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Tap, per dire no bastava scegliere di ridurre i consumi

di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

Ci sono elementi che da sempre sono stati considerati alla base di una buona politica energetica: la diversificazione delle fonti, la riduzione della dipendenza dalle forniture estere e, nell’ambito della fornitura di fonti fossili, la diversificazione dei fornitori per non essere ostaggio di nessuno. Elementi fondamentali per un Paese come l’Italia, affamato di energia, ricca di fonti naturali, ma senza grandi giacimenti di petrolio e gas fossili. La progressiva incidenza delle Fer e la riduzione dell’intensità energetica hanno contribuito, negli ultimi anni, alla riduzione della dipendenza del nostro Paese dalle fonti di approvvigionamento estere. La quota di fabbisogno energetico nazionale soddisfatta da importazioni nette rimane elevata (pari al 76,5%) ma più bassa di circa sei punti percentuali rispetto al 2010. Quindi, generazione da Fer ed efficienza energetica sono le migliori armi per ridurre la dipendenza dall’estero e aumentare la propria indipendenza. Una considerazione banale ma troppo spesso trascurata.

Dopo un decennio di riduzione dei consumi energetici però, lo scorso anno, la domanda di energia primaria è tornata a crescere (+1,5% rispetto al 2016); e l’energia in più di cui abbiamo avuto bisogno è venuta soprattutto dal gas, il cui contributo al bilancio energetico nazionale è salito al 36,2%. 

Le rinnovabili, come segnalato in precedenti post, continuano a essere stazionarie, nel 2017 segnano un lievissimo aumento passando dal 19,1% al 19,2% del bilancio energetico nazionale, il resto è fossile. Di conseguenza, aumentando la domanda e non aumentando proporzionatamente le fonti Fer, il nostro grado di dipendenza dall’estero, è peggiorato.

Ma torniamo al gas. Nel 2017 la domanda di gas naturale è stata pari a 75,2 miliardi di metri cubi, con una crescita di circa 4,3 miliardi (+6,0%) rispetto ai 70,9 miliardi del 2016. Tale domanda è stata coperta per il 7% dalla produzione nazionale e per il 93% attraverso l’importazione. In particolare, la produzione nazionale di gas naturale è stata pari a 5,5 miliardi di metri cubi in riduzione del 4,3% rispetto al 2016, l’importazione è stata pari a 69,7 miliardi di metri cubi con un incremento del 6,7% rispetto al 2016. L’unico dato positivo da segnalare è che circa 9 milioni di metri cubi di gas sono stati prodotti dall’impianto di biometano di Montello (Bg).

Le importazioni via gasdotto sono state pari a 61 miliardi di metri cubi, ma dai nostri “tubi” con l’estero abbiamo una capacità di import pari a circa 114 miliardi di mc l’anno (Fonte Mise). Quindi molto più che sufficienti. Da dove è venuto l’aumento dei consumi? Soprattutto dalle centrali termoelettriche (2,5 miliardi di metri cubi in più (+10,5%). Quindi in sintesi la nostra scelta è di bruciare più gas per fare elettricità, piuttosto che installare più pannelli solari o pale eoliche. Questo dicono i numeri. Da quattro anni il numero dei nuovi pannelli installati è sufficiente solo a compensare il degrado di quelli installati dieci anni fa, mentre per centrare i target Ue al 2030 si dovrebbero installare in media 4 Gw di nuovi impianti all’anno, contro i 0,4 (400 Mw) che installiamo.

La scelta fossile è esplicitata dalle politiche: l’ok al Tap, anche da parte di chi lo ha sempre contestato a fronte di nessuna misura di incentivazione alle fonti rinnovabili è un messaggio chiaro. Dall’inizio di questa legislatura energia e clima sono sparite dal dibattito politico, azzerate. Eppure, per dire no al Tap non serviva alcuna analisi, bastava scegliere di ridurre i consumi decidendo di fare elettricità con sole, vento e terra. Se oggi abbiamo capacità di import pari quasi al doppio dei consumi basta decidere di non farli aumentare di più scegliendo di portare avanti quella rivoluzione energetica che il nostro Paese aveva iniziato anni fa, lasciandola poi languire negli ultimi anni. Ma, soprattutto, serviva scegliere di proteggere il clima, di far qualcosa non solo propagandistico di fronte alle coste devastate della Liguria o ai milioni di alberi morti nel bellunese o ai morti in Sicilia nell’ondata di maltempo che ha violentato alcune nostre terre.

Anche perché il metano è una delle molecole più climalteranti, molto peggio della CO2; l’Ipcc stima che sia responsabile del 20% del riscaldamento climatico e studi pubblicati anche sul prestigioso Nature hanno rivelato che il 2,3% del metano estratto riesce a “scappare” in atmosfera. Investire nel clima sarebbe stata l’occasione anche per investire soldi generando lavoro (in un anno “scarso” come il 2017 si stima comunque che alle attività legate alla realizzazione e gestione di nuovi impianti alimentati da Fer siano corrisposte circa 70mila unità di lavoro permanenti e 44mila temporanee), riducendo l’inquinamento dell’aria, avviando finalmente anche nel nostro Paese lo sviluppo della mobilità elettrica che deve andare di pari passo con l’aumento della generazione da fonti rinnovabili perché ne è complementare.

Il nostro è uno dei Paesi col più alto tasso di motorizzazione, cioè col rapporto più alto fra cittadini e numero di automobili: 62,4 auto ogni 100 abitanti, dato che ci pone al sesto posto della classifica mondiale. Quindi tanto lavoro da fare. Nei primi 10 mesi dell’anno sono state immatricolate 1.649.678 automobili, di cui elettriche pure solo 4.167, +150% rispetto al corrispondente periodo dello scorso anno ma comunque pari allo 0,3% del totale. Il precedente ministro delle attività produttive aveva annunciato un milione di auto elettriche entro il 2022. Ma rimane un annuncio, che nemmeno l’attuale ministro ha in qualche modo ripreso, mentre resta al palo la creazione di una rete nazionale di colonnine di ricarica, nelle mani al più delle iniziative delle singole imprese elettriche, che guardano al di là del naso del trio di governanti intenti a litigare e riappacificarsi subito dopo con grande dispendio di energia.

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Verso la COP24: scienziati e governi su strade diverse

di Roberto Meregalli

Non ha trovato molto spazio sui mass media la notiziadella pubblicazione (l’8 ottobre corso) della Sintesi per DecisoriPolitici dello “SpecialReport on Global Warming of 1,5 °C”, che costituirà, ovviamente,il riferimento scientifico per la Conferenza delle Parti (COP24) dellaConvenzione quadro dell’ONU sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) che avrà luogoin Polonia a fine anno (Katowice, 2-13 dicembre 2018).

Agli scienziati che per conto della Nazioni Unite seguono le vicende dei cambiamenti climatici, era stata chiesta un’analisi sulle reali possibilità di contenere l’innalzamento della temperatura globale ben al di sotto dei 2 gradi (rispetto ai livelli preindustriali), limitando l’aumento a 1,5 °C.

E la loro risposta è che limitare l’aumento a mezzo grado in più (siamo già ora a un grado in più), si può ancora fare ci eviterebbe un sacco di problemi.

Ad esempio, entro il 2100 l’innalzamento del livello del mare su scala globale sarebbe più basso di 10 cm con un riscaldamento globale di 1,5 °C rispetto a 2 °C. La probabilità che il Mar Glaciale Artico rimanga in estate senza ghiaccio marino sarebbe una in un secolo, mentre sarebbe di almeno una ogni decennio con un riscaldamento globale di 2 °C. Le barriere coralline diminuirebbero del 70-90% con un riscaldamento globale di 1,5 °C, mentre con 2 °C se ne perderebbe praticamente la totalità (oltre il 99%).

Agire dunque per evitare il peggio, questo è il messaggio. Messaggio terribile da recepire in un mondo di irresponsabili e dilettanti al potere. Purtroppo non si raccolgono voti praticando responsabilità e visione del futuro, si raccolgono esattamente seguendo la strada contraria.

Esemplare il fatto che il Consiglio Ambiente dell’UE, svoltosi all’indomani della diffusione del Rapporto speciale dell’IPCC, nonostante il Parlamento europeo avesse chiesto la riduzione delle emissioni auto del 40% al 2030, abbia faticosamente stabilito di ridurre le emissioni delle auto del 15% al 2025 e del 35% entro il 2030.

La verità è che dal 2030 non dovremmo più avere incommercio auto diesel o benzina! Tornando a casa nostra la situazione è di stasi totale.

Tutto fermo nella decarbonizzazione del sistema energetico. Viviamo della rendita del boom del solare del 2011 (governo Berlusconi IV) e su quella scia abbiamo raggiunto con cinque anni di anticipo i target europei del 2020. Ma quelli stabiliti per il 2030 al momento rimangono una chimera. Lo continuano a ricordare i rapporti trimestrali dell’Enea, il terzo del 2018 ribadisce che per il quarto anno consecutivo, la quota di FER sui consumi finali potrebbe perfino ridursi, continuando ad oscillare intorno al 17,5% raggiunto nel 2015. Rimaniamo inchiodati a quell’anno.

La prima metà del 2018 ha confermato la tendenza registrata negli ultimi tre anni riguardo all’evoluzione della produzione da fonti rinnovabili. Secondo le elaborazioni dell’osservatorio FER (su dati Terna) la nuova potenza eolica, fotovoltaica e idroelettrica connessa nei primi sei mesi del 2018 è stata pari a 334 MW, una variazione inferiore del 39% rispetto ai 551 MW installati nella prima metà del 2017. Viaggiamo ad un ritmo di incremento di installazioni di fotovoltaico ed eolico, le tecnologie da cui sono attesi i maggiori contributi per il raggiungimento degli obiettivi 2030, pari allo 0,5% – 2%. Una inezia rispetto ai target della Strategia Energetica Nazionale (SEN) al 2030, considerata pessima dall’opposizione ora al governo, ma i cui obiettivi green appaiono ora un miraggio nel deserto delle proposte legislative concrete.

Quello che si registra di nuovo è solo l’ok al gasdotto TAP, quindi un atto perfettamente in linea con le linee pro-gas di tutti i precedenti esecutivi; e che si sarebbe finiti per approvarlo nonostante le tonnellate di dichiarazioni contrarie lo si era capito quando Tony Blair (consulente della società partecipata da British Petroleum, dalla norvegese Statoil e dal gruppo pubblico dell’Azerbaigian Soca), ai primi di settembre era sceso in Italia ad incontrare Matteo Salvini (inutile sottolineare che l’incontro non sia avvenuto col ministro della attività produttive sotto la cui competenza ricadrebbe il capitolo energetico). Salvini aveva commentato che col nuovo gasdotto le bollette degli italiani sarebbero state meno care.

In verità il prezzo del gas è aumentato di parecchio quest’anno e di conseguenza anche quello dell’elettricità perché “a fare” il prezzo dell’elettricità è ancora il gas essendo ancora il re della generazione. A settembre il prezzo dell’energia in borsa (il Pun) ha toccato i massimi da ottobre 2012, salendo a 76,32 €/MWh, più che doppio rispetto ad un anno fa (+57,0%). Aumento conseguenza di quello del gas che a settembre 2018 ha aggiornato il record dal 2014 con quasi 30 €/MWh (+11 €/MWh su settembre 2017). Ergo il futuro delle nostre bollette non è per nulla roseo, chiedetelo all’ARERA, l’Autorità competente.

Non è di consolazione constatare che non siamo in controtendenza ma allineati col trend degli altri paesi. Il Rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia sugli investimenti energetici globali ha confermato che tutto il mondo procede ad un passo che non permetterà di raggiungere gli obiettivi energetici e climatici, fissati dall’Agenda ONU 2030 e dall’Accordo di Parigi.

Gli investimenti globali combinati nelle energie rinnovabili e nell’efficienza energetica sono diminuiti del 3% nel 2017, quelli nelle energie rinnovabili, che rappresentano i due terzi delle spese per la produzione di energia elettrica, sono addirittura calati del 7%. Certo è anche conseguenza del calo dei costi ma non è solo questo.

Terribile che gli investimenti delle imprese di proprietà statale siano rimaste più legate a petrolio e gas e alla produzione di energia termica di quanto non lo siano state le imprese private. Come dire che oggi è il “mercato” a guidare la generazione rinnovabile e non le istituzioni pubbliche. E’ la discesa dei costi del fotovoltaico passati dai 72$ per MWh dell’asta 2014 in Brasile ai soli 18$ dell’asta 2017 in Arabia Saudita a rendere il fotovoltaico competitivo e “amato” dalle utility, è il fatto che col vento e col sole il ritorno degli investimenti è semplicemente più rapido rispetto alle fossili.

In questo momento storico in cui sembra mancare la capacità, direi la consapevolezza, che solo decisioni collettive e responsabili possono condurci a soluzione di problemi che sono planetari viene da chiedersi se l’unica speranza sia da riporre nelle mani di un business illuminato.

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Cambiamenti climatici, le foglie diventano più spesse. E non è una buona notizia

Ha creato molto scalpore nel mondo scientifico e tra gli esperti di clima la notizia che nel pianeta le foglie diventano più spesse a causa dell’aumento di concentrazione di CO2, aggravando di conseguenza i cambiamenti climatici. Nonostante siamo a conoscenza degli effetti deleteri del nostro agire, continuiamo a immettere nell’atmosfera un’insostenibile quantità di carbonio e la concentrazione di CO2 ha raggiunto livelli mai visti. Lo scorso ottobre l’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) ha certificato che la concentrazione di CO2 in atmosfera ha raggiunto il valore record di 403,3 ppm nel 2016, il 145% in più dei valori preindustriali.

La sottovalutazione e spesso l’ignoranza diffusa dei meccanismi naturali che possono ridurre l’aumento dei gas climalteranti, responsabili della crescita della temperatura nella crosta, nell’atmosfera e nei mari in cui si riproduce la vita, ci fa dimenticare che, prima di arrivare a illuminare il nostro corpo e inondare con la loro energia il mondo vegetale che ha preparato il nostro pianeta ad accoglierci e ad alimentarci, i raggi del sole hanno attraversato l’aria che sta sopra le nostre teste. Lì, nell’atmosfera si è moderato il calore degli astri e il freddo dell’universo, con una funzione determinante della quantità di CO2 in equilibrio come parte di un ciclo naturale in cui emissioni – respirazione, produzione energetica e industriale, rifiuti, agricoltura etc. – e assorbimento – masse arboree, vegetali e alghe marine in particolare – assicurano il mantenimento di un equilibrio energetico il cui indicatore più immediato è la temperatura locale. La vita sarebbe inspiegabile se non ci si rendesse conto della singolarità della Terra, dovuta alla sottile e inconsueta pellicola che la avvolge, al contrario dei miliardi di oggetti “galileiani” inanimati su cui non c’è vita né morte, pur comportandosi dinamicamente ed energeticamente secondo leggi universali “immutabili” che Newton e poi Einstein hanno esteso all’intero Universo.

Ma torniamo allo spessore delle foglie. Tutto ebbe inizio circa cinquecento milioni di anni fa, quando organismi, animali e vegetali iniziarono a differenziarsi; le piante scelsero di non muoversi mentre gli animali optarono per uno stile di vita nomade. Diciamo che noi scegliemmo di fare i migranti, le piante di mettere le radici da qualche parte e non spostarsi da lì. Questa scelta ha implicato per loro la necessità di svilupparsi ed evolversi in maniera insostituibile per il vivente, così da ricavare, dalla terra, dall’aria e dal sole attraverso la fotosintesi (che fornisce energia alimentare e riduce la quantità di CO2 in atmosfera) tutto il necessario perché anche la nostra specie potesse nascere, riprodursi e sopravvivere come parte “omologata” dei cicli naturali alimentandosi entro una finestra energetica stabile e molto limitata, caratterizzata da un intervallo di qualche decina di gradi di temperatura. I nostri principali e indispensabili alleati nella sopravvivenza e nella lotta ai mutamenti del clima sono quindi gli alberi.

Un nuovo studio rivela però che, proprio a causa dell’elevata quantità di CO2 oggi presente, la capacità delle piante di sequestrare carbonio sta diminuendo, diventando le loro appendici più spesse e meno efficienti e ingenerando un cambiamento della temperatura sempre meno adatta alla riproduzione a all’abitabilità degli umani sul pianeta. Lo studio Leaf trait acclimation amplifies simulated climate warming in response to elevated carbon dioxide, condotto da Marlies Kovenock e Abigail Swann ritiene che sia di fondamentale importanza una migliore comprensione di come le risposte della vegetazione ai cambiamenti climatici possano fornire feedback sul clima. Le osservazioni mostrano che le caratteristiche della pianta (forma, spessore e densità delle foglie) sono modificate all’elevarsi della concentrazione di anidride carbonica. Si giunge perfino a suggerire modalità più efficienti di potatura, di osservare la maggior profondità a cui tendono i gambi dei funghi, di notare la maggior difficoltà delle castagne a uscire dal riccio una volta a terra. Infatti, queste “acclimatazioni” delle proprietà vegetali possono alterare l’area fogliare e, quindi, la produttività e i flussi di energia superficiale.

L’adattamento a più elevate temperature di una foglia in risposta all’aumento del biossido di carbonio – nella simulazione si ipotizza un aumento di un terzo della massa fogliare per area – ha un impatto realmente significativo sul ciclo climatico e sul ciclo del carbonio nel sistema terrestre. La produttività primaria netta globale di assorbimento di anidride carbonica diminuisce di una quantità pari alle attuali emissioni annue di combustibili fossili. Si rende pertanto necessario prevedere come gli ammassi vegetali risponderanno alle condizioni ambientali future, così da includerli nelle proiezioni climatiche. Va notato che l’attuale patrimonio arboreo del pianeta, secondo uno studio del 2017, avrebbe la capacità di ridurre l’emissione di sette miliardi di tonnellate di CO2 all’anno entro il 2030.

C’è anche una componente di risparmio energetico di sicuro peso: gli alberi creano una “bolla di penombra” e le chiome vegetali intercettano la radiazione solare, determinando una temperatura radiante delle superfici ombreggiate inferiore a quella delle superfici esposte alla radiazione diretta. Ogni albero adulto può traspirare fino a 450 litri d’acqua al giorno e per ogni grammo di acqua evaporata sottrae 633 calorie dall’ambiente, producendo un abbassamento di temperatura (locale) equivalente alla capacità di cinque condizionatori d’aria di piccola potenza. Piantare alberi, ampliare boschi e foreste, non cementificare e evitare gli incendi significa mitigare il cambiamento climatico in atto e, quindi, ora lo sappiamo, agire perché le foglie non cambino spessore.

L’Accordo di Parigi ha dato un ruolo centrale alle foreste, alle foglie, alla rete collaborativa con cui le piante si sviluppano e si consolidano (chiedetevi come mai i frutti maturino negli stessi giorni e i funghi spuntino nelle stesse settimane in tutto l’arco alpino). Gli ecosistemi terrestri, ed in particolare le foreste, sono parte della causa e parte della soluzione del problema dei cambiamenti climatici. Causa perché la deforestazione (soprattutto tropicale) è responsabile di circa il 10% delle emissioni antropiche di gas serra a livello globale. Soluzione perché già oggi le foreste assorbono circa un terzo delle emissioni antropiche globali di CO2 .

L’insieme dei Paesi dominati dalle foreste, secondo una contabilizzazione che le giudica “prevalenti” nel territorio – Paesi Lulucf – potrebbe con adeguata manutenzione e realistica implementazione passare da essere una fonte netta di emissioni (come lo è stato nel periodo 1990-2010) a diventare assorbitore netto di CO2 entro il 2030, arrivando a fornire il 25% degli obiettivi di riduzione delle emissioni a livello globale. A due condizioni: che vengano finalmente erogati supporti tecnologico-finanziari ai Paesi in via di sviluppo e che le foglie non si ispessiscano troppo.

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Città a prova di clima: il caso di Roma

a cura di PierLuigi Albini – 1 ottobre 2018

1. Per una diversa “scienza della città”

Nella storia dell’urbanistica e nelle sue teorizzazioni è talvolta emersa l’idea di una scienza della città come paradigma in grado di far convergere diverse discipline verso una pianificazione che governi in modo razionale l’urbanizzazione. Ma di ciò si vedrà più avanti, intanto va ricordato che è a Novecento inoltrato che l’urbanistica ha perso le sue radici di disciplina che comprende il fattore umano come fondamento. Ma quello che interessa prima di tutto sottolineare è che – a parte la necessità di rivedere la legislazione in materia e la critica dell’assoggettamento dell’interesse pubblico a quello privato, avvenuto negli ultimi decenni – nessuna delle precedenti nozioni di scienza della città o di cultura della città – a seconda dei punti di vista – teneva in considerazione l’emergenza climatica come perno necessario di un insieme di competenze progettuali e di decisioni politico-amministrative in grado di pensare delle città a prova di clima, appunto; e quindi di fare fronte ad uno dei più gravi problemi del secolo XXI: forse il più grave.

Secondo il giudizio di Henri Lefebvre – sociologo, filosofo e urbanista – “a parte pochi meritevoli sforzi, l’urbanistica non ha assunto lo statuto di un vero pensiero della città. Anzi, si è man mano rattrappita fino a diventare una sorta di catechismo per tecnocrati”. Va tuttavia detto che – come si vedrà nel paragrafo successivo – oggi il nesso clima-urbanistica è diventato una questione di vita o di morte e da qui la necessità di applicare nella pianificazione (leggasi Piani Regolatori Generali e decisioni urbanistiche) la valutazione dei servizi ecosistemici come parte essenziale di una lotta di contrasto al cambiamento climatico; e quindi di cambiare completamente l’approccio progettuale ed esecutivo a vari livelli: “diritto alla città e diritto alla natura tendenzialmente coincidono”.

Infatti, se la cosiddetta sostenibilità, che vede nelle città un attore essenziale per la sua realizzazione e come conseguenza obbligata al contrasto del cambiamento climatico, non è solo un vacuo slogan, occorre dire ad alta voce che si tratta di una questione di sopravvivenza, di fronte alla quale appare delittuoso e suicida continuare con le vecchie e incontrollate pratiche governate dagli interessi privati. Qui, proprio a proposito di urbanistica, si inserisce una lunga citazione di un saggio del 2005 che conserva tutta la sua attualità.

“Il fatto è che negli ultimi decenni l’urbanistica, da strumento di garanzia dei diritti dei cittadini e di contenimento dello sfruttamento incontrollato del territorio da parte della rendita, è divenuta uno strumento di garanzia della rendita e di esclusione dei cittadini dai processi di governo del territorio. Al disinteresse culturale e politico fa riscontro la debolezza e l’obsolescenza della disciplina: per molte ragioni risulta ormai inadeguata la strumentazione offerta dalla legge fondamentale (n°1150/42), mentre tuttora disattesa è quella riforma dell’urbanistica che si invoca da tempo e che dovrebbe assumere la fattispecie di legge quadro nazionale per aggiornare e mettere ordine nella materia, senza però derogare ai principi costituzionali sull’uso del territorio e sulla tutela dei beni ambientali [e per rispondere all’emergenza climatica, nda]. Rimane quindi tuttora irrisolto l’insieme dei problemi (di ordine istituzionale, fondiario, ambientale, funzionale) accumulatisi nel tempo. […]

Rimangono [quindi] aperte tutte le questioni derivanti dalla crescente complessità dei problemi di governo del territorio, anche perché il dibattito si è molto affievolito, al più limitato agli ambienti specialistici; i cittadini “fruitori” del territorio sono stati del tutto esclusi.

Come è noto, fino dagli anni sessanta e settanta la materia è stata oggetto di un acceso confronto soprattutto ideologico, mentre con la perdita di centralità dello Stato (sul principio del suo ruolo centrale si basava la legge 1150/42) e il progressivo processo di decentramento istituzionale si è sviluppato un crescente conflitto, sia all’interno dei diversi soggetti istituzionali sia tra questi e i soggetti privati (basti pensare alle vicende irrisolte del regime giuridico delle espropriazioni, dei vincoli, della disciplina generale dei suoli edificabili).

Nasce così negli anni ’90 l’urbanistica negoziata in cui al criterio ordinatore basato sulla gerarchia fra i piani si sostituisce quella per campi di interesse di volta in volta emergenti, mentre i nuovi strumenti e i nuovi istituti (Programma di Riqualificazione Urbana, Programma di Recupero Urbano, Programmi Integrati di Intervento, Contratti d’Area, Patti Territoriali, Prusst) vengono utilizzati, talvolta anche con finanziamento pubblico, come variante automatica agli strumenti urbanistici ordinari, fino a che il piano si riduce ad una meccanica e semplicistica sommatoria di progetti.

Con il processo di riforma (o, meglio, controriforma, nda) che ha avuto inizio a partire dal 1990 si è passati così da un sistema nel quale allo Stato era assegnato un ruolo di assoluta centralità a uno nel quale convivono una pluralità di centri decisionali (non solo in materia di diritto urbanistico) titolari di proprie attribuzioni.

Quindi, non solo le competenze urbanistiche dello Stato sono, evidentemente, ormai residuali, ma la stessa materia urbanistica non è più quella totalizzante pensata negli anni Trenta, non riguarda più la universitas dello spazio fisico e umano, ma è subordinata a un complesso di decisioni relative ad altri interessi pubblici specializzati insistenti sul territorio: la difesa del suolo (attraverso i piani di bacino), la protezione della natura (attraverso i piani dei parchi), la tutela dei valori estetici (attraverso i piani paesistici), e, accanto a questi, gli strumenti delle politiche di settore (i piani dei trasporti, dell’energia, dei rifiuti, delle cave, ecc.).”

Ora, la questione centrale è che l’insieme di questi piani non sono messi a sistema e le decisioni e gli atti amministrativi procedono appoggiandosi dunque a questo o a quell’aspetto del territorio e secondo le competenze burocratiche, nella pressoché totale ignoranza dei contesti e in assoluta carenza di coordinamento.

Tutto ciò è accompagnato dal passaggio dall’urbanistica concertata all’urbanistica contrattata, in cui – come detto – il ruolo dell’interesse pubblico è sempre più marginale o viene comunque piegato a quello privato utilizzando una normativa contraddittoria e saltando spesso allegramente le procedure tuttora prescritte dalla regolamentazione.

Mentre a livello nazionale sono sempre attese una legge sull’urbanistica che rimetta ordine nella normativa e una legge ormai urgente sul consumo zero di suolo, a livello regionale talune leggi che, per esempio, sembrano promuovere la cosiddetta rigenerazione urbana sono viziate da meccanismi premiali per l’aumento di cubature, per la concezione di un intervento non di sistema e multilivello (quartieri), nonostante si dichiari che i “programmi di rigenerazione urbana [sono] costituiti da un insieme coordinato di interventi urbanistici, edilizi e socioeconomici volti, nel rispetto dei principi di sostenibilità ambientale, economica e sociale […]” Quel che è infatti accaduto finora Roma è l’abbattimento e la ricostruzione di palazzine del Novecento di pregio. Insomma, si prevede una “offerta” normativa per ampliamento e ricostruzioni accompagnate da indirizzi programmatici riguardanti anche l’ambiente, ma non è stato recepito il concetto di rete ecologica ormai essenziale per ogni intervento multilivello. Nella legge regionale del Lazio 18 luglio 2017, n. 7, per esempio, la parola “clima” appare una sola volta a proposito del Piano agricolo regionale e non riguarda le città. Inoltre, non c’è un collegamento sistematico fra i vari aspetti di una nuova pianificazione (energia, trasporti, dissesto idrogeologico, acqua e così via). Ancora Claudio Canestrari, scriveva nel saggio citato:

“Deregolamentazione urbanistica, concertazione procedurale, delegittimazione della pianificazione di area vasta, marketing urbano spettacolare e privo di contenuti reali, sono i fattori messi in campo senza valutare gli elementi di coerenza territoriale complessiva e gli effetti economici, sociali e ambientali di medio/lungo periodo. Devastanti sono gli effetti della dispersione insediativa associata alle procedure deregolative.

Eppure sulla quantificazione dei costi collettivi e dei costi pubblici derivanti da tali politiche gli studi sono numerosi, sia in Italia sia in taluni contesti europei e perfino nord americani […]”.

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Lo ha detto anche il Guardian: gli americani sono i prossimi migranti climatici

I dati sulle migrazioni sono impressionanti: il pianeta è sempre più privo di spazi per abitare e sopravvivere decentemente. Nel 2015 In totale, il numero di persone che ha richiesto l’intervento dell’Unhcr ammontava a almeno 35.833.400. A metà 2018 stiamo assistendo ai più elevati livelli di migrazione mai registrati: 65.6 milioni di persone in tutto il mondo, un numero senza precedenti, sono state costrette a fuggire dal proprio Paese. Normalmente associamo l’immigrato ad una donna o uomo di colore proveniente dall’Africa. Ma il cambiamento di temperatura avvolge l’intero pianeta e riduce gli spazi vitali complessivi.

Chomsky in una recente intervista a “Il manifesto Alias” dell’8 Settembre, fa risalire al negazionismo climatico, sbandierato dalle élite mondiali, il clima di esclusione, respingimento, paura e involuzione democratica che prende corpo negli elettorati. Non sostengo che la questione migranti o l’attacco al lavoro e al welfare dipendono solamente dall’espulsione di un intervento di mitigazione del clima dall’elenco delle emergenze nell’agenda dei governanti. Tuttavia vorrei sostenere il collegamento sempre più vasto eppure sottaciuto tra crisi ambientale, immigrazione e esclusione. In effetti, non avere come sfondo la rigenerazione della Terra intera, serve ad accreditare un sovranismo chiuso a difesa di casa propria, ad espellere disumanamente migranti e rifugiati ambientali e a cercare illusorie soluzioni protezioniste anche quando la vendetta della natura sui nostri comportamenti comincia a colpire anche le nostre terre ricche.

Cominciamo da due notizie rilevanti.

Il gigante delle riassicurazioni Swiss Re (compagnia che vende polizze di assicurazione ad altre compagnie assumendosi una parte dei loro rischi) ha reso noto a Settembre 2017 un nuovo rapporto che fa la graduatoria globale delle città minacciate da disastri naturali e climatici e che quindi registrerà massicci spostamenti di abitanti. La classifica globale, che tiene conto della popolazione potenzialmente colpita espressa in milioni di persone è la seguente: Tokyo-Yokohama (Giappone) 57,1, Manila (Filippine) 34,6, Delta del Fiume delle Perle (Cina) 34,5, Osaka-Kobe (Giappone) 32,1, Giakarta Indonesia) 27,7, Nagoya (Giappone) 22,9, Calcutta (India) 17,9 Shanghai (Cina) 16,7, Teheran (Iran) 15,6. La collocazione prevalente è verso il mare (non nei deserti e nelle steppe già in parte abbandonati) proprio a causa dell’innalzamento delle acque e la violenza degli scambi termici (tifoni e piogge).

Da più di quindici giorni una testata prestigiosa come il Guardian raccoglie e pubblica dati esemplari sull’allontanamento dalle proprie terre e sull’impoverimento dovuto alle crescenti catastrofi climatiche nelle zone ricche del mondo. Partendo dall’America e con un titolo shock, “Americani: i prossimi migranti climatici”, descrive e quantifica sotto il profilo dell’abitare e sopravvivere gli effetti dell’uragano Sandy nel 2012 su differenti quartieri di New York e la distruzione recentissima da parte di “Florence” sulla North Carolina, che tratterò la prossima volta.

Gran parte delle abitazioni pubbliche di New York è circondata dall’acqua, a Red Hook, a Coney Island, a Lower East Side, ai Rockaways. Il quartiere di Brooklyn, una penisola circondata dall’acqua, si è rivelata una pianura alluvionale dopo l’uragano Sandy nel 2012. I valori di mercato delle case sono scesi, ma i più ricchi si sono spostati nella zona centrale dei grattacieli.

Red Hook ha uno dei più antichi e più grandi progetti di edilizia pubblica d’America. Più della metà dei dodicimila residenti di Red Hook sono inquilini della New York City Housing Authority. Nelle strade del quartiere le inondazioni sono state pesanti e secondo le proiezioni degli scienziati, i moli della città svaniranno sotto l’alta marea nel 2020. Entro il 2080, l’alta marea normale invaderà alcune strade. Una parte di Van Brunt Street, l’arteria principale di Red Hook, dovrebbe essere allagata ogni giorno. Qui, dove la gente è più povera, il mercato delle case danneggiato ha attirato compratori di ceto medio e speculatori per affari a breve termine.

Red Hook ha una storia di comunità solida e molti dei suoi abitanti non hanno intenzione di vendere la casa in cui sono cresciuti. Una migrazione verso zone rurali a basso costo potrebbe salvare i residenti sul lungomare di lunga data dall’innalzamento delle acque, ma non li salva dalla perdita delle loro case e dei rapporti cui sono affezionati. Senza investimenti governativi nella protezione dalle inondazioni, sono in imminente pericolo. Le megalopoli di Londra, Tokyo, Rotterdam e Shanghai hanno installato parapetti, barriere anti-tempesta, super-argini e anelli per tenere l’acqua fuori dalle strade. New York no e se lo facesse, li preserverebbe per un po’. Gli speculatori con cinismo assicurano che “si faranno parapetti prima di 30 o 40 anni e solo dopo la terra si allagherà.”

In sostanza, l’effetto dei più frequenti uragani in America si concretizza nel fatto che i ricchi possono permettersi di muoversi, mentre i poveri non ne hanno possibilità. L’effetto vale anche per la siccità e le temperature crescenti. Mentre le persone fuggono il calore intenso in Arizona per climi più miti, i valori di noleggio e proprietà salgono continuamente e le banche non allungano crediti a chi ha patrimoni irrilevanti o case minacciate. Alcuni residenti di una città progressista, Juad Suarez, a 300 miglia a nord del confine messicano hanno adottato lo slogan “costruisci il muro” di fronte a un’ondata di nuovi arrivati. Ma questi interlocutori percepiti sono nettamente diversi dall’immaginazione di Donald Trump. Sono americani, principalmente bianchi e stanno fuggendo dal caldo invivibile.

Lo chiamano un modello di gentrificazione (trasformazione di un quartiere popolare in zona abitativa di pregio, con conseguente cambiamento della composizione sociale e dei prezzi delle abitazioni) dettata dal clima. Fenomeno che si sta diffondendo negli Stati Uniti, poiché coloro che sono in grado di ritirarsi da inondazioni, tempeste, ondate di calore e incendi boschivi si spostano verso aree più sicure, portando con sé proprietà in ascesa e valori locativi. Ma dove andranno a vivere le persone a basso reddito? Basterà odiare, perseguitare e privare di diritti persone di colore diverso?

L’articolo Lo ha detto anche il Guardian: gli americani sono i prossimi migranti climatici proviene da Il Fatto Quotidiano.

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