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Tra le istituzioni prende piede la versione più recente del negazionismo climatico

Il governo Meloni non tiene il passo del sistema di aiuti europei, non solo sul Pnrr. Il 27 giugno scade la data di aggiornamento dei piani nazionali climatici e sull’energia che fanno riferimento agli obbiettivi del Green Deal UE, che prevede la neutralità climatica per il 2050. Quali obbiettivi raggiungerà il nostro Paese?

Il consiglio di 28 accademie scientifiche nazionali degli Stati membri dell’Ue ha elaborato un documento in cui spiega l’urgenza di uscire dal gas, aggiungendo che per aumentare massicciamente la produzione di energia elettrica da rinnovabili occorre sostenere le famiglie e le imprese vulnerabili per limitare la povertà energetica e gli impatti derivanti da bollette energetiche elevate. Un programma dettagliato e ragionevole, in cui si esclude che investimenti in gas naturale vengano considerati compatibili con l’obbiettivo di contenere la temperatura del pianeta entro 1,5°C.

Eppure, il 23 maggio, il nostro Consiglio dei Ministri ha approvato, proprio nel decreto per le alluvioni in Emilia-Romagna, una norma che, all’art 6, consente di “realizzare nuova capacità di rigassificazione e di spostare, per utilizzarle altrove, se occorre, le navi che stoccano e rigassificano gas liquefatto”. La contraddizione è palese e contiene addirittura una provocazione: l’emergenza non si concentra solo sulle popolazioni colpite, ma viene in subdolo soccorso degli interessi di Big&Oil, tra i responsabili accertati degli eventi disastrosi cui assistiamo.

E’ ormai grande la distanza dei governi dalle emergenze epocali che la scienza segnala e a cui le nuove generazioni dedicano finalmente grande attenzione. Non si tratta più soltanto di una “Greta” da isolare quando contesta gli effetti letali delle combustioni fossili, ma di un’ondata in crescita di ragazze e ragazzi che hanno consapevolezza di quanto il presente non prepari per loro un futuro desiderabile.

Occorre rendersi conto che, con un lavoro assiduo e dietro le quinte dei comitati, dei think-tank e dei conferenzieri strapagati, ma anche dentro le commissioni istituzionali dei Parlamenti nazionali della Ue e dei vari G7, sta prendendo piede la versione più recente del negazionismo climatico: le rinnovabili consumeranno troppi materiali rari, non potranno raggiungere il 100% e dovranno obbligatoriamente cedere il passo ad un pesante soccorso di gas e nucleare per “scollinare” il 2050. Risulta così ancor più brusca la distanza tra la scienza (non solo quella di fisici eccellenti come Rovelli o Parisi, ma quella dell’intero staff globale dei climatologi dell’Ipcc) e i governanti, che si alleano per andare all’attacco degli accordi internazionali sottoscritti a Parigi nel 2015 e anno dopo anno infranti.

Le manovre di avvicinamento tra il Ppe (destre classiche) e i sovranisti (destra estrema), nella prospettiva delle prossime elezioni europee (6-9 giugno 2024), si stanno concentrando proprio sul freno al Green New Deal Ue. I contatti sono sempre più stretti e contano anche sulle convenienze di settori finanziari e industriali legati alle fonti fossili e nucleari e sulla influenza sui rispettivi governi (si vedano le nomine negli enti del governo italiano) di imprese partecipate che approfittano della guerra in Europa per accumulare extraprofitti da impianti obsoleti e drammaticamente nocivi. Un recente studio pubblicato da Reclaim Finance, ReCommon e Greenpeace ha calcolato che meno del 20% degli investimenti previsti da Eni nei prossimi anni andranno a finanziare progetti di energie rinnovabili, superando del 70% la prevista riduzione delle emissioni previste dalla IEA per il 2030.

La destra europea, compresa quella italiana, punta – dopo l’invasione russa dell’Ucraina – a mantenere gas e nucleare in una funzione cruciale nella transizione verso il “tutto elettrico”. E la ragione politica sfugge tuttora agli ambientalisti e alle sinistre: c’è un tratto di liberismo che è ampiamente sostenuto nel mercato energetico. Da quando i flussi energetici statunitensi hanno contribuito a sostituire buona parte del petrolio e del gas russi, l’aspetto proprietario dello shale gas americano fornito da produttori indipendenti ed estratto su terreni di proprietà privata viene giocato sul libero mercato. In tal guisa, il GNL diviene proprietà dell’acquirente non appena viene caricato su un’apposita nave cisterna e il carburante è considerato franco a bordo (FOB) in quanto all’acquirente è data la flessibilità di spostarlo in qualsiasi luogo desideri. Ciò significa spesso vendere il gas liquefatto nel luogo in cui il prezzo produce il maggiore profitto. Un danno per i consumatori, ma non per Eni e per le aziende private o ex municipalizzate che hanno interesse ad avere più gas in circolazione e a venderlo ovunque richiesto, in Italia o altrove, possibilmente sul mercato spot, perché questo massimizza i profitti.

Quindi, mantenere turbogas e condotte e puntare a fare dell’Italia “l’hub europeo del gas” (un punto di vendita nel caso di sovrabbondanza) significa badare ad interessi molto precisi, a danno, ovviamente, della sostituzione con energie da rinnovabili (ad uso misurato delle comunità locali). Il governo Meloni non vuole “scatenare le rinnovabili”, mentre non ha problemi a dare immediata via libera ad una nave “gasiera” – una fabbrica galleggiante che arriverà a giugno a Ravenna – mentre un impianto simile è arrivato a Piombino a marzo tra mille polemiche. Intanto è in costruzione un nuovo gasdotto tra Sulmona, in Abruzzo, e Minerbio, in provincia di Bologna, per nuova capacità di rigassificazione nazionale, qualificato come “opera di pubblica utilità indifferibile e urgente.

Ovviamente le compagnie del gas puntano ai fondi del Pnrr e di RePowerEu, o, almeno, ad ottenere garanzie pubbliche per un piano di investimenti che ci legherà ancora di più al gas negli anni a venire: non importa se la domanda interna diminuisce, si venderà altrove. E il clima e gli eventi catastrofici, ovviamente, renderanno ancora più insopportabili le guerre in corso.

Velocizzare l’installazione di impianti eolici e solari, sviluppare le “comunità energetiche”, agire sull’efficienza, riconvertire i consumi richiede mobilitazione e una coalizione sociale che sappia fare un’opposizione propositiva per giovani e lavoro. Le iniziative svolte il 27 a Roma e quelle in preparazione su tutto il territorio nazionale per la prima decade di giugno fanno ben sperare.

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Cingolani, il fisico più inviso agli ambientalisti risulta il politico più affidabile per Meloni e Descalzi

Probabilmente Roberto Cingolani, fisico, esperto e manager multiforme, si era già “recato” sul Sole dove aveva acclarato il verificarsi del fenomeno della fusione che prometteva per il prossimo decennio sulla Terra, senza contare che si trattava di fenomeni e condizioni assai differenti. Infatti, l’enorme gravità della stella consente di compenetrare in abbondanza e con naturalezza – alla distanza di 150 milioni di km da noi – atomi di idrogeno che si trasformano in elio e non di dover creare apparati artificiali improbabili di enorme potenza soltanto per fondere per una frazione di secondo isotopi rari dell’idrogeno, come il trizio e il deuterio. Insomma, un impreciso diversivo pur di non affrontare il precipitare del cambiamento climatico.

“Ritornato” come se niente fosse sulla Terra, si è distinto nel dilazionare i tempi di passaggio alle rinnovabili insediandosi nella capitale in veste di Ministro per la Transizione Ecologica. Risultato: il Pniec è dopo un lustro ancora in revisione e la rincorsa al gas da ogni dove, gradita a Draghi e poi suggellata da Meloni e dal suo “vicepremier” Descalzi, è stata avviata nei suoi uffici. Dobbiamo molto a lui se una strategia energetica di fuoriuscita dal fossile – nonostante i favori che il Pnrr attribuisce all’Italia – non è nemmeno confrontabile con quella elaborata in Spagna o nei paesi nordici e se il conto terrificante delle emissioni di CO2 dovuto alle guerre in corso (un giorno di combattimenti in Ucraina equivale alle emissioni della provincia di Bologna) non lo turba affatto nel trasferirsi nella funzione di amministratore delegato di Finmeccanica, la massima industria bellica italiana. Quindi, il fisico più inviso agli ambientalisti risulta il politico più affidabile per Meloni e Descalzi, determinati al punto di offrirgli un banco di prova per una politica economica estera, dove i pagamenti avvengono spesso tramite il commercio di armi.

Sull’incredibile ritardo accumulato sulle rinnovabili è apparsa il 13 aprile su Italia Libera una lettera a Schlein e Conte, inviata da quattro ambientalisti protagonisti della svolta antinucleare italiana – che invito a leggere e che andrebbe spedita all’intera area (non solo Pd e M5S) – che sostiene un futuro di ecologia integrale: Gianni Mattioli, Vincenzo Naso, Massimo Scalia e Gianni Silvestrini rivendicano di essere stati tra i protagonisti di un percorso di transizione ecologica nato in Italia prima che in altri Paesi, ma che ora ha bisogno di un “aggiornamento”, di un obbligo rispetto all’accelerazione dei drammatici fenomeni innescati dal global warming. Non si può che condividere la richiesta di un impegno serio e possibile nelle fonti rinnovabili, rispetto al “bacino” dei 180 GW che già tre anni fa risultavano a Terna come richieste di allaccio alla rete e che avrebbe ottenuto ad oggi una quasi totale indipendenza dal gas russo.

Mentre “uno dei vicepremier –si legge nella lettera – si balocca su proposte tempestive e altamente attendibili come il ‘ponte sullo Stretto’ o il nucleare da fare ‘a Baggio’, sua residenza, mentre l’altro si fa espropriare gli interventi più importanti di politica estera dal ceo dell’Eni, Claudio Descalzi, che in verità, più che sembrare, è il vero dominus dell’Amministrazione Meloni. Infatti, si trascurano i suoi risibili obiettivi – 15 GW di rinnovabili entro il 2030, a fronte dei 100 GW della Total e di 50 GW della Bp – mentre propone l’Italia, forte della sua posizione nel Mediterraneo, come hub del gas per tutta l’Europa del Nord. Subito accompagnato dal cinguettio omofono di Giorgia Meloni, in nome della sovranità energetica nazionale”.

E’ del tutto da condividere il dar vita ad un grande progetto per la riconversione ecologica dell’economia e della società, come da decenni richiedono in tutto il mondo i movimenti ambientalisti, per la pace e per la giustizia sociale. È un impegno gigantesco, che necessita della partecipazione diretta dei cittadini, in forme di rappresentanza diretta, indiretta, partecipativa, associativa e sindacale, già in atto peraltro in alcune situazioni europee, che rimonti l’attuale disgusto per la politica così impietosamente misurato dalla costante crescita dei non votanti alle elezioni.

Si può e si deve fare: ne va sempre più drammaticamente del futuro nostro, dei figli e dei nipoti. Una risposta come quella realizzata a Civitavecchia, di cui sono stato testimone, ha costruito l’alternativa rinnovabile alla centrale a turbogas lungo la costa tirrenica e innescato nuovi progetti anche manifatturieri con grandi benefici per il lavoro, la sua riqualificazione e la salute del territorio.

Intanto, anche sulle spinte qui illustrate, nel Paese si incomincia ad avviare un percorso il più possibile largo e partecipato – con lo slogan in prima approssimazione “voi bloccate le rinnovabili, le rinnovabili bloccano i vostri uffici” – per un appuntamento di mobilitazione a inizio giugno sul tema del fermo delle rinnovabili nel nostro Paese. Finalmente anche l’Italia unisce le forze per impedire – come insidiosamente si palesa anche in alcuni incoerenze che spuntano nella stessa Commissione Ue – che la guerra, il pericolo nucleare e la crisi climatica rendano invivibile il pianeta che abbiamo ottenuto in prestito.

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Civitavecchia, dal gas al vento e al sole: una grande conquista dei cittadini di cui non si parla

In questi giorni è passata sotto silenzio una notizia di notevole rilievo che – a mio parere – potrebbe non solo influenzare ma qualificare il prossimo decennio dell’assetto del sistema energetico nazionale. Mentre la guerra in corso spinge i nostri ministri e capi di governo, affiancati dall’immancabile ad di Eni, De Scalzi, a siglare accordi per l’approvvigionamento di gas fossile proveniente dai pozzi e da regioni lontane dalla nostra penisola, con bilanci energetici ambientali e implicazioni finanziarie e politiche pesantemente sfavorevoli, il 22 marzo una serie simultanea di comunicati ufficiali – sottolineati con enfasi dalle sigle in calce di tre grandi imprese Eni, Cni, Cdp e Cip – hanno inondato le redazioni italiane e europee, senza tuttavia che le notizie in essi contenuti fossero in particolar modo amplificate da giornali, social o tv.

Il 22 marzo è stata formalizzata la costituzione di una colossale joint venture tra Eni, Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) e un forte partner danese (Cip) – il più grande gestore di fondi dedicato agli investimenti verdi nelle rinnovabili – per rendere operativi a regime 3 GW di nuova capacità verde, ottenuta con eolico galleggiante a 30 km dalle coste del Tirreno (Civitavecchia) e delle grandi isole italiane.

Deve sempre sollevare apprensione la presenza di grandi interessi economici e finanziari nell’esecuzione di progetti decentrati e a carattere territoriale, ma credo che, nel caso della fruizione dell’elettricità, l’attenzione dei cittadini e il loro diritto a condeterminare le scelte partecipando e cooperando tra di loro possano risolvere ogni prevaricazione. Forse si può capire perché la comunicazione della nuova Joint Venture per l’eolico offshore sia stata data un po’ sotto traccia – come un improvviso colpo di fulmine da appannare dopo scoccato. In effetti, essa non poteva che risultare del tutto contraddittoria rispetto al rilancio del gas e del sistema centralizzato di approvvigionamento e combustione dei fossili per produrre energia, cui ci ha abituato il sistema che puntiamo a cambiare.

Siamo nel mezzo di una disputa aspra tra cittadini locali e rappresentanze istituzionali riguardo all’approdo in rada di enormi rigassificatori a Piombino e Ravenna. E il tenue clamore per un irreversibile rilancio delle rinnovabili, attraverso una partnership robusta e credibile, è del tutto spiegabile con il coinvolgimento e la compromissione dei nostri governi con la vecchia politica energetica. In questi stessi giorni viene rilanciato il progetto di sequestro di CO2 in Romagna, sotto l’egida di Eni e del Presidente della Regione, mentre la presidenza del Friuli mostra arrendevolezza nell’accettare la riconversione della Centrale a carbone di A2A a Monfalcone con un più potente turbogas.

Di conseguenza, un impegno così rilevante su eolico e fotovoltaico troverà resistenze e imbarazzi nel constatare che settori energetici, finanziari e industriali si muovono verso positive ricadute occupazionali, manifatturiere e ambientali fin qui ignorate dal Pniec (v. https://www.mase.gov.it/), dal maggior ente energetico nazionale e dai governi romani.

In ogni caso, non si può fare a meno di constatare che l’avvio di una riconversione dal gas al vento e al sole è maturata a Civitavecchia in un contesto di straordinaria partecipazione democratica che, andando oltre alla mera opposizione al metano, ha saputo costruire le condizioni per una coalizione sociale che ha favorito l’incontro di cittadini, studenti, sindacati, ricercatori e tecnici e ha tradotto in politica la pressione sociale per liberarsi dall’inquinamento.

Di questa premessa nei comunicati usciti il 22 marzo non c’è traccia, mentre sta proprio in essa il valore aggiunto dell’approdo cui si sta pervenendo e che richiederà passi ulteriori verso la solarizzazione delle strutture del porto, le comunità energetiche e la mobilità sostenibile.

La stima del progetto complessivo è data a circa 5 TWh (2 milioni di famiglie ai consumi attuali); la sua operatività è prevista tra il 2028 e il 2031 a valle della conclusione dell’iter autorizzativo e dei lavori di installazione da compiere. La realizzazione sarà affidata a un team di lavoro congiunto affiancato da Nice Technology e 7 Seas Wind Power, società italiane che si avviano a consolidare la loro esperienza nel comparto offshore incoraggiando la crescita occupazionale e professionale anche della filiera produttiva locale.

Forse comincia a traballare l’ipotesi propria del governo Cingolani-Draghi e, probabilmente, di quello attuale di dilazionare i tempi per l’abbandono del gas entro il 2050. E perfino l’Eni, dopo la rinuncia dell’Enel al turbogas di Torrevaldaliga, si comincia a rendere conto che non abbiamo più tempo per mantenere un mix fossile di fonti energetiche oltre la metà del secolo.

In conclusione, la risorsa che nasce dalla partecipazione e dalla democrazia dal basso dimostra che si possono far convergere sulla conversione ecologica interessi riluttanti a riprogettare l’erogazione di energia sulla base di un nuovo paradigma duraturo e desiderabile, in armonia con la biosfera, come si conviene in una fase di drammatica emergenza climatica e sociale.

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Le auto elettriche abbatteranno il rumore e le emissioni inquinanti. Allora perché tanta ostilità?

Riprendo l’articolo pubblicato il giorno dopo la decisione del Parlamento Ue sull’auto elettrica con alcune osservazioni che vanno al di là della cronaca e attestano ancora una volta l’inadeguatezza dei nostri governanti a mantenere un minimo di coerenza con le linee di fondo sul clima adottate dal Parlamento Europeo. A Strasburgo il centrodestra italiano (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia) ha votato compattamente contro il termine del 2035, oltre il quale si potranno immatricolare solo auto elettriche.

Già il governo Draghi si era battuto per il principio della “neutralità tecnologica” sostenendo che sarebbe stato un errore puntare su una mobilità esclusivamente elettrica. Si tratta non di un fatto estemporaneo o di un timore giustificato per l’occupazione, ma di una linea di fondo di non percezione dell’urgenza di un cambiamento complessivo delle produzioni e dei consumi in un tempo che viene ogni giorno sempre più a mancare e che necessita di un impegno altrettanto urgente per la giustizia sociale e la difesa del lavoro.

E’ significativo come perfino un redivivo Roberto Formigoni abbia oggi sentenziato contro il limite fissato al 2035 dimenticandosi forse che fin dal 2004 un gruppo allargato di ricercatori dell’Enea, sotto la supervisione del Nobel Rubbia, avesse presentato alla Regione Lombardia un articolato piano per la mobilità sostenibile fondato sulla riconversione a idrogeno dei motori degli autoveicoli e sull’estensione di sistemi di logistica intermodale in cui prevalesse il trasporto pubblico. Si trattava di riconvertire l’intera area Alfa Romeo in una manifattura prestigiosa e all’avanguardia e finita, invece, dopo estenuanti confronti, con l’ospitare il più grande supermercato d’Italia – “Il Centro” di Arese – il cui azionista di maggioranza è da sempre vicino alla Compagnia delle Opere. La povertà di visione di chi ci governa (in Lombardia ormai da 30 anni) riduce perfino la politica industriale a interessi di parte e ad un gioco di poteri stantii.

Qui vorrei inquadrare il salto di qualità che i due provvedimenti adottati dal Parlamento Ue (Fit for 55 e Stop al 2035) cercano di imporre, sempre che la Commissione e i capi di governo non ne attenuino il significato, come è avvenuto sulla “tassonomia europea” e come sta profilandosi sulla riduzione della quota di rinnovabili da varare entro il 20230 – dal 45% al 40% secondo la Commissione. E’ in atto, purtroppo, un pericoloso scostamento tra gli esecutivi e il Parlamento, che Ursula von der Leyen tratta con troppa disinvoltura e con un ascolto non irrilevante delle lobby fossili.

Il settore dei trasporti è responsabile del 30% delle emissioni totali di CO2 in Europa. Dal punto di vista delle fabbriche automobilistiche, le principali difficoltà tecniche per alleggerire l’inquinamento da traffico consistono innanzitutto nella riduzione delle emissioni di anidride carbonica e, inoltre, nel contenimento degli ossidi di azoto (NOx) per le alimentazioni diesel e del numero di particelle microscopiche (PN) per le alimentazioni a benzina a iniezione diretta, emissioni pesate come anidride carbonica equivalente (CO2 eq.).

Da fine degli anni 90 gli approcci ai regolamenti sui gas serra per i veicoli commerciali si erano concentrate sulle emissioni dal condotto di scarico. Così, in tutta la trafila di classificazioni per gli autoveicoli da Euro 1 a Euro 6 si sono fissati limiti di emissioni del combustibile impiegato misurati “al tubo di scappamento”. Invece dal 2035 facendo riferimento esclusivamente al vettore elettrico anziché continuare ad andare esclusivamente nella direzione di combustibili a minor emissioni di carbonio, ci si muoverà verso le nuove fonti di alimentazione dei motori, come i gruppi motopropulsori elettrici delle batterie, che ottengono la loro energia dall’elettricità con cui si caricano. E qui entra in gioco non solo il gas misurato allo scappamento del veicolo, ma anche quello immesso in atmosfera dal mix di fonti con cui si alimentano le colonnine di ricarica. Il passaggio all’elettrico ha quindi un significato che va oltre il settore automobilistico: anche per l’inquinamento dovuto alla mobilità diventerà sempre più rilevante il percorso con cui si procurerà l’elettricità trattenuta nelle batterie o come verrà prodotto, eventualmente, l’idrogeno (verde o grigio) che alimenterà le celle a combustibile montate sui veicoli.

In sostanza: il salto di qualità sta nel porsi un obbiettivo più esteso: il vettore (elettricità o idrogeno) che consente al motore elettrico di abbassare drasticamente gli inquinanti rispetto al motore a combustione termica andrà a sua volta ottenuto da fonti rinnovabili a bassissime emissioni anziché da fonti fossili, grandi emittenti di climalteranti e gas inquinanti (o radiazioni nel caso del nucleare). La cosa interessante da notare è che per la prima volta un Regolamento europeo sulle emissioni nel settore automotive cita la metodologia dell’intero ciclo di vita (Lca). Puntando – corroborato dal contributo degli obbiettivi del “Fit for 55” – a diminuire drasticamente anche le emissioni a monte legate alla produzione dell’energia elettrica o dell’idrogeno impiegati dal veicolo.

L’obbiettivo è molto ambizioso e condivisibile: un sostanziale assorbimento di energia elettrica per il settore stradale può fungere da driver per aumentare la quota di energie rinnovabili nel mix di fonti energetiche Ue. E, parimenti, “l’inverdimento” del mix di reti aiuta anche “l’inverdimento” del settore stradale. In base alla penetrazione delle rinnovabili (fissate dalla Ue almeno al 45% al 2030) è possibile stimare che le emissioni clima-alteranti (in tutto il ciclo di vita) dei veicoli saranno almeno quasi dimezzate al 2035. Per di più, i veicoli abbatteranno radicalmente il rumore e le emissioni inquinanti (NOx, CO, PM, HC) in ambito locale. Perché allora tanta ostilità e insensibilità climatica da parte dei nostri ministri e governanti?

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L’anno nero dell’energia e i timidi passi verso la transizione: ma le lobby sono ancora troppo forti

Se dovessimo fare un bilancio sull’avanzamento della conversione energetica nell’anno appena conclusosi difficilmente potremmo essere ottimisti, anzi! L’energia è emersa nel suo aspetto più politico, svincolandosi dal peso del solo mercato, condizionata ampiamente da un’incipiente “terza guerra mondiale a pezzi”. La stessa coesione della Ue, dimostrata al tempo del “20/20/20”, si è frantumata a fronte di una crisi energetica senza precedenti. Dodici riunioni dei ministri dell’Energia – precedute da 191 riunioni di gruppi di lavoro e ambasciatori – per coordinare la risposta dell’Europa all’aumento dei prezzi del gas e dell’elettricità hanno soltanto assunto l’impegno generico ad acquistare congiuntamente la fonte fossile ad impatto forse meno devastante e ad accelerare l’autorizzazione degli impianti di energia rinnovabile, per sostituirla in un futuro “compatibile” con i suoi effetti climalteranti.

Ma invece del “grande affare energetico europeo” di cui l’Europa aveva bisogno, i leader dell’Ue sono rimasti bloccati nella politica interna. Al di là della svolta politica, indotta dall’invasione russa dell’Ucraina, ciò che rimane è una lotta senza senso per un tetto massimo del prezzo del gas, che nella migliore delle ipotesi farà ben poco per abbassare i prezzi dell’energia e, nella peggiore, spaventerà i venditori sul mercato. Lo stanziamento comune Repower UE per la riconversione dal fossile è sostenuto con pochi soldi freschi – un misero 20 miliardi di euro prelevati dal mercato delle emissioni – e, mentre i Paesi dell’Ue sostengono a parole e con distinzioni preoccupanti le energie rinnovabili, i loro governi rimangono riluttanti a impegnarsi per un obiettivo al di sopra del 40% per il 2030.

I centri di potere legati ai fossili sono tuttora colossi pubblici che rendicontano al governo del proprio Paese del loro operato. Il ruolo delle lobby ha di conseguenza sovrastato la svolta ancora timida verso l’autoproduzione da fonti naturali, il decentramento territoriale, il risparmio, le forme di consumo comunitarie. In realtà è come se i governi e le popolazioni si trovassero su due diversi binari, mentre le vere emergenze del clima, della guerra (nucleare?), della riduzione delle libertà e dei diritti sociali si spostano nel tempo su uno sfondo geopolitico incerto.

Il 2022 anno nero per il clima

Secondo l’ultimo rapporto della Iea, nel 2022 le emissioni mondiali di CO2 aumenteranno di 330 milioni di tonnellate. Ma le tonnellate in più sarebbero state il triplo senza il contributo delle rinnovabili e della mobilità elettrica. L’incremento mondiale della di CO2 in questo anno (+1%) è stato determinato da un piccolo aumento (+1,5%) delle emissioni statunitensi e da uno più elevato di quelle indiane. Le emissioni cinesi hanno registrato invece un lieve calo (-0,9%), analogo a quello della UE (-0,8%).

Veniamo da un periodo di siccità che ha colpito l’Italia, soprattutto il centro nord, con un clima sempre più torrido e con una diminuzione massiccia della produzione agro-alimentare. Il rapporto di Legambiente registra 310 “fenomeni” che hanno provocato 29 morti. A livello territoriale il nord della Penisola è stata l’area più colpita. A livello regionale la Lombardia è la regione che registra più casi “singolari”, ben 37. Il mese di giugno, poi, ha visto una anomalia della temperatura media di +3,3°C in Italia. A luglio il record si è registrato nelle città lombarde: a Brescia e Cremona si sono misurati 39,5°C, a Pavia 38,9°C e a Milano 38,5°C. Ne hanno mai parlato Salvini o Fontana? Senza risorse è impossibile ripensare la città. Come garantiamo, di conseguenza, ad agricoltura e allevamento le opportunità per diversificare le attività? Come promuoviamo la vivibilità per i cittadini e la sopravvivenza delle attività produttive?

Per quanto riguarda il mare che lambisce le nostre coste, va detto che sono uno dei pozzi di carbonio più preziosi al mondo. Sono le distese di acqua salata a catturare e trattenere circa 1/3 dell’anidride carbonica emessa dall’uomo ogni anno in atmosfera. Tuttavia, questo ruolo di “carbon sink” scricchiola sotto il peso del riscaldamento globale. Oceani più caldi renderanno “più difficile per il carbonio organico trovare la strada per essere sepolto nel sistema sedimentario marino”. Eppure a Ravenna l’Eni conta di poter seppellire in mare la CO2 sequestrata dai suoi impianti!

La crisi pandemica, i lockdown, il caro energia e di materie prime con un’inflazione a due cifre, la guerra in Ucraina, i rischi sempre più concreti di sicurezza sulle forniture, gli eventi climatici sempre più estremi, sono tra loro interdipendenti e il cambio di paradigma energetico assume un ruolo molto rilevante: basta pensare che l’Italia ha speso nel 2022 circa 75 miliardi di euro in più per l’energia rispetto alla media dei 10 anni precedenti. Una cifra comparabile con gli investimenti per lo sviluppo delle fonti rinnovabili in base agli obbiettivi europei assegnatici dalla Ue al 2030.

La guerra in Ucraina e la sostituzione del gas russo

Certamente la data del 24 febbraio ha impresso un punto di svolta determinante, ma già con l’inizio dell’anno, dopo l’approvazione della tassonomia europea che rendeva “green” il gas e il nucleare, si è realizzata una prima ferita alla completa decarbonizzazione del sistema elettrico, da conseguire entro metà secolo nella Ue.

Con l’eliminazione delle importazioni di gas dalla Russia, resa ancor più definitiva dopo la distruzione dei gasdotti Nord Stream 1 e 2 (avvenuta lo scorso 26 settembre), l’Europa ha tagliato i ponti dietro se stessa, ricorrendo ad un maggiore impiego del carbone ed alla riconferma del nucleare assieme ad una corsa forsennata a trovare nuovi canali di rifornimento di metano. Pur tuttavia, nello stesso tempo, è stato incrementato l’apporto delle rinnovabili di 39 TWh in più rispetto al 2021 (+13% su base annua), con il primato del Portogallo che ha alzato dal 58 all’80% la quota di rinnovabili elettriche da raggiungere nel 2026, mentre l’Italia è per ora rimasta sostanzialmente al palo di una incerta progettazione di eolico e fotovoltaico in mare.

Nell’immediato, il nostro governo ha deciso di cercare nuovi partner e nuove condotte per il metano e di mettere in opera due nuovi rigassificatori galleggianti per l’acquisto nei prossimi anni di gas liquido (GNL). Un’operazione giustamente contestata per l’aspetto strutturale che sottende: il ciclo del GNL è molto inquinante. Passa infatti da estrazioni rovinose, dal successivo processo di liquefazione, dal trasporto via mare a lunga distanza in grandi navi, dalla necessaria rigassificazione e dall’aggancio finale ai tubi dei gasdotti locali. In pratica, il governo ricorre ad un potenziamento non temporaneo delle infrastrutture fossili, reso evidente dall’annuncio di progetti di 2.000 km di nuove pipeline, il 18% in più rispetto all’esistente. Risulta così ancor più rilevante la dispersione in atmosfera di quantità di CH4 puro, fortemente climalterante.

Ci si affida quindi alla carta del GNL il cui limite operativo non dipende da fattori tecnologici, ma dalle infrastrutture che sono rappresentate, dal numero di navi gasiere disponibili sul mercato e dai terminali di liquefazione (in partenza: Usa e Qatar) e di rigassificazione (in arrivo: Piombino e Ravenna in primo luogo). La costruzione di altri gasdotti e di approdi alle metaniere, quando il mondo ha bisogno di abbandonare urgentemente i combustibili fossili è una tendenza più che preoccupante e non solo per il nostro Paese.

L’illusione del nucleare e il miraggio della fusione

Roberto Cingolani sul Corriere del 31 dicembre proclama: “Nucleare niente pregiudizi, il futuro passa da qui: armi ed energia sono cose diverse”. Buon per lui. Che il prossimo decennio sia decisivo per la storia umana lo scrive nell’introduzione il documento in 80 pagine sulla strategia di difesa Usa (DNS), centrato in gran parte sull’impiego dell’arma nucleare e sulla supremazia tecnologica del Pentagono. Geopolitica al top e biosfera e natura retrocesse a preda del vincitore.

Una simile distorsione nell’interpretare l’epoca attuale comporta un arretramento di civiltà, un colpevole spreco di risorse necessarie alla sopravvivenza, la predisposizione alla guerra come soluzione della “concorrenza” tra blocchi in corsa per l’egemonia globale. In un simile contesto è l’energia che la fa da padrone, anche sotto la forma più incontrollabile delle armi. In questo quadro “scosso” è facile far scivolare l’opinione pubblica verso il nucleare civile, da fissione o fusione che sia, raccontato come praticabile e difendibile quanto l’uso incontenibile delle armi, fino ad un sommesso “sdoganamento” dell’atomica.

In un contesto così alterato prende corpo il miraggio della fusione, un’energia come quella che proviene dal sole (ma ad una distanza di 150.000 km!) che nell’esperimento propagandato a Livermore non tiene conto del divario incolmabile tra il risultato dell’accensione e l’energia necessaria per il pareggio del dispositivo. Questo modo di procedere e di spacciare per ingegnerizzabile e commerciabile in anni vicini un esperimento di prevalente destinazione militare, ha instaurato tra scienza e tecnologia un processo politico di decisione e informazione dei cittadini con l’obbiettivo di mettere sotto il tappeto quel “non c’è più tempo”, che invece è ormai patrimonio del senso comune ed ha a portata di mano la rivoluzione delle rinnovabili.

[CONTINUA…]

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