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24 maggio 2019: Sciopero mondiale Fridays For Future

Siamo scesi insieme a voi nelle piazze del 15 marzo per il “Global strike for Future” perché finalmente una nuova generazione vuole prendere in mano i destini del pianeta. Ci siamo battuti, molti da lunghissimi anni, mossi dalle stesse vostre preoccupazioni, documentando e denunciando la devastazione di uno sviluppo fondato sulla spoliazione e il saccheggio delle risorse naturali. Contro il nuovo odioso colonialismo del landgrabbing, che attraverso i meccanismi della mera acquisizione di mercato priva intere popolazioni dei loro diritti, delle loro terre e delle loro acque senza dar loro nemmeno la possibilità di essere ascoltati o addirittura attraverso vere e proprie deportazioni.

Il consumo di risorse naturali ha assunto un ritmo sempre più vertiginoso. Il rapporto UNEP 2011 prevede entro il 2050 una triplicazione del consumo di minerali, idrocarburi, materiali da estrazione e biomasse rispetto alle attuali 16 tonnellate medie pro capite, con punte di 40 tonnellate rispetto alle 4 tonnellate pro capite dell’India; e quello dell’India è un consumo complessivo di poco inferiore a quello mondiale all’inizio del XX secolo. “Il consumo globale di risorse sta esplodendo” e “la prospettiva di molto più alti livelli di consumo di risorse è assai al di là di ciò che è verosimilmente sostenibile”. A questa crescita irrazionale e depauperante il pianeta vanno contrapposte, soprattutto nei Paesi ricchi, politiche di “disaccoppiamento” tra crescita economica e consumo di risorse, ben sapendo che “prosperità e benessere non dipendono dal consumare quantitativi sempre maggiori di risorse” e che “disaccoppiamento non vuol dire uno stop alla crescita, ma fare di più con meno

In America Latina, Asia e Africa sempre più grandi foreste, terre comunitarie, bacini fluviali e interi ecosistemi vengono spogliati e le comunità sfollate. La diversità biologica viene costantemente ridotta, la grande barriera corallina australiana è a rischio nei suoi 3000 km e il respiro degli oceani è soffocato dalla plastica.

E, soprattutto, è in atto quella che è stata chiamata “la più grande minaccia di questo secolo”: il cambiamento climatico, la transizione all’instabilità climatica che si abbatte su uomini e cose con l’intensità degli eventi meteorologici estremi, mentre si estendono le aree desertiche, cresce la siccità, si addensa negli ultimi vent’anni il numero dei massimi di temperatura media della terra. La calotta artica si è spaccata nel 2006 aprendo la caccia senza regole al suo sottosuolo, nel 2017 si è staccato dall’Antartide un “iceberg” più grande della Liguria.

Continuare così non è possibile, incalcolabili le violenze e i danni alla biosfera in cui viviamo, rubato il futuro alle generazioni che verranno.

I governi di tutto il mondo, colpevolmente lenti nell’applicare il Protocollo di Kyoto (2005), oggi in ritardo nell’attuare gli impegni dell’Accordo di Parigi ratificati nel 2016 da 180 Paesi, devono accelerare la loro azione per fare più efficacemente fronte al cambiamento climatico e mantenere l’impegno preso di contenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5 °C.

Lo sconquasso del clima è causa di migrazioni interne e della fuga disperata delle popolazioni più povere e vulnerabili, colpite da fame, sete e malattie endemiche, marginalizzate nei loro territori, spesso nel nome stesso dello sviluppo e dell’innovazione. I rischi dovuti ai disastri ambientali accrescono tensioni e conflitti e nel 2017 hanno causato, da soli, l’esodo di 60 milioni di rifugiati ambientali, ma saranno quattro volte tanti nel giro di soli vent’anni.

Occorre “costruire ponti” senza ridurre tutto alla sola questione dell’accoglienza e della sicurezza, ponti capaci di ridurre la distanza tra chi ha troppo e chi non ha abbastanza, tra l’opulenza e la povertà, come indicato dagli obiettivi globali dell’Agenda 2030 proposta dalle Nazioni Unite.

Occorre modificare i nostri stili di vita, le nostre culture e il nostro modo di pensare se vogliamo dare futuro al futuro. Decarbonizzare l’economia sostituendo i combustibili fossili con le fonti rinnovabili, trasformare i rifiuti in nuovi prodotti com’è tecnologicamente possibile, fare di più con meno, organizzare la società della sufficienza affinché ogni risorsa sia utilizzata senza sprechi e nel modo più appropriato fino all’autogestione, privilegiare l’acquisto di beni durevoli sostenibili, praticare il commercio equo e solidale e la finanza etica: sono i passaggi fondamentali verso quella “conversione ecologica dell’economia e della società” – una nuova alleanza tra uomo e natura e degli uomini tra loro – che pensatori e movimenti hanno proposto da oltre trent’anni e che ha trovato una sua lettura di alto valore spirituale nella Laudato si’ di Papa Francesco.

Non siamo accanto a voi non per “passarvi il testimone” delle lotte che abbiamo fatto, ma per condurre insieme a voi quest’azione di cambiamento, per condividere l’impegno quotidiano, per smuovere tutti con grandi pacifiche mobilitazioni. Per questo ci ritroveremo insieme il 24 maggio 2019.

Prendiamoci in mano i destini della Terra e obblighiamo i governi a seguirci.

 

Massimo Scalia CIRPSAurelio Angelini CNESA2030-UnescoDaniela Padoan Forum LAUDATO SI’ Enrico Vicenti Segretario CNI-UnescoRoberta Cafarotti Dir. Scient. EARTH DAY ITALY – Vanessa Pallucchi Vice Pres. LEGAMBIENTE Pippo Onufrio Dir. Gen. GREENPEACE ITALIA – Enzo Naso Dir. CIRPS – Gianni Silvestrini Dir. Scient. KYOTO CLUBErmete Realacci Pres. SYMBOLA – Mariagrazia Midulla Resp. Clima & Energia WWF Mario Agostinelli Pres. ENERGIA FELICE – Marialuisa Saviano Pres. IASS – Mario Salomone Segr. Gen. WEEC NETWORKSergio Ferraris Dir. QUALE ENERGIAVittorio Bardi Pres. SÌ ALLE RINNOVABILI, NO AL NUCLEAREPaola Bolaffio Dir. GIORNALISTI NELL’ERBA – Gianni Mattioli CNESA2030-Unesco Serenella Iovino University of North Carolina Michela Mayer CNESA2030-Unesco Marco Fratoddi Dir. SAPERE AMBIENTE – Monica D’Ambrosio GiornalistaPaolo Bartolomei Commiss. Scient. DECOMMISSIONING – Anna Re Univ. IULM, Milano – Ilaria Romano Giornalista – Gianluca Senatore Univ. LA SAPIENZA-Roma – Pasquale StiglianiSCANZIAMO LE SCORIE”, ScanzanoGian Piero Godio PRO NATURA, Vercelli – Filippo Delogu CNESA2030-Unesco – Silvia Zamboni Giornalista Enzo Reda MOV. ECOLOGISTA – Linda Maggiori Blogger Giuditta Iantaffi Coord. Doc. GIORN. NELL’ ERBA – Oreste Magni ECOISTITUTO-VALLE DEL TICINO Lucia Lombardo Studentessa Giurisprudenza, Univ. LA SAPIENZA-RomaAnastasia Granito Studentessa Studi Orientali, Univ. LA SAPIENZA-Roma – Lara Attiani Studentessa Liceo MACHIAVELLI, Roma – Giulia Apicella studentessa Liceo TOUSCHEK, Grottaferrata (RM) – Elena Faustina Beste Studentessa Liceo SCUOLA GERMANICA, Roma – Francesca Contu Studentessa Liceo Classico DETTORI, Cagliari – Marco Del Signore Liceo Scientifico CAVOUR, RomaDavide Volpi Studente Scuola Media P. VIRGILIO MARONE, Pomezia (RM) – Laura Sciarretta, Studentessa Scuola Media ALBERTO SORDI, Roma – Elia Pistono, Studente Scuola Elementare BERTINETTI, Vercelli Mia Pistono Studentessa Scuola Elementare BERTINETTI, Vercelli

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Dal fossile alle rinnovabili /1 – Il governo ha già dato la prima delusione ai giovani per il clima

Siamo ad uno storico distacco, ancora inavvertito eppure definitivo, dai combustibili fossili. Ci si può anche non accorgere e nutrirsi di notizie secondarie da cui fanno capolino felpe, divise, sorrisi improbabili, con sullo sfondo immigrati o striscioni xenofobi. Ma non è facile staccarsi dalle immagini delle ragazze e dei ragazzi che hanno invaso con la loro creatività critica le piazze del mondo civile e nemmeno da quelle più sofferte, ma inesorabili, che ad ogni fine settimana riempiono Parigi di gilet gialli. Le prime avvertono che non abbiamo più tempo e le seconde che è impraticabile la via di far pagare ai più indigenti il necessario cambio di un paradigma che si è fondato sulla rapina della natura e l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro. A distanza di quattro anni, l’Enciclica Laudato Sì ritorna perfino più attuale: ingiustizia climatica e sociale sono il tema e la sfida di quel che rimane del nostro tempo. Sarebbe bene che la politica cominciasse ad occuparsene e a fornire risposte che non si rifugiano in un negazionismo irritante, che perde improvvidi sostenitori ogni giorno, a fronte dell’evidenza. Proviamo a fare i conti con la realtà e le previsioni più accreditate e constatiamo che per tanti governi, come il nostro, tra il dire e il fare c’è ancora di mezzo un mare… attraversato da petrolio e gas fossile.

Secondo la ricerca pubblicata dall’European Heart Journal, l’inquinamento atmosferico sarebbe causa di circa 800.000 morti premature in Europa ogni anno. Un bilancio sinistro, che arriva a circa 9 milioni su scala mondiale. Per gli autori dello studio, il miglioramento della situazione riguarda prima di tutto l’abbandono di un modello di sviluppo basato sui combustibili fossili. Per quanto riguarda il clima, secondo il Global Energy Perspective di McKinsey 2019, il mondo si potrebbe salvare solo se, dopo oltre un secolo di crescita costante, la domanda globale di energia dovesse ottenere il suo picco attorno al 2030, anche nel caso in cui le popolazioni crescano e diventino più benestanti. Per le emissioni di carbonio il primo calo dovrebbe avvenire a metà del 2020 ed un calo di circa il 20% entro il 2050. Ma potrebbe non bastare: in ogni caso risulta determinante il passaggio dai combustibili fossili all’eolico e al solare, con un aumento, dal 2015 al 2050, di almeno un fattore di 13 e 60 rispettivamente, mentre già nel 2035 le due fonti naturali dovranno rappresentare più del 50% della generazione.

Se queste sono le previsioni che provengono da fonti insospettate, dobbiamo sapere che il modo in cui alimentiamo i mezzi di trasporto, riscaldiamo le nostre case, alimentiamo le nostre industrie, rivediamo i nostri stili di vita si trasformerà radicalmente. La crescita della domanda di petrolio e carbone dovrebbe così rallentare, con il picco del petrolio all’inizio degli anni 30. La domanda di gas è prevista in lenta crescita solo fino al 2035 e, successivamente, in calo. Il primo obiettivo che ogni Paese dovrebbe proporsi oggi è quindi una rapida transizione energetica per contenere al massimo gli effetti di un brusco cambiamento climatico.

Il governo gialloverde, così impegnato nel respingimento dei migranti, ha presentato solo a dicembre 2018 il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima. Piano richiesto dalla Ue e che, contrariamente ad ogni ragionevole aspettativa, non prevede e tantomeno propone una forte riduzione dell’uso dei combustibili fossili né una forte espansione delle rinnovabili. Il Piano si spinge al 2040, prevedendo che la fonte prevalente di energia primaria siano ancora i combustibili fossili (circa 65%). L’uscita dal carbone è prolungata di cinque anni rispetto alle indicazioni per una dead line al 2035; il petrolio diminuisce solo da 36% al 31%; il gas rimane addirittura invariato al 37% e le rinnovabili aumentano soltanto dal 18% al 28%. Questi dati sono molto deludenti e sono criticati con decisione da un gruppo di docenti e ricercatori di Università e Centri di ricerca che attacca la decisione di “facilitare e potenziare, anziché di limitare, l’approvvigionamento e l’utilizzo di gas e petrolio”. Non si capisce, quindi, come faremmo a limitare drasticamente, se non eliminare, i combustibili fossili entro il 2050. Risulta così un evidente avallo alla costruzione di infrastrutture (come la Tap) per fare dell’Italia un hub del gas, mentre la vera sicurezza energetica, quella che potrebbero fornirci le energie rinnovabili, non viene perseguita.

Per quanto riguarda la riduzione delle emissioni, il Piano si adagia sulle prescrizioni della Ue (riduzione delle emissioni del 40% al 2030), mentre il Parlamento europeo ha già chiesto che la riduzione sia portata al 55%. La pressione delle lobby ha fatto sparire la carbon tax, mentre rimangono saldamente in piedi le reti di teleriscaldamento alimentate da centrali termoelettriche a cogenerazione, biomasse, o termovalorizzazione dei rifiuti. In un prossimo post esamineremo gli effetti del piano sui trasporti e in uno ancora successivo le soluzioni di politica economica e industriale, nonché gli indirizzi di politiche sociali che possano dar gambe a soluzioni efficaci, anziché ad incauti sberleffi all’audacia degli studenti che il 15 marzo hanno invaso le città italiane.

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Clima, i ragazzi mi hanno fatto capire perché la loro mobilitazione conta tantissimo

Ogni volta mi faccio sorprendere dalla inconsueta freschezza con cui i miei nipoti elaborano una loro immagine del mondo, che acquisiscono attraverso una autentica “compressione” del trascorrere del tempo (sono istantaneamente in relazione con quanto accade ovunque). I battiti del loro orologio non sono identici a quelli del mio e me lo rivelano con le loro scoperte sulla natura, gli animali, le piante con cui convivono. Davvero hanno una percezione della loro presenza al mondo diversa da quella che avevo io alla loro età. So di affermare cose che ciascuno sperimenta, ma non vuole prendere in conto, fino a che si passa dall’osservazione del presente alle previsioni del futuro. Ci casco ogni volta, perché l’immagine che comunicano i miei nipoti ha quel carattere di novità che fa capire che tra la loro e la mia esperienza è passato del tempo: tanto più accelerato, quanto più ci si avvicina alla sensazione cosciente di un pianeta difficile da abitare da grandi.

Ho riprovato la stessa sensazione la mattina del 13 marzo in una affollata assemblea di studenti liceali in una grande sala di Busto Arsizio, in preparazione della mobilitazione di venerdì 15 marzo sul clima. Oltre trecento, attentissimi, nel ruolo di protagonisti, creativi nel loro esprimersi con video, cartelloni – persino una recita teatrale – e ben consci che per loro, al contrario che per me quando ero ragazzo, il tempo non si conta da qui in avanti, ma all’indietro: “Quanto manca a?” (al crescere del livello del mare oltre i frangiflutti che resistono da secoli, all’estendersi di zone aride anche nella fascia prealpina, all’indebolirsi del legame con il territorio già martoriato dall’inquinamento e reso inagibile alla mobilità proprio nelle ore in cui migliaia di auto, sempre più grandi e potenti, trasportano una mamma con un serbatoio di combustibile pieno ma con un solo bambino a bordo, verso i cancelli dell’istituto in cui andrà ad imparare…).

Questa generazione, con cui provo ad interagire parlando del clima e che frequenta la scuola con una facoltà di connessione attraverso la rete con tutte le fonti di informazione mai sperimentata fino ad ora, si sente dire che, se si continuerà a percorrere la strada dello sviluppo così come l’avevamo immaginata, al massimo avrà davanti a sé qualche nipote o pronipote, a meno che… E qui non c’è alcuna alzata di spalle. Anzi! Qualcuno ha detto: “Son passati 4 mesi da quando la totalità dei governi e delle genti del mondo ha saputo… non è cambiato nulla, nulla, ora tutti pensano a comprare il 5G e la crociera scontata del 70%… ma io fatico a dormire”. Riflessioni così autentiche e incontestate scuotono l’indifferenza che i negazionisti climatici cercano di imporci a qualsiasi costo. Anche quello di ritenere che non ci sia spazio per tutti sulla Terra e che rinchiudersi nei “nostri” territori, respingendo gli “invasori”, impedirebbe di diventare anche noi, prima o poi migranti a causa del precipitare del cambiamento climatico.

Ora che il negazionista per eccellenza, Donald Trump, è stato eletto presidente Usa ed è diventato il riferimento dei populisti identitari (alla globalizzazione contrappongono il localismo politico) di tutto il mondo, questi giovani rappresentano oggettivamente una novità. E’ significativo che, secondo un recente sondaggio, il 38% dei giovani Usa ritiene che si debbano considerare le conseguenze del riscaldamento del pianeta prima di decidere di fare figli. Se già oggi la crisi climatica presenta il conto di un modello insostenibile, lo scenario al 2050 si annuncia infatti catastrofico per chi allora sarà nel pieno della vita.

Mi sorprende allora questa lucidità che appartiene ai più giovani e capisco che la tempesta creata dallo scuotere di due treccine svedesi risolute non si placherà presto. La metafora delle conseguenze globali del battito d’ali di una farfalla sembra perfino misurato rispetto al possibile diffondersi del messaggio di Greta. Sul finire di un inverno insolitamente tiepido occorre chiedersi: l’Unione europea sarà in grado di fare la sua parte per contrastare il riscaldamento globale? Questa è la posta, forse la più importante, delle prossime elezioni, celata dalla gran parte dei media dietro l’inganno di regolare i conti ciascuno a casa propria, come se si potesse recintare il clima, che, per definizione, è questione sovranazionale! Stiamo cioè parlando dell’impegno dei governanti, di chi ci dovrebbe rappresentare, a diminuire l’emissione di anidride carbonica e altri gas a effetto serra rilasciati dalle centrali termiche, dai motori, dalle industrie, dai sistemi di trasporti, dai cementifici di tutto il continente. Di noi, della nostra economia e del nostro comportamento quotidiano, non delle paure che sono ad arte manipolate.

La mobilitazione dei giovani per incitare governi, ma anche famiglie ed amici, ad agire contro il cambiamento climatico conta tantissimo. Questo è stato detto e raccontato in una mattinata di riflessione comune in una provincia del Paese che si dà per assegnata ad una parte ben precisa nella stizzosa disputa tra i contraenti di un “contratto” che del clima non parla affatto. Anche per riflettere su questa distonia tra politica raccontata e società vissuta, ho voluto raccontare, quasi in diretta e con una modalità diversa da quella con cui ho sempre predisposto i miei post settimanali, un episodio che non resterà isolato – credo – dopo le manifestazioni del 15 marzo.

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#10yearschallenge e clima, cosa è successo al pianeta in dieci anni e quale futuro ci attende

Va per la maggiore postare immagini di come si era nel 2009 rispetto all’anno in corso. Dieci anni fa. Un confronto non certo esaustivo se si parla di clima e dello stato del pianeta. In questo caso, in virtù dell’accelerazione dei cambiamenti in corso, affiora una sensibilità nuova rispetto allo scorrere del tempo: non è significativo solo quanto tempo è passato “da”, ma quanto manca “a”. Ossia, dovremmo chiederci se tra dieci anni saremo in un mondo ancora in continuità con quello di dieci anni fa, oppure osserveremo paesaggi e una biosfera irreversibilmente mutati rispetto alla memoria che ci rimane? Pertanto, per adattare un hashtag diventato virale a immagini realistiche dell’evoluzione dell’ambiente in cui viviamo, proverò a far ponte tra il 2009 e il 2029, gettando, a mo’ di esempio, dapprima uno sguardo in Inghilterra sugli effetti di 10 anni di cambiamenti climatici precedenti a oggi e illustrando in seguito le previsioni sui 10 anni a venire di cui il Pentagono ha informato un Trump tanto allibito quanto ostinatamente negazionista.

10 anni fa in Inghilterra. Un decennio fa il Regno Unito ha compiuto un passo coraggioso adottando una legge sui cambiamenti climatici e impegnandosi a ridurre significativamente le emissioni di gas serra entro il 2050. Dal 2008 al 2018 il Climate Change Act ha fornito compiti, responsabilità e una certa chiarezza sulla direzione di marcia da intraprendere per contrastare l’aumento della temperatura dovuto ai comportamenti della popolazione. A distanza di un decennio, la legge ha ottenuto un calo delle emissioni del 43% rispetto ai livelli del 1990. Lo smog più denso sul Tamigi è quasi scomparso.

Nel 2017 per la prima volta la maggior parte dell’elettricità del Regno Unito proveniva da fonti rinnovabili o a basse emissioni di carbonio, con fumate meno dense all’orizzonte, mentre l’economia, con un mix di sorgenti energetiche più pulite, riusciva a registrare una fase di espansione. Questi segnali positivi non sono bastati: il mutamento climatico si è fatto più rilevante; è andato perso il 26% della fauna selvatica (il 60% rispetto al 1970); il ritardo per limitare l’innalzamento della temperatura ai fatidici 1.5°C risulta sempre più incolmabile e le misure adottate finora hanno colpito di più le persone povere e svantaggiate, dal momento che i costi della transizione energetica (stimati attorno ai 600 miliardi di Euro) senza l’applicazione di una carbon tax, si sono in gran parte scaricati sui consumatori anziché sui grandi produttori di energia. Nel film dei dieci anni si potrebbe constatare anche una sproporzionata e improvvida destinazione di terreni per insediamenti umani, allevamenti e mangimi per bestiame, mentre i rischi di calore estremo e gli eventi meteorologici negativi sono cresciuti di anno in anno, come evidenziato dalla calura dell’ultima estate londinese e dalle inondazioni della primavera che l’ha preceduta.

Le previsioni del Pentagono per il 2030. Giorni fa è uscito un rapporto del Pentagono sui cambiamenti climatici con particolare attenzione alle “foto” prossime future delle basi americane in giro per il mondo. A premessa di provvedimenti operativi che riguarderanno i singoli siti, sono state espresse alcune considerazioni generali assai significative se non intriganti, vista la loro provenienza. Innanzitutto, si afferma che gli effetti del clima che muta rappresentano un problema di sicurezza nazionale, mentre, per la prima volta, viene preso atto che un brusco cambiamento climatico (vale a dire in una scala che cambia drammaticamente in anni, piuttosto che decenni o secoli) sia altrettanto probabile di un mutamento graduale. Se la rapidità prevalesse sulla gradualità cambierebbe lo scenario profilato dieci anni fa, secondo il quale l’agricoltura dell’Europa settentrionale, della Russia e del Nord America sarebbero prosperate, mentre l’Europa meridionale, l’Africa e l’America centrale e meridionale avrebbero sofferto di un aumento della scarsità d’acqua. Non più produzione di champagne nelle isole britanniche né grandi bacini di riserva idrica nelle zone subtropicali. Infine, perfino gli scienziati del Pentagono valutano che il riscaldamento globale sarà nei prossimi decenni un fattore crescente di estinzione delle specie, il cui tasso al momento è più alto che in qualsiasi momento dalla scomparsa dei dinosauri, 65 milioni di anni fa.

Sul piano più strettamente militare, si ritiene che il riscaldamento dell’Artico stia creando maggiori opportunità per un conflitto con la Russia e la Cina. L’indagine più estesa riguarda in dettaglio i modi con cui il cambiamento climatico – tenendo conto di cinque fattori: inondazioni ricorrenti, siccità, desertificazione, incendi boschivi e scongelamento del permafrost – potrebbe colpire migliaia di basi e installazioni militari sparse nel mondo. Circa i due terzi delle 79 installazioni trattate risultano danneggiabili all’innalzamento del mare o a future inondazioni ricorrenti e oltre la metà sono vulnerabili alla siccità attuale o futura. Circa la metà è esposta al crescente pericolo di incendi distruttivi. Ovviamente, gli impatti a causa di inondazioni costiere variano da regione a regione con maggiore impatto sulla costa orientale e le Hawaii rispetto alla costa occidentale. Addirittura, la regione di Hampton Roads in Virginia è citata come esempio di un’area che nei prossimi decenni dovrà affrontare un aumento del livello del mare fino a 45 centimetri.

Per il Pentagono di Trump, la risposta a tutti questi pericoli sembrerebbe essere diretta: armati fino ai denti e costruire un muro inespugnabile intorno agli Stati Uniti, mentre si tengono sotto tiro le altre potenze. Più realisticamente, penso impossibile agire non in pace e da soli.

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L’aria che tira sul pianeta

Un testo di 65 pagine in forma di appunti, per rimarcare quanto la vulgata di una invasione del nostro Paese da parte degli immigrati sia lontana dalla realtà e costituisca in realtà uno strumento di distrazione dalle autentiche emergenze: distruzione del pianeta, guerre, corsa al riarmo, migrazione forzata, sfruttamento del lavoro e della natura a tutte le latitudini, cultura dello scarto, spregio del vivente, primato della finanza e violazione dei diritti civili e sociali.

Fenomeni interconnessi che richiedono una alleanza convinta e vasta per il clima, la Terra e la giustizia sociale. Un discorso che esce dagli specialismi – anche quelli umanitari – partendo da una constatazione: “L’apatia del cambiamento climatico, non la negazione, è la più grande minaccia per il nostro pianeta”.

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L'aria che tira sul pianeta recensione
Fonte foto: La Bottega del Barbieri (da Google)

LEGGI LA RECENSIONE APPARSA SU L’INTERFERENZA

“La falsa narrazione delle destre reazionarie, xenofobe e razziste opera quotidianamente con l’indice puntato contro i migranti, agitando i pericoli e le paure derivanti dal rischio presunto dell’invasione di orde di barbari, che minaccerebbero l’ordine e il benessere acquisito di quanti non vorrebbero essere disturbati nel loro orizzonte consumistico e predatorio di quelle risorse del pianeta esclusivamente a loro disposizione…” (di Gian Marco Martignoni)

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