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Clima, le emissioni non sono calate abbastanza col virus: bisogna puntare alle energie naturali

Difficile misurare e prevedere la diminuzione di climalteranti dovuti al blocco delle attività in tempo di coronavirus, perché essa dipende da quali settori dell’economia hanno chiuso e le aspettative di ripresa nel corso dell’anno. Benjamin Storrow, in un documentatissimo articolo spegne alcuni entusiasmi sulla caduta delle emissioni durante la pandemia.

Se si calcola che ormai 4 miliardi di persone in tutto il mondo si sono fermate per contribuire ad arginare la diffusione del virus, il confronto con le previsioni dei meteorologi (poco oltre il 5% nel 2020), pur rappresentando il più grande calo annuale mai registrato, rimane al di sotto del calo del 7,6% che gli scienziati dicono che è necessario ogni anno nel prossimo decennio per impedire che le temperature globali aumentino di oltre 1,5 gradi Celsius.

Non c’è proporzionalità diretta tra calo dei prodotti e abbassamento delle emissioni. Quindi perché le previsioni non prevedono un calo maggiore di CO2 durante una delle peggiori catastrofi economiche della vita? Nei fatti la pandemia sta causando una caduta libera economica che differisce dalle precedenti recessioni.

Solo se le riduzioni di anidride carbonica non ripartissero secondo il cosiddetto “ritorno alla normalità” che sta a cuore di tutti i governi (si pensi da noi agli aiuti a Fca e Alitalia e al mantenimento delle centrali a carbone) registreremmo un obiettivo in linea con l’auspicio dell’Ipcc. Ma occorrerebbe un grande movimento che prema sui governi del mondo e sulle multinazionali e una svolta dalla produzione energivora alla cura dell’intera biosfera e un cambio degli stili di vita.

Sia negli Stati Uniti che in Cina il lockdown non è stato utilizzato per mutare il segno dell’eventuale ripresa, ma solo per tenere in vita con la manutenzione indispensabile il modello che riprodurrà quanto prima le emergenze in corso. I cali in Cina e Usa sono stati solo del 25% e del 14% nel mese di maggior diffusione del virus e la maggior parte dei meteorologi ipotizzano che l’economia riprenderà nella seconda metà dell’anno, spingendo le emissioni verso l’alto con un rimbalzo.

Anche in uno scenario in cui le emissioni sono diminuite del 25%, i tre quarti della produzione globale di CO2 continuerebbero durante un blocco annuale. A differenza delle recessioni passate, il trasporto sta guidando il calo delle emissioni. La spedizione è rimasta costante e la produzione è stata lenta a chiudere. Molte acciaierie e centrali a carbone hanno continuato a funzionare per tutto l’arresto, sebbene spesso a livelli ridotti.

Al contrario è calato il traffico di trasporto individuale delle persone: del 54% nel Regno Unito, del 36% negli Stati Uniti e del 19% in Cina, mentre i viaggi aerei, nel frattempo, sono diminuiti del 40%, con un riflesso drastico sul calo del petrolio (-65% kerosene; -41% benzina). Eppure, l’economia globale sta ancora consumando molto petrolio, sia per gli usi militari e per il mantenimento degli slot da parte delle compagnie aeree, sia per il trasporto su ruota e ferro con diesel.

Poi ci sono prodotti petrolchimici, che sono stati colpiti in modo diseguale dalla crisi. Le materie plastiche utilizzate nella produzione automobilistica sono in calo, ma quelle usate per l’imballaggio alimentare sono in aumento. I numeri mostrano quanto sia intrecciato il petrolio con l’economia globale e quanto sarà difficile decarbonizzare l’economia semplicemente attraverso l’adeguamento comportamentale. Le auto e gli aerei possono essere parcheggiati in massa, eppure il consumo di petrolio diffuso continua.

Questa prima fase di pandemia è stata pagata più dal trasporto aereo e di auto, ma meno dall’elettricità e dal gas naturale. Il carbone, anche se demonizzato in epoca di pandemia, rimane cruciale per la generazione di elettricità in tutto il mondo e rappresenta il 40% delle emissioni globali di CO2, più di qualsiasi altro combustibile. Assieme al petrolio, rimane un ingranaggio centrale nella produzione economica in tutto il mondo.

Ma mentre comincia ad essere matura una lotta per la conversione delle centrali a carbone e gas nelle economie avanzate, la pandemia sottolinea la necessità di rendere da subito accessibili le energie naturali per le parti in via di sviluppo del mondo su cui potrebbe essere riversato l’eccesso di fossili continuamente estratto.

L’articolo Clima, le emissioni non sono calate abbastanza col virus: bisogna puntare alle energie naturali proviene da Il Fatto Quotidiano.

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Clima, le emissioni non sono calate abbastanza col virus: bisogna puntare alle energie naturali

Difficile misurare e prevedere la diminuzione di climalteranti dovuti al blocco delle attività in tempo di coronavirus, perché essa dipende da quali settori dell’economia hanno chiuso e le aspettative di ripresa nel corso dell’anno. Benjamin Storrow, in un documentatissimo articolo spegne alcuni entusiasmi sulla caduta delle emissioni durante la pandemia.

Se si calcola che ormai 4 miliardi di persone in tutto il mondo si sono fermate per contribuire ad arginare la diffusione del virus, il confronto con le previsioni dei meteorologi (poco oltre il 5% nel 2020), pur rappresentando il più grande calo annuale mai registrato, rimane al di sotto del calo del 7,6% che gli scienziati dicono che è necessario ogni anno nel prossimo decennio per impedire che le temperature globali aumentino di oltre 1,5 gradi Celsius.

Non c’è proporzionalità diretta tra calo dei prodotti e abbassamento delle emissioni. Quindi perché le previsioni non prevedono un calo maggiore di CO2 durante una delle peggiori catastrofi economiche della vita? Nei fatti la pandemia sta causando una caduta libera economica che differisce dalle precedenti recessioni.

Solo se le riduzioni di anidride carbonica non ripartissero secondo il cosiddetto “ritorno alla normalità” che sta a cuore di tutti i governi (si pensi da noi agli aiuti a Fca e Alitalia e al mantenimento delle centrali a carbone) registreremmo un obiettivo in linea con l’auspicio dell’Ipcc. Ma occorrerebbe un grande movimento che prema sui governi del mondo e sulle multinazionali e una svolta dalla produzione energivora alla cura dell’intera biosfera e un cambio degli stili di vita.

Sia negli Stati Uniti che in Cina il lockdown non è stato utilizzato per mutare il segno dell’eventuale ripresa, ma solo per tenere in vita con la manutenzione indispensabile il modello che riprodurrà quanto prima le emergenze in corso. I cali in Cina e Usa sono stati solo del 25% e del 14% nel mese di maggior diffusione del virus e la maggior parte dei meteorologi ipotizzano che l’economia riprenderà nella seconda metà dell’anno, spingendo le emissioni verso l’alto con un rimbalzo.

Anche in uno scenario in cui le emissioni sono diminuite del 25%, i tre quarti della produzione globale di CO2 continuerebbero durante un blocco annuale. A differenza delle recessioni passate, il trasporto sta guidando il calo delle emissioni. La spedizione è rimasta costante e la produzione è stata lenta a chiudere. Molte acciaierie e centrali a carbone hanno continuato a funzionare per tutto l’arresto, sebbene spesso a livelli ridotti.

Al contrario è calato il traffico di trasporto individuale delle persone: del 54% nel Regno Unito, del 36% negli Stati Uniti e del 19% in Cina, mentre i viaggi aerei, nel frattempo, sono diminuiti del 40%, con un riflesso drastico sul calo del petrolio (-65% kerosene; -41% benzina). Eppure, l’economia globale sta ancora consumando molto petrolio, sia per gli usi militari e per il mantenimento degli slot da parte delle compagnie aeree, sia per il trasporto su ruota e ferro con diesel.

Poi ci sono prodotti petrolchimici, che sono stati colpiti in modo diseguale dalla crisi. Le materie plastiche utilizzate nella produzione automobilistica sono in calo, ma quelle usate per l’imballaggio alimentare sono in aumento. I numeri mostrano quanto sia intrecciato il petrolio con l’economia globale e quanto sarà difficile decarbonizzare l’economia semplicemente attraverso l’adeguamento comportamentale. Le auto e gli aerei possono essere parcheggiati in massa, eppure il consumo di petrolio diffuso continua.

Questa prima fase di pandemia è stata pagata più dal trasporto aereo e di auto, ma meno dall’elettricità e dal gas naturale. Il carbone, anche se demonizzato in epoca di pandemia, rimane cruciale per la generazione di elettricità in tutto il mondo e rappresenta il 40% delle emissioni globali di CO2, più di qualsiasi altro combustibile. Assieme al petrolio, rimane un ingranaggio centrale nella produzione economica in tutto il mondo.

Ma mentre comincia ad essere matura una lotta per la conversione delle centrali a carbone e gas nelle economie avanzate, la pandemia sottolinea la necessità di rendere da subito accessibili le energie naturali per le parti in via di sviluppo del mondo su cui potrebbe essere riversato l’eccesso di fossili continuamente estratto.

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NIENTE DI QUESTO MONDO CI RISULTA INDIFFERENTE

Laudato Sì – Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale, in libreria dal 25 maggio 2020

La lezione della pandemia

Questa crisi potrebbe essere l’inizio di una riconciliazione degli esseri umani con il vivente, del lavoro con l’ambiente, del consumo con la pietà, del desiderio con il senso del limite. Una grande presa di coscienza di uomini e donne, perché non è dalle concentrazioni del potere che possiamo aspettarci una via d’uscita, ma dalla forza con cui organizzazioni, società civile, sindacati e movimenti prenderanno la strada dell’autoeducazione, dell’autoformazione, della responsabilità.

«È il tempo del nostro giudizio», ha detto papa Francesco il 27 marzo, in una metafisica piazza San Pietro sferzata dalla pioggia, impartendo l’indulgenza plenaria ai morituri, ai malati di coronavirus, ai loro familiari, agli operatori sanitari, a tutti coloro che si prendono cura di chi sta male, «È il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è». Il tempo «di trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati, e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà». Una fraternità e una solidarietà che prevede l’eguaglianza, l’accoglienza, l’apertura alla bellezza del mondo e la tutela di ogni creatura.

La casa comune

“Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora. Niente di questo mondo ci risulta indifferente”, scrive papa Francesco nell’incipit dell’enciclica Laudato si’. È il filo che segna un percorso di assunzione di responsabilità verso la casa comune, dove ogni pianta, ogni animale, ogni persona, ogni tramonto e specchio d’acqua hanno importanza, nella bellezza ferita del pianeta e nella necessità di una pratica di giustizia e di uguaglianza. Giustizia, uguaglianza, libertà, fratellanza, sorellanza, mitezza: parole usurate, “scartate” anch’esse – non diversamente dagli scarti materiali, produttivi e umani che segnano la nostra cultura – a cui è necessario restituire una funzione politica, perché non esiste giustizia ambientale senza giustizia sociale, e lo stato del pianeta, corroso da crisi rovinose, è il risultato di scelte politiche, economiche e finanziarie che l’enciclica non esita a chiamare criminali.

La catastrofe e l’ingiustizia

Temperature inverosimili incendiano interi continenti mentre i ghiacci si sciolgono e gli oceani, spazzati da tempeste e cicloni, erodono le coste. La desertificazione di intere aree cancella zone fertili e costringe le popolazioni alla fuga, mentre la biodiversità e la riserva di ossigeno garantite dalle foreste amazzoniche sono messe a rischio, assieme alla vita delle comunità indigene che le abitano. Sempre più numerose sono le persone che sopravvivono o muoiono per la strada o nelle baraccopoli del mondo, e sempre più enormi sono le spese militari degli Stati per armamenti concepiti allo scopo di portare distruzione e morte, il cui bilancio potrebbe da solo eliminare la fame nel mondo.

La cultura dello scarto e la conversione ecologica

In questa follia si situa il sistema dello scarto, ovvero di ciò che eccede l’utilità e il consumo, in una continua erosione delle risorse. Scarti non sono solo i rifiuti alimentari, produttivi, industriali, ma anche le persone marginali, malate, disoccupate, abbandonate a se stesse o in istituzioni chiuse, e i migranti che non vengono accolti, che muoiono in mare o per confinamento – così come scarti sono le periferie delle città e del mondo, le terre dei fuochi sparse nei continenti, le culture fragili e minacciate di scomparsa, le specie che stiamo estinguendo. Lo scarto denuda il modello economico, politico e culturale che ci sta conducendo alla catastrofe, che non è solo climatica e ambientale, ma etica e sociale, così che la conversione ecologica della produzione, degli stili di vita, della cultura e delle relazioni tra le persone e con le istituzioni rappresenta – con una serena e liberatoria rivoluzione nei comportamenti – la sola salvezza per la specie umana sul pianeta.

Unire analisi e lotte

Nel gennaio 2019, rispondendo alla richiesta dell’enciclica di fermarsi a riflettere sull’evidenza che l’umanità sta creando le condizioni per la propria estinzione, l’associazione Laudato si’ ha promosso un tavolo di lavoro formato da attivisti, studiosi, rappresentanti dell’associazionismo e dei movimenti, credenti e non credenti, che hanno deciso di confrontarsi, scambiare esperienze e collaborare alla stesura di un documento programmatico che provasse a dare attuazione concreta ai principi dell’ecologia integrale. Il punto di convergenza è stato individuato nella necessità di riconoscere l’interconnessione tra degrado ambientale, sociale, economico e culturale messa in luce dall’attuale crisi climatica, e di unire punti di vista, appartenenze e specialismi per giungere a un’analisi delle sue cause e articolare una risposta territoriale e globale.

Il libro

Niente di questo mondo ci risulta indifferente rappresenta lo sviluppo di questo percorso condiviso e la necessità di tradurre la visione unitaria e sovversiva dell’enciclica in un’analisi per punti che, senza pretese di esaustività, possa dare una comprensione basilare del problema climatico e delle politiche ad esso connesse, fornendo dati puntuali, statistiche, documenti e fonti. Non solo una fotografia della situazione attuale, ma un primo inventario delle molteplici azioni creative che continuamente nascono e producono alternative alla cappa ideologica che pare rinchiuderci. Crediamo in una presa di coscienza che divenga premessa per un’azione diffusa sul territorio e nella comunità, alla ricerca di una via per la salvezza della nostra specie e per la sua riconciliazione con le creature – animali, piante ed ecosistemi. Che la pubblicazione del libro avvenga durante la pandemia di coronavirus, proprio mentre si chiarisce quanto la diffusione di patogeni sia connessa alla distruzione degli ecosistemi e quanto la moria di persone, soprattutto le più fragili, abbia a che fare con una sanità rivolta al profitto anziché alla cura, appare una conferma delle argomentazioni che ci hanno sorretto e della necessità di un radicale cambiamento che investa la politica e gli stili di vita: un cambiamento che può avvenire solo grazie a una vasta azione di formazione e autoeducazione, e ad attività comunitarie capaci di portare sui territori e nelle istituzioni la bellezza, l’equilibrio della natura, la sorellanza e fratellanza tra esseri umani, e tra questi e il vivente: quella che papa Francesco, nella Laudato si’, chiama giustizia sociale e ambientale, retta dall’”intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta”.

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Energia, il Covid sarà un’insormontabile ‘pietra d’inciampo’. L’era delle fonti fossili è al declino

La scorsa settimana l’Agenzia Internazionale per l’Energia ha pubblicato la sua Global Energy Review 2020, un’analisi dell’impatto della crisi di Covid-19 sulla domanda globale di energia e le emissioni di CO2.

Vengono analizzati gli sviluppi della caduta di produzione e domanda di energia nei primi quattro mesi del 2020, con la conseguente previsione di possibili traiettorie per il resto dell’anno. I riscontri registrati ed i messaggi lanciati sono assolutamente impressionanti e fanno essi stessi piazza pulita di ogni svista nel presumere che la salute e la cura del Pianeta possano convivere con la crescita economica illimitata e che la loro tutela sia compatibile col modello di globalizzazione fondato sulla combustione delle fonti fossili che ha caratterizzato fin qui l’era “dell’Antropocene”.

La pandemia ha accelerato una crisi già in corso e l’ha fatta precipitare secondo modalità già annunciate, ma mai esplose ai livelli attuali e mai così drammaticamente all’ordine del giorno di centri studi e istituzioni internazionali tutt’altro che eccentriche rispetto al sistema.

È importante osservare come L’IEA non consideri affatto la crisi attuale, ben più profonda e diversa da quella finanziaria del 2008, come un evento passeggero, ma la valuti come un’insormontabile “pietra d’inciampo” nell’evoluzione della civiltà industriale. Si tratta infatti di una crisi che ha connotati speciali: la tradizionale relazione tra Pil e domanda di energia non regge più a causa della natura non strettamente economica dello choc. Alcuni usi energetici, ad esempio, il riscaldamento a gas residenziale o l’uso di elettricità per server o apparecchiature digitali non sono stati interessati a fondo, mentre, sempre ad esempio, il kerosene per aerei, o il carbone per la siderurgia sono crollati molto più rapidamente del declino del Pil.

L’applicazione di misure differenziate di lockdown ha provocato balzi differenziati nei prezzi delle fonti energetiche e picchi di diversa intensità a seconda delle aree geografiche e dei paesi che prendevano misure di confinamento, blocco delle attività, o annunciavano segnali di ripresa. Sotto questo profilo il sistema energetico dei fossili e del nucleare, a struttura fortemente centralizzata e con filiere di approvvigionamento extraterritoriali, ha sofferto assai di più della componente alimentata dalle rinnovabili, che si sono rivelate più flessibili, a costi costanti e contenuti oltre che programmabili e con effetti di minore impatto sulla salute e sull’inquinamento ambientale.

Per avere un’idea dell’effetto Covid -19, si pensi che nella prima metà di aprile il 50% del consumo globale di energia è stato esposto a contrazione, rispetto al 5% della prima metà di marzo. Dato che a maggio molti paesi stanno avviando, anche se solo parzialmente, alcuni settori dell’economia, aprile potrebbe essere il mese più colpito del 2020, a patto che non riprenda il contagio da coronavirus.

I paesi posti in stato di blocco totale stanno registrando un calo medio del 25% della domanda di energia a settimana, mentre i paesi in blocco parziale registrano comunque un calo medio non inferiore al 18%. Se si esaminano i grafici di consumo esposti dall’IEA si nota che “ogni giorno è domenica: la forma della domanda assomiglia lungo l’intera settimana a quella di una domenica prolungata”. La domanda globale di carbone è stata la più colpita, scendendo di quasi l’8% rispetto al primo trimestre del 2019. Tre sono le ragioni che spiegano questo calo: la Cina, un’economia basata sul carbone, è stata la nazione più colpita da Covid-19 nel primo trimestre; gas a basso costo e crescita continua nelle energie rinnovabili altrove hanno sfidato il carbone; il clima mite ha limitato il consumo per riscaldamento.

A metà aprile, l’attività globale di trasporto su strada era quasi del 65% inferiore alla media del 2019 e per l’aviazione inferiore all’80%. Di conseguenza, la domanda di petrolio è diminuita di quasi il 5% nel primo trimestre, ed è crollata del 55% ad inizio del secondo trimestre. L’impatto sulla domanda di gas è stato più moderato, anche se si è accentuato a cominciare da aprile. Le energie rinnovabili sono state l’unica fonte che ha registrato una crescita della domanda (+ 1,5% su base annua), trainata da una maggiore capacità installata (+ 160 GW) e dal dispacciamento prioritario in rete. In definitiva, le riduzioni della domanda hanno aumentato la quota di energie rinnovabili anche per quanto riguarda la fornitura di energia elettrica.

Per l’intero 2020, anche nel caso di un recupero graduale, la domanda globale di energia si contrarrà – secondo le previsioni – del 6%, il più grande calo in 70 anni in termini percentuali e il più grande mai registrato in termini assoluti. L’impatto di Covid-19 sulla domanda di energia nel 2020 sarebbe oltre sette volte maggiore dell’impatto dovuto per la crisi finanziaria del 2008 sulla domanda globale di energia.

Mentre nel computo annuo fossili e nucleare tornerebbero a livelli non superiori a quelli del 2012, si prevede che la domanda di energie rinnovabili debba aumentare, sia per i bassi costi operativi sia in ragione dell’accesso preferenziale a molti sistemi di alimentazione (+ 1% per la domanda totale di energia; + 5% per la domanda di energia elettrica).

Infine, per quanto riguarda le emissioni di CO2, la previsione è di un contenimento dell’8%, ai livelli di 10 anni fa e due volte più grande del totale combinato di tutte le riduzioni precedenti dalla fine della seconda guerra mondiale. Ancora troppo poco e con il rischio che il tentativo ostinato di riavviare l’economia “come prima” non provochi dall’autunno un letale rimbalzo. Per questo la decarbonizzazione deve rimanere al centro della necessaria riconversione ecologica e di una modifica degli stili di vita. Una cura indispensabile per il Pianeta e la salute umana che richiede – tra l’altro –infrastrutture energetiche più pulite e più resilienti. Mi torna sempre il pensiero alla riconversione del sito carbonifero di Civitavecchia, dove è maturo un salto di progettualità di cui proverò ad occuparmi in un prossimo post.

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Coronavirus, la fonte energetica più tradizionale si sta spegnendo: siamo in un’era nuova

La crisi da pandemia ci restituirà un mondo diverso. Lo si dice da più parti, anche perché si sta spegnendo, anche per una ragione di convenienza, la fonte energetica più tradizionale, che aveva reso possibile una crescita che, al più, si sarebbe dovuta governare, non rapidamente accantonare.

Da settimane i principali indici dei prezzi del petrolio oscillano, con brusche cadute e leggere risalite, fino ad assumere valori negativi, ben oltre quindi la grande crisi finanziaria del 2008 e 2009. Bloomberg ha titolato Il mercato del petrolio è in pezzi al punto che esiste il rischio di far saltare gli assetti geopolitici del mondo e, con un eccesso di offerta a prezzi stracciati, di dare la stura al mantenimento per un lungo periodo delle centrali termiche e dei veicoli a combustibile, ulteriormente vanificando gli sforzi per tenere sotto controllo il riscaldamento climatico.

In effetti, siamo di fronte ad una situazione assai complicata: è in corso, anche a causa dell’epidemia, una recessione globale e pesante; si è affacciato sul mercato un prodotto competitivo estratto in modo non tradizionale (lo “shale oil” prodotto negli Stati Uniti con la tecnica del fracking), e c’è il rifiuto dell’Arabia Saudita, impegnata in una faticosa alleanza con la Russia, di sobbarcarsi da sola il compito di tenere alti i prezzi del greggio per indebolire la concorrenza del prodotto estratto al di là dell’Atlantico.

Fino a questo ultimo mese il saliscendi del prezzo dei fossili sembrava tutto giocato all’interno della filiera degli idrocarburi, nella contesa sostanzialmente tra i due maggiori esportatori concorrenti dotati di tecniche tradizionali (Arabia e Russia) e il nuovo arrivato (Stati Uniti) che si rifornisce in casa propria di olio di scisto.

Ma il dilagare del coronavirus, che dall’inizio del 2020 sta mettendo in quarantena intere popolazioni e riducendo al lumicino le attività produttive e gli stessi consumi, non si direbbe solo una questione economica o sanitaria: con una aggressività inedita e una rischiosità imprevedibile evoca l’incertezza della permanenza della nostra vita sulla Terra. È così profondo il turbamento provocato da far pensare ad un “dopo” in discontinuità con il “prima”.

Rivedere a fondo il modo di produrre richiederà senz’altro anche un’accelerazione nei processi di decarbonizzazione. Il che porta a propendere più per lo smantellamento della poderosa rete dei fossili, anziché correre ai ripari con ingenti investimenti sulla salute, che sarebbe comunque destinata a peggiorare a velocità maggiori delle capacità di contenimento dell’inquinamento e delle catastrofi climatiche dovute al ricorso ai combustibili climalteranti.

Tanto vale allora vendere tutto il vendibile prima possibile, e investire i proventi in qualcos’altro (magari fonti rinnovabili, batterie, reti intelligenti etc.). Il lockdown di un paese dopo l’altro, con auto ferme, fabbriche chiuse e stop dei voli, ha provocato lo stop a nuovi investimenti nel settore estrattivo, il riempimento delle riserve strategiche disponibili e perfino la navigazione in acque extraterritoriali di grandi petroliere noleggiate e riempite di greggio.

Due sono le possibilità di uscita: usare prezzi stracciati dei fossili con l’inevitabile aumento delle emissioni di CO2 o, al contrario, accelerare verso la transizione alle fonti rinnovabili e al risparmio, disponendo di un sistema decentrato sul territorio, che si approvvigiona e consuma in forme cooperative e che riduce gli sprechi e gli effetti sull’ambiente e la salute.

La recessione in corso, a prima vista, fa pensare che energia a bassi costi sia un obbligo da sfruttare, almeno in un’ottica capitalista e aziendale. Ma l’opinione pubblica – ferita dall’esperienza e dalla genesi del coronavirus, non certo separabile dagli stili di vita e dal degrado presente nell’atmosfera – non sarà più facilmente disponibile a giocarsi il futuro di figli e nipoti per riprendersi tal quale un presente, oltretutto precario, insalubre e giocato sul filo delle guerre commerciali.

La pandemia ha spostato lo scenario in cui si discuteva della possibile carenza di fonti esauribili come petrolio, gas e carbone: il picco di Hubbert sarà quasi sicuramente raggiunto prima dalla domanda che non dall’offerta e lo stop e il prezzo degli idrocarburi non saranno determinati dallo svuotamento dei pozzi, ma dal rifiuto di impiegarli per i danni che hanno a che fare con la biosfera prima che con la geopolitica.

Nei fatti, ci si è preoccupati a lungo e sbagliando di prevedere prima di tutto il “peak oil”, il momento in cui la produzione avrebbe toccato il massimo per poi iniziare a diminuire: invece, al ,punto in cui siamo, si è capito che sarebbe arrivato prima il “peak demand”, il momento in cui la domanda mondiale sarebbe cominciata a calare. Non è una rivoluzione da poco, anche nel nostro modo di pensare: siamo in un’era nuova. E chi non ne vuole tener conto, vuole che l’Antropocene, in cui presuntuosamente diciamo di essere entrati, duri davvero poche generazioni.

Avanzano pensieri e visioni nuove che non avremmo pensato di veder piovere sulla Terra così presto e con così tanta angoscia. Peggio sarebbe però insistere e riproporsi di continuare a progettare il Pianeta come un proprio manufatto. Un mondo tutto sotto controllo, disconnesso dalla natura e dal resto del vivente, da consumare solo da parte di pochi, con un meccanismo vorace e predatorio, da cui ci si separa sempre più di rado.

Colpisce che tra le attività che non sono state poste in lockdown dal Governo durante la pandemia ci siano quelle estrattive e che, a quanto mi giunge notizia, stiano per attraccare a Civitavecchia carboniere di grandi dimensioni, per il cui scarico potrebbero circolare centinaia di autotreni dal porto verso la centrale, con spargimento di pulviscolo inquinante, consegnando all’Enel una città in ginocchio proprio quando la riconversione dell’area a fonti non fossili e a immagazzinamento di idrogeno potrebbe essere dietro l’angolo!

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