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Lettera di un padre ad una figlia che il 17 Aprile voterebbe per la prima volta

a cura di Andrea Fontana

Cara Eleonora, il prossimo 17 aprile per la prima volta avrai la possibilità di esprimere attraverso il voto la tua opinione. Mi hai spiegato che la politica non ti affascina e che non sai se andrai a votare perché hai l’impressione che non serva granché. Non posso darti torto. Spesso anch’io ho l’impressione di vivere in una finta democrazia, ma resto convinto che qualsiasi altra forma di governo sia peggiore e che la sensazione di disgusto sia causata dalle scelte sbagliate della maggioranza che non ha saputo scegliere gli uomini giusti da cui farsi rappresentare. Questo, però, è un discorso complesso, riguarda demagogia, rappresentatività, onestà intellettuale, opportunismo e integrità dei vari candidati. Lo affronteremo, se vorrai, quando si tratterà di votare per eleggere il sindaco o per le elezioni politiche.

L’appuntamento del 17 aprile è diverso. Si vota per un referendum, anche se a differenza di quanto è successo per quelli sul divorzio, sull’aborto e sul nucleare questa volta il tema è marginale e c’è un significato nascosto. Il referendum è la più alta forma di democrazia perché siamo chiamati a esprimere un’opinione su un aspetto specifico, un po’ come se fossimo tutti in parlamento a votare per l’introduzione o l’abolizione di un articolo di legge. Grazie ai referendum è possibile divorziare, sono scomparsi gli aborti clandestini e abbiamo evitato la costruzione di costosissime e inutili centrali nucleari. Questa volta il quesito è marginale e riguarda la possibilità di concedere proroghe alle concessioni per l’estrazione di gas e petrolio alle poche piattaforme che operano entro le dodici miglia dalla costa. I quantitativi di gas e petrolio estratti da queste piattaforme sono talmente irrisori da rendere quasi insignificante l’esito della consultazione popolare, ma, come ti dicevo, questa volta c’è un significato nascosto.

Una vittoria del sì darebbe un ulteriore chiaro segnale al governo della volontà dei cittadini di accelerare la transizione verso le energie rinnovabili. Una transizione oggi ritenuta inevitabile anche dai sostenitori del no e questo è un grande risultato. Chi sosteneva il nucleare nel 2011, in gran parte gli stessi che oggi invitano all’astensione o a votare no sulle trivelle, ritenevano, infatti, che le fonti rinnovabili avrebbero potuto rappresentare al massimo una quota marginale del fabbisogno energetico di qualsiasi nazione. Cinque anni sono bastati a dimostrare che avessero torto. Come sai, ritengo che energia e acqua rappresentino i temi fondamentali per lo sviluppo dell’umanità. Questioni che riguardano ciascuno di noi molto più da vicino di quanto si possa immaginare. Ti faccio soltanto un esempio per non tediarti. In Siria per conquistare una città agli infami terroristi dell’Isis è bastato assetarla e controllare i pozzi di petrolio e le centrali elettriche. Chi può gestire energia e acqua ha un immenso potere.

Lo sviluppo economico in occidente è stato possibile grazie alla rivoluzione industriale, con lo sfruttamento del carbone per produrre energia all’inizio, del petrolio e del gas in seguito. Questo modello di sviluppo non appare più sostenibile e ha smesso di generare benessere diffuso da tempo. Sono in pochi a raccontare questa verità, che pure è sotto gli occhi di tutti. Tra questi pochi ci sono due personaggi, diversissimi tra loro, capaci di proporre una visone alternativa, papa Francesco e l’ex presidente dell’Uruguay Josè “Pepe” Mujica. Il papa ha scritto un’enciclica rivoluzionaria, nella quale individua con chiarezza le cause dell’imbarbarimento umano e del degrado ambientale. Il secondo, che prima di essere a capo della piccola nazione sudamericana è stato un combattente dei Tupamaros, uno che si è sporcato le mani, non un intellettuale tutto teorie e riconoscimenti accademici, ha invitato a sostituire l’indice di benessere economico con l’indice di felicità. Fai uno sforzo. Leggiti l’enciclica Laudato sì (in allegato trovi il pdf con evidenziate le parti che reputo più significative) e documentati su Pepe (qui uno dei suoi discorsi per me più convincenti https://youtu.be/3SxkMKTn7aQ).

Non sto divagando. Come ho già avuto modo di spiegarti, la democrazia impone alcuni sacrifici. Per esempio informarsi. Sì, perché anche nell’epoca di Internet spesso è difficile informarsi. Richiede tempo, attenzione e presuppone la volontà di non accontentarsi di proclami e slogan. Alcuni diritti che oggi diamo per scontati hanno richiesto grandi battaglie civili e impegno per affermarsi. Pensa alla condizione delle donne, per esempio, o alla cosiddetta rivoluzione sessuale di fine Anni ’60. Conquiste non ancora universalmente valide nonostante la globalizzazione. Le tue coetanee nel mondo arabo non godono delle tue stesse libertà. Ecco, libertà è la parola chiave, il principio dal quale per me derivano tutti gli altri. Libertà non significa fare quello che ti pare, significa soprattutto poter lottare per rendere più giusta e migliore la società, significa poter esprimere il proprio dissenso nei confronti di ciò che ci appare ingiusto.

Tornando al referendum del 17 aprile, ritengo occorra andare oltre la specificità del quesito. Fondamentalmente sono in ballo due visioni contrapposte sul tema dello sfruttamento delle risorse e sulla distribuzione dell’energia. La contrapposizione tra fonti fossili e rinnovabili non è l’unica questione sul tavolo e, forse, è la meno importante, anche perché le prime sono destinate a esaurirsi e tra non molto i costi per il loro sfruttamento diverranno talmente alti da risultare economicamente insostenibili. La questione a mio avviso più significativa riguarda i modelli di sviluppo: centralizzati o diffusi. Con le fonti fossili e con il nucleare era inevitabile avere grandi centrali che smistassero l’energia a chi ne ha bisogno. Dal controllo delle centrali e dei pozzi deriva, inevitabilmente, un grande potere. Oltre all’esempio della Siria che ti ho fatto poco fa, vorrei che tu riflettessi sul fatto che tutte le guerre in Medio Oriente sono avvenute, di fatto, in funzione del petrolio. Lo stesso è capitato nei paesi dell’ex Unione Sovietica, principalmente in funzione del gas. Lo sviluppo delle rinnovabili ha aperto nuovi scenari con la possibilità di produrre energia esattamente nei luoghi dove deve essere consumata. Tante piccole centrali decentrate, invece di pochi grandi impianti centralizzati. Capisci da sola che questo rappresenterebbe una rivoluzione. Renderebbe autonomo dal punto di vista energetico qualsiasi Paese e quasi impossibile il controllo della distribuzione da parte di un’unica entità. Risulterebbero perfino inutili molti conflitti bellici, perché sole, acqua e vento non si possono fermare.

Se domani tutta l’energia necessaria fosse prodotta grazie alle fonti rinnovabili, ma restasse centralizzata, avremmo fatto un grande passo in avanti sul fronte della sostenibilità, ma una rivoluzione a metà. La gestione del potere resterebbe sempre nelle mani di pochi. Ecco, credo che il vero quesito da porsi domenica 17 aprile sia: voglio che in un futuro non troppo lontano la gestione dell’energia diventi più democratica e non resti concentrata nelle mani di pochi?

Io la vedo così. Domenica 17 aprile mi verrà posta una domanda apparentemente insignificante, con risvolti immediati quasi totalmente ininfluenti, che nasconde una questione di fondo fondamentale per la libertà di mia figlia.

Come al solito, ti lascio con una canzone.


Un grande bacio, papà

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La transizione energetica in Italia: tra strategie di conservazione e comunità emergenti

Con una postilla sul referendum del 17 aprile 2016

a cura di Giovanni Carrosio

Siamo nel mezzo di una crisi energetica, forse la piùimportante nella storia dell’umanità. Faccio riferimento al concetto di crisi, così come è stato adoperato da Immanuel Wallerstein: una fase nella quale le contraddizioni interne al sistema energetico dominante non possono piùessere risolte ristrutturando il sistema tale e quale, ma inducono ad un periodo di transizione caratterizzato da instabilitàe oscillazioni sempre più estreme tra varie alternative possibili di uscita dalla crisi. Una fase nella quale il sistema è aperto a diverse soluzioni alternative, ognuna delle quali èintrinsecamente possibile: si fronteggiano progetti di egemonia differenti, alcuni con più possibilità di affermazione, perchésorretti da poteri ancora dominanti, altri più fragili, perché decisamente discontinui rispetto ad essi.

Nei periodi di transizione, chi del sistema è parte, sia in una logica consociativa che antagonistica (movimenti sociali, forze politiche organizzate, gruppi di interesse economici, governi e istituzioni, cittadini e comunità locali) esercita un ruolo importante: in base alla composizione delle pressioni esercitate, il sistema prende un orientamento che con il tempo si fa dominante. I periodi di transizione possono essere anche molto lunghi, certamente caotici: il sistema oscilla in modo disordinato spinto da logiche contraddittorie, ma a un certo punto, il risultato delle pressioni diventa coerente e ci si ritrova collocati in un sistema energetico differente.

Assai difficile prevedere quali saranno i caratteri peculiari del nuovo sistema, non siamo ancora in una fase matura della transizione, e per questo i movimenti sociali, le nuove eco-imprese e le comunità locali hanno ancora molte possibilità per orientarne la direzione. Ciòche dobbiamo fare è innanzitutto cercare di comprendere in modo analitico ciò che sta succedendo. Èindispensabile uno sforzo di analisi per collocare le nostre scelte nel presente, affinché le cose prendano verosimilmente il corso che auspichiamo.

Le ragioni della crisi energetica

La crisi energetica prende forma per una serie di ragioni interne ed esterne al sistema: sono ragioni interne l’esaurimento delle risorse e la crescita della domanda globale di energia; sono invece fattori esterni il cambiamento climatico, la nascita di gruppi di pressione che orientano il proprio agire politico per modificare il sistema energetico, le lotte ambientali portate avanti dalle comunità contro i danni ambientali provocati da grandi impianti per la produzione di energia.

Proviamo ad approfondire i vari fattori citati. Il progressivo esaurimento delle risorse fossili è uno dei fattori predominanti della crisi: su di esso esistono proiezioni condivise, nonostante sia molto difficile fare delle previsioni. I paesi detentori delle risorse fossili tendono a minimizzare i dati che mostrano la scarsità di risorse, così come le grandi compagnie di estrazione. La maggior parte degli scienziati, tuttavia, concorda su proiezioni che ci vedono nel pieno del picco del petrolio, con conseguenze imprevedibili sulla scala temporale: è difficile prevedere quando vi saranno conseguenze irreversibili sui sistemi socio-politici e con quale velocità. L’andamento del prezzo del petrolio sarà un nodo cruciale di accelerazione o rallentamento della crisi energetica: controllarne le dinamiche significa anche governare la crisi. Esistono perciò forze organizzate che certamente hanno più potere di altre nell’orientare il sistema durante la transizione. Il secondo fattore, strettamente connesso al primo, è l’incremento dei consumi da parte dei paesi emergenti. Il fatto che Cina, India e Brasile abbiano sempre più bisogno di energia per dare gambe alla crescita economica, introduce un elemento di instabilità nel sistema energetico globale. Non solo le risorse fossili sono in esaurimento, ma il numero di pretendenti si allarga ed i consumi globali crescono vorticosamente. Le instabilitàche si producono sono soprattutto di natura geopolitica, dovute alla contraddizione tra sicurezza energetica degli stati nazionali e contrazione delle risorse disponibili e alle conseguenti tensioni tra stati per l’accaparramento di nuovi giacimenti. I recenti accadimenti in Ucraina ci mostrano con forza come la competizione per le risorse produca conseguenze geopolitiche incontrollabili. E le drammatiche tensioni che continuano a generarsi a partire dal Medio-Oriente, con l’avanzata del terrorismo di Daesh che si sorregge su un’economia petro- terroristica, ci ricordano come il legame tra consumatori occidentali di energia e padroni dei pozzi sia fatto di intrecci che producono commistioni e zone d’ombra tra apocalittiche categorie etiche come quella del Bene e del Male.

Un fattore esterno al sistema energetico rende il quadro ancora più complesso: mi riferisco al climate change, ovvero alle alterazioni che le emissioni per la produzione di energia da fonti fossili hanno provocato al clima. Gli effetti del riscaldamento del pianeta sono ormai tangibili: essi prendono forma nel caos climatico, che si manifesta con eventi estremi sempre più frequenti, capaci di mettere in ginocchio intere regioni del pianeta. L’esistenza della specie umana sulla terra rischia di diventare assai difficile, a causa dell’innalzamento dei mari, dell’inaridimento di vaste porzioni di terra, di temperature sempre piu elevate e dell’erosione del saggio di produttività dell’agricoltura, che potrebbe mettere in serio pericolo la sicurezza alimentare su scala globale. Le conseguenze economiche di questi eventi atmosferici, che attirano l’attenzione dei poteri dominanti piùdelle catastrofiche conseguenze ambientali, non sono piùtrascurabili e pongono il tema della lotta al cambiamento climatico e delle strategie di mitigazione e adattamento al centro dell’agenda politica di una parte delle organizzazioni internazionali. Una delle principali misure per ridurre le emissioni in atmosfera riguarda proprio il settore energetico: diminuire drasticamente i consumi e convertire il sistema fossile verso un sistema carbon free è l’obiettivo prioritario per provare a mitigare il cambiamento climatico. Queste esigenze si scontrano però con quelle dei paesi emergenti, di molti governi e con gli interessi di grandi gruppi industriali: i paesi emergenti pretendono di perseverare sulla strada della crescita, come l’Occidente ha fatto nel corso degli ultimi due secoli; i governi occidentali e grandi gruppi economici temono che un’applicazione rigorosa del protocollo di Kyoto li porti a perdere l’egemonia sul sistema economico globale.

Esistono ancora due fattori esterni, che si manifestano come frattura tra sistema energetico dominante e società. In primo luogo, crescono le opposizioni delle comunità locali alla ricerca di nuovi siti estrattivi, alla costruzione di nuove infrastrutture energetiche, alla presenza di impianti inquinanti. Ne sono un esempio, nel caso italiano, i movimenti contro la conversione a carbone delle centrali di Porto Tolle, La Spezia, Rossano Calabro, Civitavecchia; i comitati che si battono per la conversione ecologica del sito minerario del Sulcis, la rete di associazioni che contesta la costruzione di rigassificatori al largo delle coste, i cittadini organizzati che si oppongono alle attività estrattive dell’ENI in Basilicata. In secondo luogo, prende forma un consumerismo critico dell’energia. Nascono gruppi di consumatori ed associazioni che reclamano energia pulita e giusta. Alcuni esercitano pressione sui grandi gruppi che gestiscono le risorse fossili e si organizzano per acquisti collettivi di piccoli dispositivi per la micro-generazione di energia da fonti rinnovabili – per esempio le cooperative Retenergie – oppure danno vita a cooperative di consumo di energia 100% etica e rinnovabile – come ènostra, che consente ai propri soci di staccarsi dai tradizionali fornitori di energia elettrica. Altri, si organizzano in forme comunitarie per il raggiungimento dell’autonomia energetica su scala locale, diventando co-produttori di energia. Le associazioni in particolare – come Energia Felice, Comitato Sìalle Rinnovabili No al Nucleare – si mobilitano in positivo per la piena attuazione del referendum sul nucleare. Accanto ai movimenti sociali per l’alternativa energetica, vi è una fitta rete di imprese medio-piccole, che cercano spazio tra le pieghe non presidiate dal sistema dominante: professionisti, installatori, produttori di micro-dispositivi, certificatori energetici, appartenenti alla filiera della nuova edilizia a consumi zero.

Un altro fronte, spesso sottovalutato dai movimenti sociali e loro potenziale alleato, è dato dal riposizionamento di grandi imprese ad alto tasso di innovazione tecnologica, come Siemens, che stanno investendo in nuove tecnologie legate alle smart grid, dando una spinta dall’interno del mondo industriale alla transizione. Si tratta di operazioni spesso ambivalenti, portate avanti anche da colossi del settore energetico tradizionale – pensiamo ai concentratori solari luminescenti di ENI – che fanno parte allo stesso tempo di strategie di conservazione (si veda prossimo paragrafo), e di operazioni che aprono contraddizioni e dissociazione di interessi all’interno dello stesso regime energetico.

Le strategie di conservazione: grandi imprese, carbon lock-in e la trappola del gas

Abbiamo giàdetto come la transizione energetica non sia un processo univoco. Il passaggio da un sistema incentrato sulle risorse fossili ad uno fondato prevalentemente su quelle rinnovabili èun percorso accidentato, con fasi di accelerazione, fasi di stallo e momenti di arretramento. Nei periodi di transizione operano tante forze: resistenza e cambiamento si scontrano. Le forze dominanti adottano diverse strategie per non perdere l’egemonia sul sistema energetico. Alcuni parlano di carbon lock-in, come quell’insieme di azioni funzionali alla conservazione del sistema tecno- istituzionale che sfrutta le fonti fossili. Per riprodursi incontrastato, questo sistema agisce su diversi fronti.

Il primo èpiù tangibile: si tratta della strenua conservazione dell’esistente, soprattutto laddove non esistono forti opposizioni politiche e sociali capaci di mettere in discussione le loro attività e i sistemi regolativi sono molto permissivi sotto il profilo ambientale. La Strategia Energetica Nazionale di Passera va ampiamente in questa direzione, prevedendo anche la sottrazione della materia energetica alle regioni per un ri-accentramento decisionale. Il caso lucano ci rimanda a questo tema: un’area socialmente fragile, dove non esistono consistenti risorse di mobilitazione capaci di rimettere in discussione le attività dell’ENI.

Il secondo fronte èpiù subdolo, perché propagandato spesso come cambiamento in una direzione di sostenibilita. Si tratta dell’ammodernamento dell’esistente, secondo i principi della modernizzazione ecologica. I grandi investimenti in ricerca e sviluppo per la diffusione di tecnologie di cattura e stoccaggio di CO2 nelle centrali a carbone, sono un esempio di come i grandi gruppi orientano la ricerca sulle tecnologie per combattere il cambiamento climatico in una logica di preservazione della propria egemonia. Il carbon capture and storage consente di continuare a produrre energia da carbone, rendendo il processo meno inquinante in termini di emissioni. Si tratta di una innovazione interna al percorso tecnologico del carbone, che ne consente la sopravvivenza anche in ambienti più ostili, dove le pressioni sociali sono forti e le normative ambientali più stringenti. In questo caso si innova per conservare, affinché la produzione di energia da carbone non venga sostituita da sistemi tecnologici alternativi. Su questa tecnologia esistono controversie scientifiche importanti. Molti scienziati e analisti ritengono che lo stoccaggio di anidride carbonica nel sottosuolo non sia affatto sicuro: alcuni paventano un legame tra incremento del rischio sismico ed esperimenti di storage. Si tratta pertanto di una soluzione difficilmente percorribile al fine di ridurre le emissioni climalteranti, ma sulla quale si riversano enormi quantità di denaro per ricerca e sviluppo (a discapito della ricerca su risparmio e rinnovabili). Ancora una volta, perciò, non si trova soluzione ad un problema ambientale, ma lo si sposta su un altro versante non ancora saturo.

Il terzo fronte èdi apertura nei confronti delle rinnovabili e di condizionamento delle politiche di incentivazione e di regolazione. Il sistema dominante entra nel mercato delle rinnovabili, per orientarlo e governarlo, imprimendo accelerazioni e provocando fasi di stallo a seconda delle proprie esigenze. Il tentativo di governare le rinnovabili è funzionale a costruire un sistema nel quale esse ricoprano un ruolo esiziale e complementare. Enel, per esempio, ha da qualche anno dato vita alla società controllata Enel GreenPower, con l’obiettivo di investire nelle energie rinnovabili, mantenendo il controllo sul mercato dell’energia. Gli investimenti nelle rinnovabili cresciuti con forza negli ultimi cinque anni, hanno provocato una destabilizzazione del sistema elettrico nazionale, con importanti problemi di gestione della rete. I grandi gruppi hanno investito in produzione di energia, senza intervenire sullo stoccaggio e l’ammodernamento delle reti. In questo modo, contribuiscono a diffondere una immagine falsata sulle rinnovabili creando un clima di delegittimazione. L’immagine che trasmettono è di inaffidabilità e incapacità di garantire la continuità nella fornitura di energia.

Ai tre fronti di conservazione va aggiunta la trappola del gas: ovvero, l’idea dominante per cui il passaggio dalle fonti fossili alle rinnovabili richieda una fonte di transizione rappresentata dal gas naturale. Ma gli ingenti investimenti che stanno facendo le grandi imprese fossili con il consenso di alleanze interstatali su questo fronte sono un ulteriore tentativo di bloccare la transizione. L’imponente apparato tecno-istituzionale del gas naturale si impone come nuovo dispositivo di conservazione del sistema fossile. L’Italia si trova al centro di questa strategia, con l’ambizione di diventare hub strategico del gas per il resto d’Europa. Rientrano in questo obiettivo i tre rigassificatori entrati in funzione negli ultimi anni (Panigaglia, Porto Tolle e Livorno), i quattro approvati (Porto Empedocle, Gioia Tauro, Priolo Gargallo, Trieste, Capobianco) e i cinque ancora in fase progettuale (Ravenna, Taranto, Monfalcone, Rosignano, Porto Recanati). A questi va aggiunto il Trans Adriatic Pipeline (TAP), un progetto di gasdotto che dalla Grecia dovrebbe passare per l’Albania, immergersi nel Mar Adriatico per poi rispuntare in Puglia, in uno dei tratti di costa piu belli e incontaminati del Salento. Il TAP èsolo un segmento di un’opera ancora più grande, un serpentone di 3.500 chilometri che una volta completato porterà in Europa il gas che si trova al largo dell’Azerbaigian, nel Mar Caspio. In un secondo momento il Corridoio potrebbe comprendere anche il gasdotto Trans-Caspian, dal settembre 2011 oggetto di un negoziato diretto tra la Commissione europea e il governo del Turkmenistan. Gli altri due tratti si chiamano Trans Anatolian Gas Pipeline (TANAP) che, come dice il nome, interesserà il territorio turco, e Southern Caucasus Gas Pipeline, che parte dal Mar Caspio e passa per le Georgia.

L’alternativa energetica: risparmio, micro-generazione e comunità locali

Di fronte alla pervasività del sistema dominante e alla sussunzione delle rinnovabili all’interno di una strategia di conservazione, sembra impossibile intervenire dal basso per orientare la transizione energetica verso un sistema energetico democratico, giusto e libero dal carbonio. Nella lunga transizione dal carbone ai giorni nostri, i soggetti del cambiamento sono mutati.

Un bravo storico della Columbia University, Timothy Mitchell, nel suo libro “Carbon Democracy. Political Power in the Age of Oil (2012)”, ha delineato una relazione molto stretta tra l’avvento del carbone e l’importanza della classe operaia come soggetto politico organizzato all’interno delle democrazie occidentali. Il ciclo del carbone permetteva alla classe operaia di poter rivendicare diritti attraverso lo sciopero in una serie di nodi centrali del ciclo produttivo, dalla sua estrazione fino all’utilizzo nelle centrali. Bloccare una sola di queste fasi significava far mancare energia a tutto il sistema produttivo di uno stato nazionale. Pensiamo a quanta risonanza e valore simbolico ha avuto ancora negli anni 1984-1985 lo scontro tra i minatori del carbone e la Tatcher, che voleva chiudere – ed effettivamente chiuse – tutti i siti minerari in Inghilterra non solo per ragioni economiche, ma per sottrarre ai lavoratori un terreno di lotta attraverso cui rivendicare diritti e democrazia. E non a caso, la chiusura delle miniere prevedeva una transizione energetica verso petrolio e nucleare, fonti energetiche che richiedono un sistema di potere molto concentrato.

Per Mitchell il declino tardo novecentesco del movimento operaio come forza del cambiamento ha una delle cause proprio nel mutamento del sistema energetico e nel passaggio dalla centralità del carbone a quella del petrolio. Quest’ultima, fonte poco controllabile socialmente perché dislocata soprattutto nei paesi mediorientali e bisognosa di un apparato militare per gestirne le implicazioni geopolitiche, ha fatto sì che i lavoratori e i cittadini dei paesi occidentali perdessero la possibilità di controllare l’elemento primario per il funzionamento degli apparati sociali e produttivi della società contemporanea.

Come si collochino oggi i lavoratori nella transizione energetica, se forza di cambiamento o di conservazione, è un elemento che richiederebbe un approfondimento. Se il conflitto è tra decentramento dei sistemi produttivi – fino ai micro-dispositivi famigliari – e centralizzazione emergono nuovi soggetti: i cittadini e le comunità locali, insieme ai professionisti e alle piccole e medie imprese, hanno ampi spazi di agibilità politica dentro il paradigma della transizione. Essi mettono in luce una serie di antinomie che ci portano oltre la dialettica tra capitale e lavoro: decentramento/accentramento, risparmio/produzione, autonomia/dipendenza, sovranità energetica/sicurezza energetica. Dentro questa cornice concettuale, il modello “fordista” di produzione di energia entra certamente in crisi con tutte le sue componenti, anche quella del lavoro e della sua rappresentanza. E cambiano anche le forme e i fini delle lotte. Il risparmio energetico diventa lo strumento più forte per orientare la transizione dal basso (si veda Leonardo Becchetti, Il mercato siamo noi. Politiche per un’economia della felicità) mettendo in discussione il patto produttivistico tra imprese fossili e lavoro. Risparmiare energia significa rendere superflua una buona parte della produzione, riducendo il peso che le grandi imprese energetiche hanno sull’ambiente. Con le nuove tecnologie e adottando comportamenti virtuosi è possibile ridurre drasticamente i consumi di energia mantenendo inalterata la qualità delle nostre vite. Fare pressione per ambiziose politiche di risparmio energetico su più livelli è molto importante. Ma è altrettanto importante mobilitare cittadini e comunità locali perché adottino strategie di risparmio. Il risparmio di energia è una forma di critica materiale al sistema energetico dominante: bisogna riflettere come mai fino ad oggi le mobilitazioni locali contro il biocidio delle grandi imprese di energia non hanno promosso forme di lotta inedite e generalizzabili come lo sciopero dei contatori; può essere mobilitato un patrimonio di creatività per innovare le forme di protesta, in modo tale da sottrarre al sistema fossile la linfa vitale. Il secondo strumento per orientare la transizione energetica è la produzione di energia in forma decentrata, a livello di comunità o di singole famiglie. In Italia, ad esempio, vi è stata una straordinaria diffusione del fotovoltaico.

Questa diffusione ha avuto certamente connotati ambivalenti: ci sono state speculazioni sugli incentivi da parte di fondi di investimento e imprese multinazionali e una buona parte della potenza installata è rappresentata da impianti a terra, che hanno occupato terreni agricoli talvolta molto fertili. La questione importante che pochi osservatori hanno messo in evidenza, è che circa 200 mila famiglie, grazie al sistema di incentivazione, hanno installato piccoli impianti raggiungendo l’autonomia energetica della propria abitazione. Le motivazioni possono essere molteplici, ma la cosa che conta è che queste persone sono uscite dal sistema fossile per la produzione di energia domestica. Su un livello più alto, è necessario ripensare l’interazione tra utenti ed ex municipalizzate, soprattutto nel Nord Italia. Le più importanti multi-utilities del Paese si muovono ormai come imprese de-territorializzate e rappresentano uno dei freni più importanti alla transizione energetica.

La rivendicazione di spazi di democrazia all’interno di questi gruppi, attraverso la partecipazione diretta dei cittadini, è un elemento fondamentale per gestire a livello locale la transizione, invertendo la deriva produttivistica che queste imprese hanno assunto e riportando la lettura dei bisogni delle comunità locali al centro delle strategie imprenditoriali. Altrettanto importante, conoscere e mettere in rete le comunità locali che hanno adottato in modo autonomo azioni collettive per la produzione ed il risparmio di energia locale: nei piccoli comuni delle aree interne del Paese, esistono tanti progetti ed esperienze concrete di socializzazione dell’energia e di comunità in transizione verso un sistema libero dal carbonio. In altre zone, emergono esperienze come i Gruppi d’Acquisto di energia verde, o ancora i GAS per l’acquisto collettivo di micro- dispositivi energetici. Si fanno largo imprese sociali che operano nel settore del risparmio, e nuove cooperative di produzione e consumo, per la realizzazione di impianti fotovoltaici, mini- idroelettrici, eolici attraverso forme di azionariato popolare.

Legare queste esperienze di pratica dell’alternativa energetica alle lotte contro il biocidio provocato dal sistema energetico dominante è allora strategico, al fine di intervenire nella crisi energetica ed aprire inedite vie d’uscita, che si pongano come alternativa alle diverse facce assunte dalla predominante spinta alla conservazione.

Postilla: il referendum del 17 aprile 2016 nella transizione energetica

Il referendum del 17 aprile – al di là del perimetro ristretto del quesito sul quale siamo chiamati ad esprimerci – rappresenta un voto sulla transizione energetica. Quel giorno siamo chiamati a fare una scelta di campo: con il mondo ormai decadente delle fossili, o per una alternativa energetica ancora in gran parte da scrivere, ma sulla quale i cittadini, le eco-imprese, le comunità locali, i movimenti sociali possono realmente incidere nella sua definizione. E sarà anche l’occasione per chiedere con forza l’attuazione degli impegni presi durante la Conferenza di Parigi, COP21. Arturo Lorenzoni, economista dell’energia dello IEFE – Bocconi, coglie questa macroscopica contraddizione “applaudiamo al timido accordo raggiunto a Parigi alla Cop21, auspicando un’azione efficace per decarbonizzare l’economia, oppure ignoriamo i vincoli climatici e continuiamo a guardare all’economia attuale, preservandone equilibri e traiettorie tecnologiche? Le due cose non sono conciliabili, per quanto il nostro governo provi a difendere la sua posizione altalenante”.

Allo stesso modo, Giovanna Ricoveri, nell’ultimo editoriale della rivista Ecologia Politica, ci ricorda come il referendum rappresenta una occasione per invertire la politica ambientale del governo italiano, che da una parte sottoscrive l’impegno preso alla Conferenza di Parigi per contenere la febbre della Terra e dall’altra non solo incentiva le fonti energetiche fossili a discapito delle rinnovabili, ma invita i cittadini a non andare a votare affinché il referendum fallisca.

La vittoria del SI al referendum del 17 aprile prossimo sarà un ulteriore tassello per orientare la transizione energetica verso un modello democratico e giusto, che guarda al futuro e al lavoro, come avrebbe detto un grande profeta liberale e socialista del nostro paese, Aldo Capitini, un voto per l’omnicrazia (energetica).

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Cop21: Un accordo “storico” già sparito dai radar

a cura di Mario Agostinelli – Febbraio 2016

 

SOMMARIO

Se 2 °C vi sembran pochi…
Un esame dell’accordo
Cosa succede in Europa dopo Parigi
Due indicazioni: carbon tax e lotta alla povertà
Oltre Parigi e la Cop21

 

SE 2C° VI SEMBRAN POCHI…

L’aspettativa con cui è stato a lungo invocato l’Accordo delle Parti (Cop 21) raggiunto a Parigi il 12 dicembre 2015, non metteva certo in conto una sua così rapida scomparsa dall’agenda dei 195 Governi che l’hanno sottoscritto a conclusione dell’anno più caldo della storia. Forse il colpo di teatro di fissare a 1,5°C anziché a 2 °C il limite massimo tollerabile per il riscaldamento del pianeta ha domato l’ansia e convinto che, una volta convenuta all’unanimità la soglia di pericolo, l’urgenza di non oltrepassarla non rimanesse più la questione autentica.

Tra il dire e il fare c’è di mezzo una decarbonizzazione dell’economia che risulta sconvolgente per tutti gli equilibri (o gli squilibri!) geopolitici in divenire e per le fortune del capitalismo a livello globale. Ed è questa la questione che nessun governo si sente di affrontare in tempi immediati, quanto il degrado della natura e il cambiamento climatico richiedono in accordo con tutte le previsioni scientifiche.

Per raggiungere l’obiettivo di 2 °C, con una probabilità di almeno il 66% è necessario che tutte le emissioni di gas serra accumulate nel periodo 1850-2100 restino al di sotto dei 3.670 Gton di CO2 equivalente mentre la sola CO2 di futura emissione dovrebbe essere limitata a un massimo di 3.000 Gton nello stesso periodo. Il bilancio o quota massima di emissione disponibili per il periodo 2015-2100 è a soli 855 Gton, il che significa lasciare almeno due terzi di riserve comprovate di petrolio sottoterra e comunque, contemporaneamente, non emettere al ritmo attuale per oltre 17 anni!

Dobbiamo ammettere che lo scenario qui sopra, fornito come indifferibile dai 17 istituti di ricerca più prestigiosi, guidati dal Max Plank Institute, risulta inconcepibile per chiunque viva nel nostro quotidiano. Questo la dice lunga sull’egemonia ottundente esercitata sui modi di produzione e consumo. L’assoluta incompatibilità tra l’ideologia neoliberista e l’immagine del pianeta e del suo futuro restituita dalla scienza più recente costituisce un fatto nuovo nello svolgimento della modernità. E infatti il turbamento è palpabile: nessuno più osa parlare irridendo ai nostalgici del ritorno al tempo delle candele, ma semmai prende piede l’affannoso e mistico suggerimento di applicare le tecnologie più avanzate (quali?) per procrastinare l’impiego di petrolio, carbone e gas e di mascherarne gli effetti, al fine di sostenere la cosiddetta “rivoluzione industriale 4.0”, in cui robot, intelligenza artificiale e energia a basso prezzo – anche se sporca – dovrebbero risparmiare manodopera e rinnovare una crescita economica fruibile da quote ristrette di abitanti, al riparo dai mutamenti catastrofici. Quindi, niente candele, ma enormi cucine e centrali a gas, navi per container a petrolio e fornaci a carbone sì.

In questa direzione si è concretizzata la risposta che il Club di Davos a gennaio ha contrapposto all’analisi dell’IPCC resa pubblica a dicembre e, almeno formalmente, accettata dai Governi presenti alla Cop 21.

Perché le indicazioni uscite dall’evento nella località svizzera sono emblematiche di quanto il mondo sia politicamente e economicamente lontano dal prendere atto del cambiamento necessario? L’analisi dell’Enciclica Laudato Sì afferma che nella disuguaglianza sociale affondano le radici della crisi ambientale. E dove, meglio che al Club di Davos, si chiude il cerchio tra disuguaglianza e clima, dato che proprio lì si danno rappresentanza 62 persone (nel 2010 erano 388, nel 2014 si erano già ridotte a 80, con un trend di concentrazione impressionante) che possiedono più della ricchezza di 3,6 miliardi di cittadini del mondo (la metà degli abitanti del pianeta)?

Questi decisori, incomparabilmente capaci di accentrare ricchezza, scambiandosi i loro biglietti da visita assistiti da apparati statali, economici e mediatici del massimo livello, puntano a tenere le redini della civiltà della globalizzazione e, quindi, a contrastare anche le già controverse indicazioni della Cop 21 sul clima, continuando a puntare su investimenti in nuovi gasdotti, trivelle in mari cristallini e pozzi di perforazione per gas di scisto in terreni ormai traforati come un gruviera. Profitti e ricchezze crescono in un’ipotesi di futuro prossimo da mantenere e di un futuro remoto da esorcizzare, dislocando ulteriore potere nelle mani di quell’1% assistito dal compiacimento degli accoliti di vario grado del neoliberismo. Non deve quindi stupire se il nostro Renzi, incantato dai twitter, dai CEO, come da tutte le rivoluzioni a 2.0, 3.0, 4.0 e così via, dopo una celebrazione di prammatica dell’intesa di Parigi, si sia subitamente adattato, rilanciando la trivellazione dei nostri mari e piazzando il 17 Aprile lo sgradito referendum NO-TRIV, anche al costo di 360 milioni di euro che usciranno di tasca nostra per il mancato accorpamento con le elezioni amministrative.

Il cambio di direzione richiesto dalla decarbonizzazione comporta una straordinaria visione della riconversione, con capacità di programmazione e di politica industriale che connettono locale e globale e uno spiegamento di risorse per la pace oggi tenute volutamente fuori gioco. Si pensi solo alle armi e agli eserciti che girano per il mondo e che non potrebbero certo fare a meno del petrolio. Sistemi d’arma e apparati bellici continuamente allertati e impiegati e che consumano complessivamente come la somma di 180 Paesi del pianeta, dal cui conteggio sono fuori solo 5 grandi consumatori: USA, Cina, UE, Russia e Giappone. (il Pentagono da solo, considerato come un Paese, risulterebbe il trentaseiesimo emettitore di CO2!).

Una prima vittoria i grandi consumatori l’hanno ottenuta quando hanno ottenuto che la linea di fondo prevalente optasse per l’adattamento agli effetti negativi dei cambiamenti climatici, lasciando sullo sfondo le misure indispensabili subito per invertire l’effetto sul clima di un sistema a cui si lascia tempo per infrangere perfino l’equilibrio metastabile a cui è pervenuto, non mettendo a repentaglio né la fine dei fossili, né la tipologia e la struttura corrente della produzione alimentare.

So di esprimere un giudizio non venato da ottimismo: ma senza una spinta da parte di forze popolari e movimenti organizzati, e senza decisioni pratiche, vincolanti e conseguenti la svolta culturale – che pure si è registrata alla Cop21, com’era d’altra parte prorotta da Rio 92 – fornirà l’alibi per non intaccare l’essenza del capitalismo neoliberista e per farci ricadere nell’ennesima prospettiva caritativa con cui si eludono giustizia climatica e sociale insieme.

 

UN ESAME DELL’ACCORDO

Prima di entrare nell’esame più particolareggiato dei paragrafi in cui è strutturato l’accordo del 15 dicembre, riassumo sinteticamente i risultati certi convenuti nei giorni seguenti ai terribili attentati del Bataclan: un aumento della temperatura media della superficie terrestre da 3 °C a 3.5 °C rispetto ai tempi pre-industriali; l’annullamento delle responsabilità delle emissioni accumulate fino ad oggi; la promozione del commercio mondiale dei crediti di carbonio e il respingimento delle sanzioni di ingiustizia intergenerazionale. Attorno a questi perni rigidi si aprono varchi accennati con timidezza, senza cogenza né esigibilità sanzionabile, che a mio giudizio non saranno percorsi dai governi (a parte forse la sola Cina), ma potranno essere forzati da una mobilitazione informata e cosciente, che non rimane inerte e in attesa delle prossime Cop rinunciando all’organizzazione di lotte mirate. Occorre prendere atto che allo stato attuale e per un un tempo indeterminato una minoranza della popolazione mondiale si sta ancora appropriando del più vitale dei beni comuni: la capacità dell’atmosfera di trattenere gas serra.

Il preambolo è una componente dichiarativa, priva di valore giuridico, un elenco delle azioni da intraprendere, un auspicio per realizzare “principi di equità e di responsabilità comuni ma differenziate in base alle rispettive capacità, alla luce delle diverse situazioni nazionali”. Si raccolgono principalmente preoccupazioni identificate dai Paesi in via di sviluppo e dai movimenti sociali in anni di negoziati e poi in gran parte lasciate da parte nel testo finale: “Le parti dovrebbero rispettare, promuovere e tener conto dei loro rispettivi obblighi in materia di diritti umani, il diritto alla salute, i diritti dei popoli indigeni, le comunità locali, i migranti, i bambini, le persone con disabilità e le persone in situazioni vulnerabili e il diritto allo sviluppo e l’uguaglianza di genere, la crescita delle donne e l’equità intergenerazionale”.

Un team specializzato di avvocati e contrattualisti dei paesi industrializzati ha fatto pressione in sede di estensione dell’accordo perché entrassero clausole conformi a dilazionare i tempi. Parole chiave sono state attentamente selezionate per proteggere interessi settoriali e nel caso del virgolettato di sopra le delegazioni degli Stati Uniti, Unione Europea, Giappone e Canada hanno ottenuto di trasformare l’originale “devono” nella sua forma condizionale, con una componente dichiarativa priva di valore giuridico. Nella stessa stesura finale ci si limita a rilevare, anziché “riconoscere” l’importanza della tutela della biodiversità “riconosciuta da alcune culture” e l’importanza “per alcuni” del concetto di giustizia climatica.

148 Paesi hanno sottoposto i loro impegni di riduzione in preparazione della Conferenza, denominati “Intended Nationally Determined Contribution” (INDC). Si tratta di “offerte” volontarie nazionali di contribuzione alla lotta ai cambiamenti climatici nelle sue diverse espressioni (mitigazione, adattamento, scambi tecnologici, finanza). Una copertura tra l’85% ed il 90% delle emissioni globali, che va messa positivamente a confronto con quella del solo 12% dei 35 Paesi del Protocollo di Kyoto. Ma gli INDC fornite dai PVS si basano sulla richiesta di ingenti somme richieste ai Paesi più ricchi e allo stato attuale non coperte da finanziamento.

Viene ribadito il mantenimento dell’impegno a mantenere l’aumento della temperatura media dell’atmosfera entro 1,5 °C per la fine del secolo rispetto al valore relativo pre-industriale. Ma, a differenza dell’IPCC (che vede finalmente e con soddisfazione accolto l’obiettivo spesso negato) non viene definita né la strategia né il percorso per garantirne la realizzazione. Nel caso in cui le forme volontarie di cooperazione (INDC) fossero soddisfatte, l’umanità sarebbe incanalata verso un aumento tra 3 °C e 3,5 °C. La possibilità di evitare un aumento della temperatura sopra 1,5 ° C si riduce ulteriormente quando si prende in considerazione il fatto che l’accordo entra in vigore solo nel 2020 e che la maggior parte degli impegni volontari registrerebbe possibili riduzioni delle emissioni a partire dal 2025/2030. Oltre al resto i paesi industrializzati, il cui sviluppo è stato basato sull’accumulo di gas serra nell’atmosfera, non devono adottare obiettivi di riduzione assoluta delle emissioni future di tutte le loro economie: tale richiesta era sopravvissuta a più di 20 anni di negoziati ed è il principio fondamentale su cui si basa il protocollo di Kyoto, ma anche questa volta si è ricorsi al condizionale “dovrebbero”

L’obiettivo principale della decarbonizzazione dell’economia, così duramente discusso nelle riunioni preparatorie e sottolineato come priorità dall’IPCC, è stato ridotto a un vago riferimento a “le parti intendono realizzare che le emissioni raggiungano un picco al più presto possibile” per poi “rapidamente ridurre le emissioni” al fine di “raggiungere un equilibrio tra emissioni antropiche dalle fonti e dall’assorbimento dei pozzi nella seconda metà del secolo …” Il picco di emissione può essere di qualsiasi grandezza, con un periodo di tempo indefinito perché si realizzi, mentre la portata del saldo tra emissioni e livelli potrebbe essere esteso fino alla fine del secolo.

Non si menziona neanche una volta che i combustibili fossili abbiano termine. Ce se ne fa una ragione quando si considera che, secondo un’analisi congiunta dell’Istituto per lo Sviluppo Internazionale e dell’ODI, solo i paesi del G20, le prime 20 economie, canalizzano ogni anno 450 miliardi di dollari di fondi pubblici sotto forma di sussidi alle compagnie petrolifere. Durante la legislatura 2013-2014, le compagnie petrolifere USA hanno contribuito con 326 milioni di dollari ai membri del Congresso degli Stati Uniti per finanziare le loro campagne elettorali e per influenzarne le decisioni. Tra i favori ricevuti in cambio per lo stesso periodo, il Congresso ha fornito sussidi alle compagnie petrolifere per 34 miliardi di dollari. Naturalmente sono state confermate le esenzioni ormai consolidate: l’accordo esclude le emissioni generate dalla attività militare come l’aviazione e il trasporto marittimo, privilegiando soprattutto gli interessi strategici e commerciali dei paesi industrializzati.

Le trattative sul riscaldamento globale hanno rimandato nel tempo l’impegno dei paesi industrializzati a fornire 100 miliardi di $ ai PVS, in cui vi è l’80% dell’umanità, per sostenere il loro contributo agli obiettivi dell’accordo. Eppure, secondo il SIPRI la spesa militare globale è superiore a 1.700 miliardi $ ogni anno. Solo gli Stati Uniti superano i 650 miliardi e l’Europa i 450 miliardi. Nel suo discorso a Parigi, John Kerry è stato particolarmente generoso nel raddoppiare l’eventuale contributo degli Stati Uniti al Fondo verde per il clima, da 400 a 800 milioni! L’impegno a 100 miliardi non è stato confermato. E’ rimasto solo l’enunciato che “i paesi sviluppati dovrebbero fornire risorse finanziarie alle parti che sono paesi in via di sviluppo ” …” Nel 2025 una nuova configurazione di contributo collettivo dovrà essere di almeno 100 miliardi di dollari l’anno, tenendo conto delle esigenze e delle priorità da stabilire per i paesi in via di sviluppo “.  I PVS hanno sottolineato che i paesi sviluppati tendono a spostare la loro cooperazione finanziaria e tecnica alla mitigazione del riscaldamento globale, minimizzando gli investimenti necessari per adattarsi e proteggersi dagli impatti di un cambiamento negativo del clima. Le misure di mitigazione tendono a beneficiare entrambi i gruppi di paesi, mentre solo l’adattamento va principalmente a beneficio dei paesi che ottengono la cooperazione..

Vengono sostenuti e rafforzati i meccanismi di commercializzazione delle emissioni legate al clima (ETS). Le parti, infatti, non si impegnano necessariamente a ridurre le loro emissioni con misure interne, si sforzano di adottare “misure” in questo senso. Mentre i contributi sono determinati a livello nazionale, le misure di mitigazione non devono necessariamente esserlo, aprendo così la possibilità di misure di mitigazione adottate a compensazione in altri paesi, prendendo in considerazione anche “la copertura di spese amministrative per aiutare le Parti che sono in via di sviluppo”

Il principio della responsabilità comune ma differenziata, una componente chiave dell’accordo quadro sui cambiamenti climatici di Rio del 1992, fa riferimento alla necessità per ogni paese di assumersi la responsabilità sia proporzionale al proprio contributo al riscaldamento globale che alle proprie capacità tecnologiche ed economiche. Il contributo di ogni “parte” alla minaccia del riscaldamento globale non dovrebbe essere proporzionale alle sue emissioni annue attuali, ma all’accumulato almeno per le emissioni a partire dal 1900. Ciò vale in particolare nel caso delle emissioni di CO2, perché il loro potenziale di riscaldamento rimane attivo per secoli.

La conversione obbligatoria delle infrastrutture energetiche nei paesi in via di sviluppo per evitare inquinamento e per l’energia rinnovabile, senza un accordo vincolante sul trasferimento di risorse finanziarie e tecnologiche, tende ad approfondire sia la dipendenza economica e tecnologica che rafforzare l’ordine economico internazionale imposto dopo la seconda guerra mondiale. Il superamento di questa situazione dipende soprattutto dal riconoscimento del debito climatico accumulato fino ad oggi. Sulla base di questo principio fondamentale, è evidente che i paesi industrializzati rappresentano la maggior parte della responsabilità delle emissioni accumulate finora. Dei 2.145 milioni di tonnellate di CO2 emessa in atmosfera tra il 1900 e il 2014, il 72% corrisponde ai paesi industrializzati. La responsabilità differenziata è ancora maggiore se si tiene conto sia del potenziale economico e tecnologico che del fatto che la loro popolazione rappresenta solo il 18% della popolazione mondiale. Tuttavia, l’accordo di Parigi ignora tali responsabilità e gli impegni, presentati nel quadro della conferenza, sono solo volontari, non vincolanti. Pertanto, gli obblighi economici e tecnologici accumulati dai paesi industrializzati per presentare la riparazione alle emissioni sono diluiti e non esigibili. Infatti si recita: “Si è convenuto che l’articolo 8 dell’accordo, che si riferisce alle perdite e danni relativi agli impatti dei cambiamenti climatici, non implica né comporta alcuna forma di responsabilità giuridica o compensazione”.

In quanto alle foreste, si fa riferimento a “l’importanza di mantenere e aumentare, a seconda dei casi, pozzi e serbatoi di gas ad effetto serra”. Qui ci si riferisce non solo alle foreste come pozzi e serbatoi di gas ad effetto serra, ma come strumenti per la generazione di crediti di carbonio nei paesi in via di sviluppo.

Gli oceani sono i dimenticati di questa convenzione globale. Attori e vittime del cambiamento climatico, che tuttavia svolgono un ruolo chiave nella regolazione del riscaldamento globale. La massa di acqua salata che copre più di due terzi del pianeta funziona come un clima inclusivo che limita la portata del cambiamento climatico sia perché assorbe sostanzialmente tutto il calore che si accumula nell’atmosfera, che il 28% delle emissioni di anidride carbonica prodotte dalle attività umane.

L’agricoltura ha ricevuto solo la più superficiale delle menzioni alla Cop21. Ci sarebbe da riflettere sulla incomunicabilità che si è creata tra i due eventi del 2015 più propagandati e rapidamente rimossi: Expo di Milano (vetrina dell’alimentazione) e Cop21 di Parigi (compromesso intergovernativo sul clima). Evidentemente, lo sforzo di riflessione dei movimenti viene vieppiù emarginato ed è scomparso anch’esso dai radar…

COSA SUCCEDE IN EUROPA DOPO PARIGI

Che l’andamento per le fonti fossili non sia entusiasmante, lo si può vedere anche dal trend di declino di carbone, nucleare e gas in Europa, se si guarda alle centrali andate in pensione: nel 2015 si sono fermati o dismessi impianti a carbone per oltre 8 GW, a gas per 4,2 GW, a olio combustibile per 3,3 GW e da fonte nucleare per 1,8 GW.

Il nostro Governo, che fa di prammatica la voce grossa a Bruxelles, sulle questioni energetiche va invece completamente a ruota delle lobby continentali che premono su una Commissione ormai smarrita, anche sulla questione climatica. Tutto sembra nascere e decidersi in luoghi ristretti di cui le popolazioni non sono informate.

La Commissione Europea ha varato un piano di importazione di gas naturale liquefatto (GNL) e tutti hanno pensato alla imprevista disponibilità di creare infrastrutture per importare gas da fracking USA, al fine di ridurre la dipendenza dalla Russia. Anche se l’accordo di Parigi era stato salutato come un chiaro segnale al mercato che l’era dei combustibili fossili inquinanti era finita, è la politica che si è messa a rilanciare! Eppure il gas naturale – da fracking in particolare – è anche in gran parte composto di metano, un gas serra che ha 86 volte il potenziale di riscaldamento globale del biossido di carbonio. La produzione di energia elettrica a gas è solo un bene per il clima rispetto alla produzione da carbone, se eventuali perdite di metano nella produzione, raffinazione e trasmissione, è inferiore al 3,2%. Ma i rilevamenti dei tassi di emissione via satellite hanno recentemente dimostrato che le concentrazioni di metano sono aumentate drasticamente in molte delle principali regioni produttrici di shale gas negli Stati Uniti. Tenuto poi conto che il trasporto avverrebbe via nave, il bilancio delle emissioni diventa insostenibile secondo l’accordo di Parigi.

Infine, va ricordato come un rilancio o un ricondizionamento delle centrali nucleari in Europa sia reso improbabile dai costi e dai rischi. Molti a Davos hanno cercato di rilanciare una produzione “pulita da emissioni climalteranti” come nel caso del ciclo dell’uranio. Tuttavia, un documento della Commissione ancora non pubblicato, ma reso noto da Reuters, rivela che l’Europa è in deficit di 118 miliardi di euro per lo smantellamento delle sue centrali nucleari e la gestione dello stoccaggio delle scorie. Infatti, la stima prevista per l’intera operazione è di 268,3 miliardi di € a fronte di riserve nei Paesi per 150,1 miliardi di €. Solo la Germania ha accantonamenti sufficienti, mentre la Francia ha un deficit di 51 miliardi. Quindi, tempi duri, se non impraticabili, per il rilancio dell’atomo in Europa!

La sospensione del programma nucleare in Italia a seguito del referendum risulta oggi una autentica benedizione per una economia in crisi come la nostra.

Ragione in più perché i cittadini non stiano a guardare ma, di fronte a governanti così imprevidenti e senza bussola, vadano davvero tutti a votare il 17 Aprile, a dispetto degli inciampi e della disinformazione che vorrebbero frapporre tra casa nostra e le urne.

DUE INDICAZIONI: CARBON TAX E LOTTA ALLA POVERTA’

Un notevole gruppo di 32 personalità, guidato da Stiglitz e altri tre premi Nobel per l’economia o la fisica, chiede l’introduzione effettiva di tasse per le emissioni di carbonio, sia per coprire i costi ambientali e sociali che sono ora trasferiti alla società, che per ridurre le emissioni e investire in sistemi energetici senza emissioni di carbonio. Una politica di questo tipo offrirebbe le migliori possibilità di combattere il riscaldamento globale ad un minimo di sforzo.

Vengono suggeriti quattro principi per combattere il riscaldamento globale senza compromettere la prosperità economica: le imposte sulle emissioni di carbonio su tutti i combustibili fossili devono essere applicate in proporzione al loro contenuto di carbonio ed a monte nella catena di distribuzione; le tasse devono essere basse nelle prime fasi del processo per permettere sia agli individui e alle istituzioni di adattarsi, poi vanno innalzate in modo sostanziale e rapidamente lungo un percorso predeterminato per stabilizzare le aspettative di investitori, consumatori e governi; parte del ricavato dovrebbe contribuire ad alleviare l’onere per le famiglie a basso reddito; vanno eliminati i sussidi che ora premiano l’estrazione e l’utilizzo di fonti di energia ad alta intensità di carbonio. Questo singolo cambio di politica fiscale, utilizzerebbe i prezzi all’interno dei mercati esistenti per spostare gli investimenti e il comportamento in tutti i settori merceologici e industriali.

Gli obiettivi di sviluppo sostenibile (OSS), che sono stati approvati da più di 160 leader di tutto il mondo nel mese di settembre 2014, comprendono lo sradicamento della fame e della povertà entro il 2030. Tuttavia, l’impatto devastante che i cambiamenti climatici avranno sulle persone più povere del mondo potrebbero vanificare gli obiettivi più ambiziosi, giacché gli impatti delle colture al diminuire delle precipitazioni, l’impennata dei prezzi dei prodotti alimentari a seguito di eventi meteorologici estremi, e una maggiore incidenza di malattie dopo ondate di calore e inondazioni porterebbero a cifre fino a 100 milioni l’aumento dell’indigenza. Secondo un rapporto della BMI, le persone più povere hanno più probabilità rispetto alla media di subire eventi meteorologici estremi e di perdere gran parte del loro patrimonio quando si verificano.

In definitiva “è impossibile porre fine alla povertà, se non prendiamo una forte iniziativa per ridurre la minaccia del cambiamento climatico” ha affermato il presidente della Banca Mondiale Jim Yong Kim.

Se si garantiscono i servizi di base, tra cui acqua potabile e servizi igienici, si aiutano le comunità a recuperare più rapidamente, ma i governi nazionali hanno bisogno di più supporto nella progettazione e nella realizzazione di progetti per contribuire a sradicare la povertà che, a sua volta, genera la resilienza delle comunità ai cambiamenti climatici. Perciò il finanziamento ancora aleatorio dopo la Cop21 deve trovare rapidamente una praticabile realizzazione.

OLTRE PARIGI E LA COP21

Criticare l’accordo non significa certo non apprezzarne quegli avanzamenti – più sul piano della narrazione che delle decisioni – che torneranno utili per definire il contesto in cui avviare rivendicazioni e reclamare applicazioni. Contro una ipotesi di andare oltre Parigi e di far riprendere protagonismo ai popoli sono state attivate campagne di negazione e di disinformazione guidate da persone di destra, dai media e dai difensori del sistema, tra cui anche gli scienziati al servizio delle compagnie petrolifere che nel nostro Paese hanno un ascolto e una amplificazione particolare. Sono i sostenitori del trionfo del gas naturale in una lunga fase di transizione in cui il sistema energetico rimarrà sostanzialmente lontano dalle trasformazioni che minano il suo accentramento, la sua finanziarizzazione, il suo intreccio con gli attuali equilibri geopolitici. L’accordo raggiunto il 15 Dicembre non dà loro esplicitamente torto, ma tiene aperta una partita in cui tocca ai cittadini, ai movimenti, al mondo scientifico e – se ci fosse – alla sinistra infilarsi nel cuneo che irreversibilmente si va allargando.

E’ toccato al papa criticare il desiderio di ricchezza e sfruttamento insiti nel modello economico dominante, che ha trasformato il mondo in una montagna di spazzatura e a osservare che il pianeta è esaurito, che le risorse finanziarie corrispondono ad un sequestro e che il problema della povertà non è stato risolto.

Naomi Klein sostiene che il cuore del problema si trova nel fatto che “il dominio della logica del mercato sulla vita pubblica vieta politicamente le risposte più dirette ed evidenti al problema della crisi climatica” e che la società non è in grado di investire massicciamente in basse emissioni di carbonio dei servizi pubblici e delle infrastrutture se allo stesso tempo la sfera pubblica è all’asta e viene smantellata. Che dire, ad esempio, della svendita di tutte le municipalizzate dei nostri comuni lombardi e emiliani proprio sotto la responsabilità dei sindaci di centrosinistra (a cominciare dal disattento Pisapia) e con la regia di Renzi?

I movimenti contro la crisi climatica in tutto il mondo sono apparentemente al punto di raggiungere una massa critica necessaria, almeno, per superare la forza delle corporation dei combustibili fossili. Rappresentano ormai una ondata globale che agisce localmente allestendo e formando gruppi e organizzazioni disposti a unirsi in contatto sinergico e duraturo.

Da più parti si incomincia a concepire il dramma e l’occasione del cambiamento climatico come un potente catalizzatore di un massiccio movimento globale che protegge le persone dal caos sociale e ambientale costruito in un’epoca con un presente continuo e un futuro impossibile. Il capitalismo è stato sviluppato quando il pianeta e la sua aria, i suoi fiumi, i suoi oceani e continenti, le sue risorse, apparivano infinite. Non si aveva percezione della terra come un organismo formidabile, ma finito, che con il suo delicato equilibrio sostiene la vita e non ci si preoccupava di meccanismi integrati per proteggere gli interessi delle generazioni presenti e future e il loro diritto ad un ambiente sano in cui riprodursi.

Il problema continua ad essere quello di uscire da un approccio monotematico, di ritrovare tutti i nessi tra questione sociale e ambientale e di dar vita a movimenti di massa in grado di affrontare e battere i difensori dello status quo, soprattutto dopo un’uscita straordinaria come quella di papa Francesco e qualche spiraglio tra le ombre della Conferenza di Parigi. Il cambiamento climatico, invece di diventare un altro caso di “dottrina dello shock”, in cui le crisi sono convertite in ristrutturazioni capitalistiche contro il popolo, può essere lo shock che viene dal popolo, come un colpo da sotto per condividere il potere con molte mani, e radicalmente aumentare il bene comune e pubblico.

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Trivelle, nucleare e shale gas: che brutta Europa

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Niente election day per il referendum No Triv: il Consiglio dei ministri ha infatti fissato al 17 aprile la data della consultazione e  risolutamente e da par suo – Mattarella ha confermato. Sfuma dunque l’ipotesi di accorpare referendum e primo turno delle elezioni amministrative e di garantire così una conoscenza adeguata ai cittadini, facilitando la partecipazione democratica senza moltiplicare inutilmente gli appuntamenti degli italiani alle urne. Cerchiamo di capire come e chi vuole rendere ininfluente un referendum che, come nel caso del nucleare, imporrebbe questa volta una svolta nel ricorso alla combustione delle fonti fossili.

A dicembre si è conclusa a Parigi la Cop 21, con il riconoscimento unanime, almeno sulla carta, della necessità di decarbonizzare in tempi stretti l’economia mondiale. Al pari delle gride manzoniane l’appello, ancorché sottoscritto dai personaggi più illustri, ha lasciato via libera allo scorrazzare dei bravi.

Di lì ad un mese si è riunito il Davos Club. In esso trovano adeguata rappresentanza le 62 persone (nel 2010 erano 388, nel 2014 si erano già ridotte a 80, con un trend di concentrazione impressionante) che possiedono più della ricchezza di 3,6 miliardi di cittadini del mondo (la metà degli abitanti del pianeta) e che, scambiandosi i loro biglietti da visita assistiti da apparati statali, economici e mediatici del massimo livello, puntano a tenere le redini della civiltà della globalizzazione. Da lì è ripartito il suggerimento di applicare le tecnologie più avanzate per procrastinare l’impiego di petrolio, carbone e gas e di mascherarne gli effetti, al fine di sostenere la cosiddetta “rivoluzione industriale 4.0”, in cui robot, intelligenza artificiale e energia a basso prezzo – anche se sporca – dovrebbero risparmiare manodopera e rinnovare la crescita economica. Quindi, investimenti in nuovi gasdotti, trivelle in mari cristallini, pozzi di perforazione per gas di scisto in terreni ormai traforati come un gruviera.

Renzi, incantato dai tweet, dai CEO, come da tutte le rivoluzioni a 2.0, 3.0, 4.0 e così via, ha pensato che qualche concessione di licenza per trivellare i nostri mari valesse bene i 300 milioni di euro che usciranno di tasca non accorpando le scadenze elettorali. Purtroppo, si dimentica che è stato il settore bancario, accanto all’energia, alle materie prime e alle industrie di base afflitte da un eccesso di capacità, a guidare la caduta delle Borse e che la politica economica ha, quella sì, bisogno di innovazione.

Che l’andamento per le fonti fossili non sia entusiasmante, lo si può vedere anche dal trend di declino di carbone, nucleare e gas in Europa, se si guarda alle centrali andate in pensione: nel 2015 si sono fermati o dismessi impianti a carbone per oltre 8 GW, a gas per 4,2 GW, a olio combustibile per 3,3 GW e da fonte nucleare per 1,8 GW. Il nostro Governo, che fa di prammatica la voce grossa a Bruxelles, sulle questioni energetiche va invece completamente a ruota delle lobby continentali che premono su una Commissione ormai smarrita, anche sulla questione climatica. Tutto sembra nascere e decidersi in luoghi ristretti di cui le popolazioni non sono informate.

La Commissione europea ha varato un piano di importazione di gas naturale liquefatto (GNL) e tutti hanno pensato alla imprevista disponibilità di creare infrastrutture per importare gas da fracking USA, al fine di ridurre la dipendenza dalla Russia. Anche se l’accordo di Parigi era stato salutato come un chiaro segnale al mercato che l’era dei combustibili fossili inquinanti era finita, è la politica che si è messa a rilanciare! Eppure il gas naturale – da fracking in particolare – è anche in gran parte composto di metano, un gas serra che ha 86 volte il potenziale di riscaldamento globale del biossido di carbonio. La produzione di energia elettrica a gas è solo un bene per il clima rispetto alla produzione da carbone se eventuali perdite di metano nella produzione, raffinazione e trasmissione, è inferiore al 3,2%. Ma i rilevamenti dei tassi di emissione via satellite hanno recentemente dimostrato che le concentrazioni di metano sono aumentate drasticamente in molte delle principali regioni produttrici di shale gas negli Stati Uniti. Tenuto poi conto che il trasporto avverrebbe via nave, il bilancio delle emissioni diventa insostenibile secondo l’accordo di Parigi.

Infine, va ricordato come un rilancio o un ricondizionamento delle centrali nucleari in Europa sia reso improbabile dai costi e dai rischi. Un documento della Commissione ancora non pubblicato, ma reso noto da Reuters, rivela che l’Europa è in deficit di 118 miliardi di euro per lo smantellamento delle sue centrali nucleari e la gestione dello stoccaggio delle scorie. Infatti, la stima prevista per l’intera operazione è di 268,3 miliardi di € a fronte di riserve nei Paesi per 150,1 miliardi di €. Solo la Germania ha accantonamenti sufficienti, mentre la Francia ha un deficit di 51 miliardi.

La sospensione del programma nucleare in Italia a seguito del referendum risulta oggi una autentica benedizione per una economia in crisi come la nostra. Ragione in più perché i cittadini non stiano a guardare ma, di fronte a governanti così imprevidenti e senza bussola, vadano davvero tutti a votare il 17 Aprile, a dispetto degli inciampi e della disinformazione che vorrebbero frapporre tra casa nostra e le urne.

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Aggiornamento Energia: preconsuntivi 2015

di Roberto Meregalli

I dati definitivi del bilancio energetico italiano, preparato dal Ministero per lo sviluppo economico Mise, mostrano che anche nel 2014 si è verificata una diminuzione della domanda di energia, pari al 4%; un dato che si inserisce nel percorso che dal 1995 ha fatto costantemente calare i consumi di energia primaria. Il contributo delle fonti rinnovabili è salito al 21%.

2015: inversione di tendenza

Nel 2015 è però avvenuta una inversione di tendenza, secondo le prime stime dell’Unione Petrolifera risulta una crescita dei consumi di energia del 3%. Questa crescita non ha influito nel trend di diminuzione dei costi della bolletta energetica totale italiana, che sempre secondo le stime UP, dovrebbe essere calata di quasi 10 miliardi di euro rispetto al 2014.

Questo calo è dovuto quasi totalmente al calo del costo del petrolio che è stato pari a circa il 47% se espresso in dollari, il costo del greggio importato in Italia nel 2015 è però diminuito un po meno, del 36%, per effetto dell’indebolimento dell’euro nei confronti del dollaro.

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