulito”.

E così, il documento ufficiale dell’8 luglio cambia rispetto al “draft” del 18 giugno e assegna un ruolo – a mio giudizio usurpato – all’idrogeno blu, riconoscendolo “necessario” nel breve e medio termine “allo scopo di ridurre più rapidamente le emissioni rispetto ai sistemi attuali di produzione di idrogeno dalle fonti fossili e favorire così la penetrazione di idrogeno rinnovabile sia attualmente che in futuro”.

Sul piano terminologico la posizione della Commissione è estremamente precisa e non lascia porte aperte ad interpretazioni di comodo, né verso una fonte nucleare né verso una produzione tradizionale come quella del reforming da metano senza eliminazione (peraltro costosa) della CO2. Guardiamo infatti ai numeri: la European Hydrogen Strategy prevede un investimento nell’idrogeno blu in una ristretta forchetta fra i 3 e i 18 miliardi di euro entro il 2050, mentre alla stessa data si prevedono investimenti nell’idrogeno verde da fonti rinnovabili pari a una forchetta fra i 180 e i 470 miliardi di euro. Ma è proprio in questa dichiarata irrilevanza del blu rispetto al verde che si possono aprire varchi consistenti per pregiudicare con le decisioni dell’oggi quel che si ritiene indispensabile, ma si rimanda ad un domani indefinito.

Il sostegno dell’Ue all’idrogeno verde prevede addirittura che il mercato degli elettrolizzatori (apparecchiature per ottenere idrogeno solo da elettricità) sia all’incirca tra 24 e 42 miliardi entro il 2030, a cui va aggiunta una cifra oscillante fra 220 e 340 miliardi per gli impianti di energia rinnovabili necessari a fornire la corrente elettrica per l’idrolisi dell’acqua. Di fatto, la strategia europea prevede che ci siano già 6 Gw (6000 megawatt) di elettrolizzatori installati entro il 2024, e addirittura ben 40 Gw entro il 2030, fino a 500 Gw entro il 2050. Una evidentissima propensione per l’idrogeno da rinnovabili e nella prospettiva di zero emissioni di climalteranti.

In altre parole, l’Ue prevede che per l’idrogeno verde si debbano spendere all’incirca 382 miliardi di euro (elettrolizzatori più rinnovabili correlate) entro il 2030, mentre la spesa prevista per l’idrogeno dai fossili non supera i 18 miliardi di euro addirittura fino a tutto il 2050. Allora perché l’accenno “dal sen sfuggito” al Ccs?

Un contentino? Più probabilmente un cavallo di Troia su cui si sono subito tuffate qui da noi A2A, Enel ed Eni, che senza alcuna discussione preventiva hanno rilanciato immediatamente il gas a fronte della riconversione del carbone prevista entro il 2025 a Monfalcone, La Spezia e Civitavecchia, con un immediato plauso di Confindustria.

Eppure, la strategia della Commissione introduce la nozione dell’ecosistema dell’idrogeno da sviluppare in Europa. Per questo il documento della Commissione introduce anche le nozioni complementari degli “Hydrogen Clusters” o delle “valli dell’idrogeno” da sviluppare a livello locale in conformità alla tipologia di insediamenti industriali e produttivi presenti in ogni regione. Ma se le “valli” di Monfalcone, La Spezia e Civitavecchia vengono presidiate oggi dal rilancio dei metanodotti e delle centrali a metano, che avranno un tempo di ammortamento degli investimenti non inferiore ai 25 anni (sempre che non lieviti, come probabile, la carbon tax), chi svilupperà entro questo drammatico quinquennio post-Covid il sistema rinnovabili+idrogeno verde che porta oltre un milione di posti di lavoro?

[CONTINUA]

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Clima, così un’azienda americana del gas ha fatto propaganda contro le rinnovabili

In un articolo del The Guardian del 26 luglio compare una notizia che dà conto di come l’emissione di climalteranti da fossili possa venire spacciata – se non come un’attrattiva – almeno per un ripiego conveniente per la quota di popolazione più indigente e, di sovente, meno informata sul pericolo del cambiamento climatico. La vicenda è così rappresentativa di una manipolazione dell’opinione pubblica e dell’irriducibilità del negazionismo climatico da essere riferita in dettaglio.

Con una indiscutibile efferatezza la SoCalGas, la più grande utility americana per il gas (fornisce gas naturale a quasi 22 milioni di consumatori nella sola California), nota per essere il più fiero nemico del ricorso all’elettricità fornita dalle fonti rinnovabili, sta cercando di contrastare gli sforzi per limitare l’uso del gas naturale in California. Per farlo è arrivata al punto di costituire e finanziare un gruppo di consumatori che, beneficiando del titolo e dei vantaggi delle società “no profit”, nel loro statuto si sono dati l’obiettivo di spingere verso “soluzioni energetiche equilibrate”, consistenti nella diffusione di gas fossile in sostituzione di altri fossili maggiormente climalteranti.

E’ noto come nello stato della California il ruolo delle amministrazioni locali abbia favorito la diffusione delle rinnovabili, ormai largamente convenienti anche in bolletta, e abbia reso efficiente la rete elettrica in competizione con le reti di distribuzione di petrolio e gas. L’opinione pubblica manifesta ampio consenso alla politica energetica meno “trumpiana” di tutti gli States, ma la reazione delle maggiori corporation energetiche, legate al vecchio carro, non si sono fatte attendere. In particolare, la SoCalGas ha puntato sulle classi sociali più indigenti e meno acculturate e, in un’inedita attività di lobbying a sostegno della diffusione del gas naturale, ha finanziato, con l’aiuto di una società di esperti di pubbliche relazioni, il lancio di un “gruppo di consumatori senza scopo di lucro”, rivolto specificatamente agli insediamenti di immigrati meno facoltosi.

Il compito del gruppo consiste nel propagandare, con l’assistenza di consulenti, l’uso del gas naturale mixato a gas di origine biologica. Quali siano le quote del mix propagandato non è dato sapere ed è anzi considerato un’esca fasulla. L’importante è tener viva la rete di distribuzione attraverso le condotte di proprietà e non far subentrare al suo posto quella elettrica, conveniente sia per prezzo che per gli effetti sul clima.

Se si entra in dettaglio, l’episodio risulta davvero inquietante. Berkeley, California, è diventata la prima città degli Stati Uniti a vietare il gas naturale ed è proprio tra la popolazione locale che SoCalGas ha individuato alcuni leader latinos da stipendiare per sostenere la propaganda all’uso del gas nelle industrie e nelle municipalizzate. Il gas “rinnovabile” viene presentato come metodo alternativo per rendere più verde la rete fossile e combattere così la crisi climatica. Mentre i fautori dell’ambiente spingono le città a spegnere il gas, SoCalGas ha reso gratuite le bollette per i suoi propagandisti riuniti in una società registrata come C4Bes, facendone una entità indipendente in quanto no profit al fine di nascondere la sponsorizzazione diretta.

SoCalGas e C4Bes non negano l’esistenza della crisi climatica. Promuovono l’uso di gas “pulito” e “rinnovabile” sotto forma di metano catturato da caseifici, dagli impianti di trattamento delle acque reflue e dalle discariche e affermano che l’uso di biogas al posto del gas fossile ridurrebbe le emissioni e si dimostrerebbe più economico della piena elettrificazione. Ma il parere degli esperti del ministero per l’Energia a San Francisco afferma che “non si può decarbonizzare la conduttura semplicemente sostituendo il gas naturale fossile con gas rinnovabile” – come informa Michael Boccadoro, direttore dell’associazione per la sostenibilità delle aziende agricole della California “perché il potenziale di biogas da latte sarebbe troppo costoso per essere utilizzato in abitazioni o aziende e, alla fine, dentro i tubi continuerebbe a scorrere in prevalenza gas fossile”.

Ma cosa non si fa per spacciare per buono il gas anche nella temperie climatica di quest’estate terrificante! Andrebbe detto a Matteo Salvini, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, disposti a fare patti col diavolo pur di farci bruciare gas metano in più.

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Petrolio, carbone e gas salveranno il lavoro?

Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano

I delegati di oltre 200 Paesi delle Nazioni Unite erano arrivati ai colloqui sul clima a Katowice con l’incarico di sostenere l’accordo di Parigi 2015. Pur trattandosi di un appuntamento “tecnico” per fare il punto sui progressi o i ritardi rispetto all’agenda fissata tre anni fa, l’attenzione si è focalizzata sulle responsabilità che i leader mondiali si sarebbero assunti nei confronti dell’emergenza climatica. A un mese dalla conclusione della Conferenza possiamo dire che sono state confermate le previsioni più pessimistiche: in tre anni non solo non si sono verificati miglioramenti apprezzabili ma, alla luce degli ultimi dati diffusi dal Global Carbon Project, le emissioni di gas serra sono aumentate per il secondo anno consecutivo nel 2018.

Preso atto di ciò, si deve constatare che l’incombente crisi climatica sta andando oltre le nostre capacità di controllo. Vale allora la pena di andare oltre la ricerca dei colpevoli del passato (peraltro tanto noti quanto insensibili), per metterci in azione come persone e soggetti sociali attivi, capaci con le loro reazioni e comportamenti di imporre un cambiamento di rotta. Tanto urgente da doversi realizzare in un arco temporale breve che, secondo l’Ipcc, non può andare oltre i prossimi 15 anni.

Se questo è il contesto, occorre rendersi conto che la fobia verso i migranti e l’inganno della crescita a spese della natura non servono ad altro che a distrarre l’opinione pubblica, per mantenere immutate le disuguaglianze sociali anche a fronte della sfida del clima. Una sfida di primaria importanza che richiede due impegni cogenti: lasciare sottoterra i combustibili fossili e garantire i diritti umani e sociali nella transizione energetica. Sono queste le autentiche ipoteche per la civiltà a venire e non si riscuoteranno senza conflitti, per cui ogni individuo, ogni soggetto, ogni associazione, ogni organizzazione di interessi o di valori sarà tenuta a contrapporre una visione strategica all’interesse a breve, come è sempre avvenuto nelle fasi di profonda trasformazione.

Sappiamo da dove partire. Il mantenimento della crescita economica avviene tuttora al prezzo di un aumentato consumo di combustibili fossili. Negli ultimi anni – senza andare lontano e tirare in ballo la sconsiderata imprevidenza di Donald Trump Polonia, Germania e Italia non hanno fatto alcun passo indietro nel ricorso al carbone e al gas. In fondo, Katowice ha messo in luce quanto le élite globali, compresi i sovranisti nostrani del “cambiamento”, si aggrappino al business dei fossili e quanto i governi difendano i loro interessi nazionali a essi associati, accettando in compenso l’ineluttabilità del disastro climatico. La situazione è così compromessa e l’inerzia del sistema economico-finanziario così rigida da richiedere che tutte le componenti sociali forniscano un supporto per attuare quella che altro non è se non una vera rivoluzione dell’economia mondiale. Ad ora manca totalmente quella consapevolezza espressa con lucidità nella Laudato Si’ e cioè che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale”.

Data la mia esperienza, ritengo che sia ora che entri in gioco il sindacato, fin troppo silenzioso ma (mi auguro) già capace di segnali al prossimo congresso Cgil. L’accordo di Parigi, oggi messo da parte perfino dall’Europa, accanto ai diritti umani parla esplicitamente di sicurezza alimentare, diritti delle popolazioni indigene, uguaglianza di genere, partecipazione pubblica, equità intergenerazionale, integrità degli ecosistemi e, per il clima, propone una transizione giusta. C’è da chiedersi: su quali gambe? Forse su quelle malferme e incapaci di murare la strada delle corporation e della grande finanza? Al punto in cui siamo, continuare a fare della combustione dei fossili una ragione primaria di profitto porta a violare i diritti umani e a ricattare i lavoratori sotto il profilo occupazionale e dei diritti sociali. Ed è altrettanto chiaro, anche se ce ne scordiamo facilmente, come le persone possano perdere i loro diritti tradizionali di vivere in una foresta (Amazzonia), o in una valle (Tav) o lungo un litorale marino (Tap) quando si infrange l’equilibrio climatico potenziando la filiera fossile oltre il tollerabile. Tutte materie su cui il sindacato ha titolo pieno per essere informato e per negoziare a favore dei suoi organizzati.

I crescenti conflitti sociali legati all’eliminazione progressiva delle industrie fossili danno senso al termine “giusta transizione”, che non può che basarsi su un’attuazione completa della giustizia climatica. Per cominciare, ciò dovrà includere la limitazione del riscaldamento globale a un massimo di 1,5°C, altrimenti il ​​cambiamento climatico aggraverà globalmente le ingiustizie sociali. Carbone, petrolio e gas vanno rapidamente eliminati con una radicalità cui ci ha costretto lo sviluppo industriale ininterrotto e la cui espansione non è negoziabile, anche se ciò minaccia posti di lavoro. È d’obbligo che i lavoratori dipendenti dal sistema fossile non vengano lasciati a se stessi, ma affidati a una rete di sicurezza che li faccia transitare verso un lavoro socialmente significativo e che conservi la loro dignità. Non si tratta di assistenza, ma di diritti, di riconversione “win to win”.

Proprio con una visione strategica un sindacato non corporativo può prevenire una divisione irreparabile tra lavoratori e le comunità colpite dai cambiamenti climatici. Oggi è in atto una campagna insidiosa al riparo della quale governi e grandi attori fossili, in particolare nei Paesi industrializzati, hanno iniziato a chiedere solo compensazioni finanziarie e sgravi per le loro attività inquinanti, al fine di allungare il più possibile i tempi della fuoriuscita da carbone, petrolio e gas e usando come grimaldello per i loro interessi la questione dei posti di lavoro nelle filiere fossili inquinanti. Le stesse associazioni imprenditoriali e le corporation che sostenevano la necessità di chiudere impianti e delocalizzare per competere, di fronte alla crisi climatica si scoprono accaniti difensori del valore sociale e professionale del lavoro nei territori da cui traggono profitti, chiedendo nel contempo una sponda nel sindacato. Capisco come la situazione non sia facile e le cose non siano limpide, ma la posta è troppo alta perché il ricatto ricada su tutti sotto la veste di un interesse di pochi.

I tempi si avvicinano più di quanto si prevedesse e l’attacco è già in corso. Il governo polacco ha ottenuto a Katowice un’ambigua dichiarazione (Solidarity and Just Transition Silesia) per ottenere con l’appoggio di 49 delegati una marcia più lenta rispetto agli accordi internazionali nell’abbandono del carbone. La Commissione Ue è alle prese con un protocollo di sostegno all’industria del carbone e alla siderurgia nei paesi dell’Europa centrale e orientale che hanno chiesto di aderire all’Ue. In entrambi i casi non c’è ombra di organizzazioni sindacali, ancora prede forse delle storiche contraddizioni tra ambiente e lavoro. Basta rammentare quanto sia preveggente la posizione dei metalmeccanici piemontesi a fianco delle ragioni degli abitanti della Val di Susa e quanto imprudente sia l’annuncio di uno sciopero dei lavoratori impegnati nelle grandi opere, senza distinzione della loro utilità e del loro impatto ecologico, da parte del sindacato nazionale degli edili. Temi vecchi e nuovi su cui dibattere, non privi della massima urgenza, per non trascurare l’ineluttabilità di quanto accade in atmosfera e non cedere alla favola che la salute climatica la debbano pagare i lavoratori e i più indigenti.

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Clima, l’accordo di Parigi ha clamorosamente fallito

Al posto del carbone: gas o rinnovabili? In un editoriale su Il Messaggero del 4 dicembre, Romano Prodi definiva una svolta storica la firma di 196 Paesi all’accordo di Parigi 2015 sul clima, che prevedeva severi obiettivi e misure concrete per la riduzione della CO2 auspicata da tutti, Cina e Stati Uniti compresi. Tre anni dopo, a Katowice per la Cop 24, quegli stessi firmatari possono annunciare un clamoroso quanto angosciante fallimento. Le convenienze economiche hanno prevalso sugli impegni politici e il limite di 1,5° C di aumento della temperatura sembra allontanarsi.

L’escamotage degli inquinatori per aggirare i patti siglati, sta nel sostituire allo “sporco” carbone il finto “salvagente” del gas fossile, come se i naufraghi in vista della tempesta scampassero per magia, aggrappandosi a una ciambella bucata. Bruciare gas comporta un po’ meno emissioni dell’equivalente in carbone, ma è pur sempre un’aggiunta di climalteranti in atmosfera. Non doveva essere questa la via d’uscita dall’allarme climatico certificato da tutti gli scienziati, ma i corposi interessi del sistema centralizzato delle fonti fossili ha suggerito trucchi adeguati per continuare a legittimarsi agli occhi dei cittadini distratti. I negazionisti climatici hanno così estratto un “jolly” fasullo, tenuto nella manica, per calarlo sul tavolo a partita aperta. Una carta decisamente differente dagli assi indicati a Parigi per frenare l’aumento di temperatura e, invece, paragonabile a un due di picche, quale è la sostituzione del gas al posto del carbone. Bene, seguendo la metafora, andiamo allora a vedere il mazzo intero, per capire come mai tutti, governi e cittadini, si dichiarano disposti al cambiamento, ma alcuni non ne vogliono pagare il prezzo.

1. La domanda di energia si sposta verso Oriente

Lo scenario in termini di domanda globale di energia sta cambiando profondamente. Se solo nel 2000 Europa e Nord America rappresentavano il 40% della domanda mondiale e l’Asia il 20%, da qui al 2040 questa situazione si invertirà. Se solo 15 anni fa, le società elettriche europee erano le protagoniste nella top ten mondiale, ora sei delle prime dieci sono utility cinesi. Inoltre, la composizione del mix energetico globale vedrà salire la quota di rinnovabili dall’attuale 25% a oltre il 40% nel 2040, non comunque abbastanza da impedire a gas+carbone di rimanere la fonte principale. Come vedremo avanti, non a causa delle arretratezze degli asiatici, ma per la pressione formidabile che lo shale gas statunitense, tenuto a basso prezzo, impone sul mercato delle importazioni in Europa e in Asia.

2. Le fonti fossili crescono

Un quadro significativo di quanto accade e probabilmente accadrà lo offre l’International Energy Agency (Iea) attraverso il World Energy Outlook 2018. “Nei mercati dell’energia, le rinnovabili sono ormai diventate la tecnologia preferita, costituendo quasi due terzi delle capacità globali aggiuntive al 2040, grazie al calo dei costi e all’aumento della domanda derivante dall’economia digitale, dai veicoli elettrici e da altri cambiamenti tecnologici”. Secondo la Iea, il prossimo scenario energetico dipenderà dalle scelte politiche governative in tema di limitazione delle emissioni di CO2. Ma dopo Parigi si è fatto ben poco: dopo due anni sostanzialmente stabili, la CO2 è cresciuta dell’1,6% nel 2017 e i primi dati suggeriscono un aumento continuo nell’anno in corso. Il gas naturale è il maggior responsabile della loro crescita.

Nel 2017 gli investimenti energetici globali sono arrivati a 1,8 trilioni di dollari con un calo del 2% sul 2016, ma “dopo diversi anni di crescita, gli investimenti mondiali nelle rinnovabili sono calati del 7% nel 2017 rispetto all’anno precedente e gli investimenti globali combinati nelle energie rinnovabili e nell’efficienza energetica sono diminuiti del 3% nel 2017 e stanno rallentando ulteriormente nel 2018. Ciò a differenza degli investimenti in fonti fossili, che lo scorso anno sono saliti per la prima volta dal 2014, a 790 miliardi di dollari, contro i 318 miliardi delle rinnovabili. Il mattatore lo fa il gas naturale. Lo rivela l’ultimo studio World Energy Investment 2018  dell’Iea che definisce “preoccupante” un andamento che mette a rischio la sicurezza energetica e gli obiettivi di taglio all’inquinamento.

3. Lo spostamento verso l’elettricità

Il settore dell’elettricità sta vivendo, secondo la Iea, la sua trasformazione più drammatica dalla sua nascita più di un secolo fa. “Nel 2017 il settore elettrico ha attratto la maggior parte degli investimenti energetici, sostenuto da una forte spesa per le reti, superiore perfino a quella dell’industria petrolifera e del gas per il secondo anno consecutivo. L’energia elettrica è sempre più il “carburante” prescelto nelle economie che si affidano in modo crescente a settori industriali più leggeri e a servizi e tecnologie digitali”. La sua quota in termini di consumi finali a livello mondiale sta raggiungendo il 20% ed è destinata a salire. L’impatto dell’elettrificazione nei trasporti, negli edifici e nell’industria è una caratteristica irreversibile. L’elettrificazione apporta benefici, in particolare riducendo l’inquinamento, ma richiede ulteriori misure per decarbonizzare l’alimentazione elettrica.

4. E qui rispunta il gas

Le decisioni finali di investimento per le centrali a carbone da costruire nei prossimi anni sono diminuite per il secondo anno consecutivo, raggiungendo un terzo del livello del 2010. Tutto bene? Niente affatto, perché sull’altro fronte fossile il miglioramento delle prospettive per il settore statunitense dello shale gas sta lanciando questo prodotto in tutti i continenti. Con una base finanziaria più solida e sostenuto dal proprio governo, si è trasformato nel maggior concorrente mondiale nel mercato dei fossili con una produzione che, a dispetto dei danni sull’ambiente, sta crescendo al ritmo più veloce mai registrato.

Le compagnie e i governi sono alla ricerca continua di fonti fossili ancora intatte e a minimi costi concorrenziali, in barba alle preoccupazioni per la temperatura della Terra. La produzione di shale gas statunitense, che si è già espansa a un ritmo record, dovrebbe raggiungere più di 10 milioni di barili al giorno da oggi al 2025. Sarebbe come aggiungere una seconda Russia alla fornitura globale in sette anni, un’impresa storicamente senza precedenti. Per queste ragioni Trump ripudia Parigi e spedisce alla Cop 24 di Katowice autentiche comparse non certo dotate di poteri. Intanto, qui da noi, drammi o commedie si trasformano sempre in farsa. Governi, industriali, giornali e “madamine” di balzacchiana riesumazione duellano con le popolazioni locali sulla Tav e sulla Tap e si genuflettono alle “grandi opere” senza distinzione alcuna. Ci verranno mai a dire con quale impronta ecologica e con quale combustibile inquinante le faranno funzionare?

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