Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano
I delegati di oltre 200 Paesi delle Nazioni Unite erano arrivati ai colloqui sul clima a Katowice con l’incarico di sostenere l’accordo di Parigi 2015.
Pur trattandosi di un appuntamento “tecnico” per fare il punto sui
progressi o i ritardi rispetto all’agenda fissata tre anni fa,
l’attenzione si è focalizzata sulle responsabilità che i leader mondiali
si sarebbero assunti nei confronti dell’emergenza climatica. A un mese dalla conclusione della Conferenza possiamo dire che sono state confermate le previsioni più pessimistiche: in tre anni non solo non si sono verificati miglioramenti apprezzabili ma, alla luce degli ultimi dati diffusi dal Global Carbon Project, le emissioni di gas serra sono aumentate per il secondo anno consecutivo nel 2018.
Preso atto di ciò, si deve constatare che l’incombente crisi
climatica sta andando oltre le nostre capacità di controllo. Vale allora
la pena di andare oltre la ricerca dei colpevoli del passato (peraltro
tanto noti quanto insensibili), per metterci in azione come persone e
soggetti sociali attivi, capaci con le loro reazioni e comportamenti di
imporre un cambiamento di rotta. Tanto urgente da doversi realizzare in
un arco temporale breve che, secondo l’Ipcc, non può andare oltre i prossimi 15 anni.
Se questo è il contesto, occorre rendersi conto che la fobia verso i migranti
e l’inganno della crescita a spese della natura non servono ad altro
che a distrarre l’opinione pubblica, per mantenere immutate le
disuguaglianze sociali anche a fronte della sfida del clima. Una sfida
di primaria importanza che richiede due impegni cogenti: lasciare
sottoterra i combustibili fossili e garantire i diritti umani
e sociali nella transizione energetica. Sono queste le autentiche
ipoteche per la civiltà a venire e non si riscuoteranno senza conflitti,
per cui ogni individuo, ogni soggetto, ogni associazione, ogni
organizzazione di interessi o di valori sarà tenuta a contrapporre una
visione strategica all’interesse a breve, come è sempre avvenuto nelle
fasi di profonda trasformazione.
Sappiamo da dove partire. Il mantenimento della crescita economica
avviene tuttora al prezzo di un aumentato consumo di combustibili
fossili. Negli ultimi anni – senza andare lontano e tirare in ballo la sconsiderata imprevidenza di Donald Trump – Polonia, Germania e Italia non hanno fatto alcun passo indietro nel ricorso al carbone e al gas. In fondo, Katowice ha messo in luce quanto le élite globali, compresi i sovranisti
nostrani del “cambiamento”, si aggrappino al business dei fossili e
quanto i governi difendano i loro interessi nazionali a essi associati,
accettando in compenso l’ineluttabilità del disastro climatico. La
situazione è così compromessa e l’inerzia del sistema
economico-finanziario così rigida da richiedere che tutte le componenti
sociali forniscano un supporto per attuare quella che altro non è se non
una vera rivoluzione dell’economia mondiale. Ad ora manca totalmente
quella consapevolezza espressa con lucidità nella Laudato Si’ e cioè che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale”.
Data la mia esperienza, ritengo che sia ora che entri in gioco il sindacato, fin troppo silenzioso ma (mi auguro) già capace di segnali al prossimo congresso Cgil. L’accordo di Parigi, oggi messo da parte perfino dall’Europa, accanto ai diritti umani parla esplicitamente di sicurezza alimentare, diritti delle popolazioni indigene, uguaglianza di genere,
partecipazione pubblica, equità intergenerazionale, integrità degli
ecosistemi e, per il clima, propone una transizione giusta. C’è da
chiedersi: su quali gambe? Forse su quelle malferme e incapaci di murare
la strada delle corporation e della grande finanza? Al punto
in cui siamo, continuare a fare della combustione dei fossili una
ragione primaria di profitto porta a violare i diritti umani
e a ricattare i lavoratori sotto il profilo occupazionale e dei diritti
sociali. Ed è altrettanto chiaro, anche se ce ne scordiamo facilmente,
come le persone possano perdere i loro diritti tradizionali di vivere in una foresta (Amazzonia), o in una valle (Tav) o lungo un litorale marino (Tap)
quando si infrange l’equilibrio climatico potenziando la filiera
fossile oltre il tollerabile. Tutte materie su cui il sindacato ha
titolo pieno per essere informato e per negoziare a favore dei suoi
organizzati.
I crescenti conflitti sociali legati all’eliminazione progressiva delle industrie fossili danno senso al termine “giusta transizione”,
che non può che basarsi su un’attuazione completa della giustizia
climatica. Per cominciare, ciò dovrà includere la limitazione del
riscaldamento globale a un massimo di 1,5°C, altrimenti il cambiamento climatico aggraverà globalmente le ingiustizie sociali. Carbone, petrolio e gas
vanno rapidamente eliminati con una radicalità cui ci ha costretto lo
sviluppo industriale ininterrotto e la cui espansione non è negoziabile,
anche se ciò minaccia posti di lavoro. È d’obbligo che i lavoratori
dipendenti dal sistema fossile non vengano lasciati a se stessi, ma
affidati a una rete di sicurezza che li faccia transitare verso un
lavoro socialmente significativo e che conservi la loro dignità. Non si
tratta di assistenza, ma di diritti, di riconversione “win to win”.
Proprio con una visione strategica un sindacato non corporativo può
prevenire una divisione irreparabile tra lavoratori e le comunità
colpite dai cambiamenti climatici. Oggi è in atto una campagna insidiosa
al riparo della quale governi e grandi attori fossili, in particolare
nei Paesi industrializzati, hanno iniziato a chiedere solo compensazioni finanziarie e sgravi per
le loro attività inquinanti, al fine di allungare il più possibile i
tempi della fuoriuscita da carbone, petrolio e gas e usando come
grimaldello per i loro interessi la questione dei posti di lavoro nelle filiere fossili inquinanti. Le stesse associazioni imprenditoriali e le corporation che sostenevano la necessità di chiudere impianti e delocalizzare
per competere, di fronte alla crisi climatica si scoprono accaniti
difensori del valore sociale e professionale del lavoro nei territori da
cui traggono profitti, chiedendo nel contempo una sponda nel sindacato.
Capisco come la situazione non sia facile e le cose non siano limpide,
ma la posta è troppo alta perché il ricatto ricada su tutti sotto la
veste di un interesse di pochi.
I tempi si avvicinano più di quanto si prevedesse e l’attacco è già
in corso. Il governo polacco ha ottenuto a Katowice un’ambigua
dichiarazione (Solidarity and Just Transition Silesia)
per ottenere con l’appoggio di 49 delegati una marcia più lenta
rispetto agli accordi internazionali nell’abbandono del carbone. La Commissione Ue
è alle prese con un protocollo di sostegno all’industria del carbone e
alla siderurgia nei paesi dell’Europa centrale e orientale che hanno
chiesto di aderire all’Ue. In entrambi i casi non c’è ombra di
organizzazioni sindacali, ancora prede forse delle storiche
contraddizioni tra ambiente e lavoro. Basta rammentare quanto sia
preveggente la posizione dei metalmeccanici piemontesi a fianco delle ragioni degli abitanti della Val di Susa e quanto imprudente sia l’annuncio di uno sciopero dei lavoratori impegnati nelle grandi opere,
senza distinzione della loro utilità e del loro impatto ecologico, da
parte del sindacato nazionale degli edili. Temi vecchi e nuovi su cui
dibattere, non privi della massima urgenza, per non trascurare
l’ineluttabilità di quanto accade in atmosfera e non cedere alla favola
che la salute climatica la debbano pagare i lavoratori e i più
indigenti.