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Sequestrata la centrale a carbone di Vado Ligure

Intorno alle 13 di oggi i carabinieri sono entrati nella centrale a carbone Tirreno Power di Vado Ligure e Quiliano e l’hanno posta sotto sequestro per attuare l’ordinanza del Giudice delle indagini preliminari, Fiorenza Magni,  che prevede lo spegnimento dei gruppi a carbone e il commissariamento della centrale

La Giorgi imputa a Tirreno Power si imputa l’assenza del sistema di monitoraggio a camino, che avrebbe dovuto essere realizzato entro il 14 settembre 2013, ma dice che «una volta attuate le prescrizioni la centrale potrà ripartire».

Secondo l’ordinanza c’è stato un «comportamento negligente» e «i dati sulle emissioni provenienti dalle centraline sono inattendibili». Inoltre «le indicazioni dell’Aia non sono state rispettate».

Santo Grammatico, presidente di Legambiente Liguria, ha dichiarato: «Ben venga il sequestro e la chiusura degli impianti a carbone della centrale di Vado Ligure. Negli ultimi mesi i controlli effettuati da organismi istituzionali e la stessa Procura avevano evidenziato le problematiche sanitarie ed ambientali prodotte dalla presenza della centrale su questo territorio. Non è un caso che i capi di imputazione per gli indagati siano il disastro ambientale e l’omicidio colposo. Da anni denunciamo il rischio di convivenza tra la popolazione locale e le attività produttive legate al carbone, uno dei peggiori combustibili ancora oggi utilizzato per la produzione di energia elettrica».

Secondo Stefano Ciafani, vicepresidente di Legambiente, «il sequestro dell’impianto della Tirreno Power di Vado Ligure (Sv) rappresenta un importante passo avanti nella lotta all’inquinamento ambientale e sanitario da anni denunciato in Liguria. Ora ci aspettiamo che la centrale a carbone di Vado Ligure venga riconvertita con progetti utili e sostenibili e che possa così diventare un esempio da seguire anche per gli altri impianti industriali vecchi e inquinanti presenti ancora in Italia, che arrecano solo danni all’ambiente e alla salute dei cittadini. Dall’altra parte è però necessario che ci sia un cambio di rotta nella politica energetica di questo Paese. È ora di dire basta ai sussidi per le fonte fossili e alle politiche a favore del carbone, bisogna invece optare per una politica energetica che guardi alle fonti rinnovabili e alla riqualificazione energetica del patrimonio edilizio italiano. Al premier Renzi cogliamo l’occasione per ricordare che si possono recuperare le risorse tagliando i sussidi alle fonti fossili».

Anche l’assessore all’Ambiente della Regione Liguria, Renata Briano, ha sottolineato che «le inottemperanze e le inosservanze alle prescrizioni dell’Aia ( l’autorizzazione ambientale integrata) che hanno motivato il provvedimento sono contenute in un verbale di Ispra dopo una visita fatta insieme con i tecnici di Arpal alla centrale. Il dipartimento Ambiente della Regione Liguria aveva già precedentemente inviato, fra l’altro, una serie di lettere al Ministero dell’Ambiente, in cui si chiedeva di verificare l’esistenza di inadempienze ambientali sull’Aia stessa».

I sindacati sono preoccupati per i circa 700 i lavoratori della  produzione di energia o che lavorano per la Tirreno Power di Vado Ligure e Quiliano, Maurizio Perozzi della Rsu, ha detto al Secolo XIX: «Siamo allibiti per la portata del provvedimento deciso dal tribunale e richiesto dalla Procura. Già domani chiederemo di essere ricevuti dal Prefetto Gerardina Basilicata per poi essere convocati urgentemente dal ministero. Una situazione del genere è decisamente pesante e non ce l’aspettavamo». Pino Congiu, segretario della Uilcem di Savona, però ammette che ci sono diverse cose che non vanno: «Sono i due gli aspetti che gravano sulla centrale. Uno riguarda le rigorose prescrizioni imposte dall’Aia. L’altro è la crisi che da tempo grava anche in questo settore. Non vorremmo che questa chiusura potesse avere delle conseguenze gravi anche sui lavoratori».

 

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Il quinto rapporto IPCC sul riscaldamento globale

Lo scorso 27 settembre è stato rilasciato a Stoccolma il quinto rapporto dell’IPCC per la valutazione del riscaldamento globale. E’ possibile ora, alla luce di un documento scientifico con un consenso senza precedenti, riflettere sulla distanza tra l’allarme lanciato e il comportamento dei leader mondiali, che nei consessi successivi a Varsavia e a Bali non hanno per l’ennesima volta corrisposto alla responsabilità cui sono chiamati. D’altra parte, prevale ancora la competizione nell’arena del mercato globale rispetto alla cooperazione per il salvataggio del pianeta e continua ad affiorare il pensiero prevalente di questa fase storica, che si affida ad una presunta “razionalità economica” per affrontare i problemi sociali, politici e ambientali.

 

I contenuti del rapporto

Partiamo dai contenuti inoppugnabili del rapporto.

Non ci sono più margini di incertezza riguardo alla responsabilità dell’uomo sul riscaldamento globale. Anzi, ulteriori emissioni di gas ad effetto serra causeranno un ulteriore riscaldamento e cambiamenti in tutte le componenti del sistema climatico.

Le proiezioni climatiche mostrano che entro la fine di questo secolo la temperatura globale superficiale del nostro pianeta probabilmente raggiungerà 1.5 °C oltre il livello del periodo 1850 – 1900. Senza serie iniziative mirate alla mitigazione e alla riduzione delle emissioni globali di gas serra, l’incremento della temperatura media globale rispetto al livello preindustriale potrebbe superare i 2 °C e arrivare anche oltre i 5 °C.

Gli ultimi tre decenni sono stati i più caldi dal 1850, quando sono iniziate le misure termometriche a livello globale. L’ultimo decennio è stato il più caldo e l’oceano superficiale (0–700 m) si è riscaldato durante gli ultimi decenni del 1971-2010.

Il periodo 1983–2012  “probabilmente” è il trentennio più caldo degli ultimi 1400 anni.

Dal 1950 sono stati osservati cambiamenti negli eventi estremi meteorologici e climatici: la frequenza di ondate di calore è aumentata in vaste aree dell’Europa, Asia e Australia; in Europa e Nord America la frequenza o l’intensità di precipitazioni intense (o estreme) è aumentata.

Le calotte glaciali in Groenlandia e Antartide hanno perso massa negli ultimi due decenni. I ghiacciai si sono ridotti quasi in tutto il pianeta. Entro la fine del secolo, è verosimilmente da attendere una forte diminuzione delle coperture glaciali a scala globale (-15% fino a -55%), escluso l’Antartide.

L’innalzamento del livello globale medio marino ha accelerato negli ultimi due secoli ed è stato di 1.7mm/anno nel periodo 1901-2010 e di 3.2mm/anno nel periodo 1993-2010”.

Le continue emissioni di gas serra provocheranno ulteriore riscaldamento nel sistema climatico, con cambiamenti nella temperatura dell’aria, degli oceani, nel ciclo dell’acqua, nel livello dei mari, nella criosfera, in alcuni eventi estremi e nella acidificazione oceanica. Molti di questi cambiamenti persisteranno per molti secoli.

E ‘praticamente certo che ci saranno più frequenti estremi di temperatura (caldi e freddi) sulla maggior parte delle aree di terra e su scale temporali giornaliere e stagionali, all’aumentare delle temperature medie globali.

Le aree soggette a permafrost superficiale (fino a 3.5 m di profondità) presenti alle latitudini intermedie ed elevate si ridurranno (da -37 % fino a -81%) con l’aumento delle temperature atteso.

Il cambiamento climatico influenzerà in maniera crescente il ciclo dell’acqua a scala globale: le zone equatoriali e le alte latitudini vedranno probabilmente una crescita delle precipitazioni, con intensificarsi dei fenomeni estremi e susseguenti piene, mentre le zone tropicali aride andranno verosimilmente incontro a precipitazioni sempre minori. Le aree soggette a precipitazioni di matrice monsonica verosimilmente incrementeranno.

 

L’urgenza del cambiamento e la staticità dei decisori politici

Se il medico annuncia una malattia grave, si dovrebbe subito iniziare a cercare la cura. Perché mai dovremmo correre rischi più grandi quando si tratta della salute del nostro pianeta? E ‘fuor di dubbio che, se vogliamo evitare il cambiamento climatico superiore a due gradi centigradi, abbiamo bisogno di responsabili politici per implementare meccanismi che garantiscono che una grande quantità di carbonio rimanga sotto terra, sia riducendo l’estrazione dei fossili e sostituendoli con le rinnovabili e promuovendo il risparmio, che sostenendo l’agricoltura contadina e la riforestazione.

Gli impatti dei cambiamenti climatici presenteranno crescenti sfide per i governi di tutto il mondo e rischi imprevedibili per il sistema globale delle imprese. L’aumento delle temperature, i cambiamenti nel regime delle precipitazioni, l’aumento del livello dei mari, ghiacciai che scompaiono e l’acidificazione dell’acqua del mare avranno effetti diretti sulla spesa pubblica, sulla salute, sulla qualità della vita, sui risultati economici di molti settori industriali. La stessa UE sembra non mantenersi all’altezza della sua storia precedente e cede sempre di più alla pressione dei grandi enti energetici che spingono per bassi costi delle materie prime fossili, incentivi per l’ammodernamento delle grandi infrastrutture, eliminazione di qualsiasi forma di carbon tax. Va segnalato come alla testa di questo schieramento si sia posizionata la Polonia, forte anche dell’accondiscendenza del governo italiano.

C’è molta incertezza nelle aree geopolitiche del pianeta, che guardano a breve al rilancio del gas e del petrolio con sistemi non convenzionali (shale gas) per accreditare un’affermazione dei loro settori manifatturieri tradizionali grazie al minor peso della bolletta energetica. Naturalmente, tutti i costi esterni di queste scelte ricadrebbero sulla società a livello globale e sulle generazioni future, costrette a riparare ai danni climatici, all’inquinamento e al peggioramento delle condizioni di salute. C’è un aperto conflitto tra Canada, Australia e Stati Uniti da una parte e i paesi poveri dall’altra, con la Cina il Brasile e i paesi emergenti in una posizione di attesa, mentre la stessa UE si trova incerta e lacerata al proprio interno.

 

Il negazionismo dei media

L’obiettivo della gran parte dei media è di tener lontano l’opinione pubblica dalla drammaticità del problema con una insistenza calcolata nel mettere in dubbio i risultati dei rapporti IPCC e nel travisare l’informazione sulle prove esibite. Il ruolo delle grandi corporation e delle lobby del carbone e del gas che stanno dietro questa operazione è evidente ed è documentato da una coraggiosa inchiesta del Guardian. Sono all’attacco il Sunday, il Christian Post, i canali e i giornali di Rubert Murdoch, il Wall Street Journal e il Washington Post. E, naturalmente, ne risentono anche i quotidiani nostrani come Repubblica, Il Sole 24 Ore e soprattutto il Corriere della Sera, che vengono amplificati e ripresi dalle TV private nelle news e nelle loro trasmissioni pseudoscientifiche.

La disinformazione e il negazionismo si sono sapientemente articolati secondo cinque schemi, che tutt’ora si intrecciano a seconda dell’occasione. Lo schema 1 riguarda la pura negazione che il problema del clima esista. Quando le persone vengono poste di fronte ad un problema scomodo, la reazione immediata consiste nel negare la sua esistenza e, in questo caso, nel negare che il pianeta si stia riscaldando. A tal fine si sono esibiti dati che riguardavano la bassa atmosfera, ma ben presto è stato dimostrato che anche la bassa atmosfera si stava scaldando a un ritmo coerente con le misure di temperatura superficiale. In più si è volutamente trascurato che il 98% del riscaldamento inizialmente va a finire negli oceani.

Lo schema 2 si è sviluppato per negare che l’uomo fosse la causa e, a questo fine, sono stati contestati i modelli in uso per interpretare i dati; inoltre, si è messa in discussione la eccezionale concordanza degli esperti, andando a scovare le chat dissonanti su blog tematici per niente certificati e citando illegalmente della corrispondenza privata. Lo schema 3 accetta che l’uomo sia responsabile del mutamento, ma sostiene che il riscaldamento globale non è nulla di cui preoccuparsi, perché può essere risolto dalla tecnologia a valle e da una riorganizzazione degli insediamenti umani. Lo schema 4 esprime il massimo di pessimismo: non c’è niente da fare! La soluzione del problema sarebbe troppo costosa e farebbe male ai poveri. In realtà è vero il contrario. Lo scetticismo su possibili soluzioni addirittura precipita nella schema 5: è troppo tardi per intervenire. Quindi, non dovremmo perder tempo e dovremmo solo attrezzarci ad anticipare le catastrofi ed a ripararle poi con un apparato di intervento di permanente emergenza.

Credo che ognuno di noi abbia fatto esperienza di quanto queste posizioni vengano a bella posta contrapposte tempestivamente ad ogni esposizione dei responsabili internazionali dell’IPCC.  Basta ancor oggi leggere i giornali o ascoltare radio e TV. Gli opinion leader frequentemente si buttano a confutare una previsione che dovrebbe ribaltare completamente l’agenda politica e lo fanno grossolanamente su commissione, senza cognizioni di causa. Ma il quinto rapporto IPCC è un brutale colpo a quelle che ormai si rivelano solo insinuazioni o, più banalmente, cappellate.

 

Il rischio per il sistema delle imprese

C’è un aspetto nuovo nel conflitto aperto sul “climate change” e riguarda proprio il punto che sembrava il più ostico da affrontare – cioè la convenienza economica – e coinvolge i partner più titubanti a cambiare passo – cioè il mondo delle imprese. Il rischio di una gigantesca “bolla di carbonio” che deriverebbe dall’attuazione di serie politiche di riduzione delle emissioni, mette a rischio il futuro del settore del gas e del petrolio: infatti, se non si prenderanno subito provvedimenti, in un futuro prossimo non sarà più utilizzabile il 60 – 80% delle riserve di carbone, petrolio e gas delle aziende quotate in borsa. Gli investitori più attenti si stanno accorgendo che puntare su questo tipo di aziende sta diventando una scelta molto rischiosa. Già oggi la BEI e la Banca Mondiale ricusano molti dei progetti di costruzione di centrali a carbone.

La competitività delle imprese in Europa sarebbe gravemente colpita dal riscaldamento globale, che secondo molti scienziati rischia di verificarsi in questo secolo. Peter Thorne, l’autore principale delle osservazione per il Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (IPCC) ha affermato che:

“se si dispone di possibilità alternative e di cambiamento, è sbagliato continuare a costruire infrastrutture che peggioreranno il clima, mentre è più saggio costruirne per le implicazioni di adattamento e mitigazione”. L’UE è scossa al proprio interno dalle richieste degli enti energetici, appoggiati da alcuni governi (tra cui quello polacco e quello italiano), per incentivare l’utilizzo in Europa di carbone e gas a buon mercato importato dagli Stati Uniti spostando il finanziamento alle fonti rinnovabili.

 

Si direbbe però che l’imprenditoria più innovativa sia assai più avanti: infatti, per aiutare la comunità imprenditoriale a comprendere meglio le implicazioni del cambiamento climatico, la University of Judge Business School di Cambridge e la Fondazione Europea per il Clima hanno distribuito a vari settori industriali un documento assai rigoroso, dal titolo intrigante: “Il cambiamento climatico influenzerà il mio settore di attività?”. L’intento è quello di incoraggiare le direzioni aziendali a uscire dal business quando comporta forti emissioni ed a prepararsi per una nuova economia “low carbon”. Il documento si trova su http://bit.ly/15D2DvH.

 

Dopo il rapporto: i negoziati di Varsavia (Novembre) e Bali (Dicembre 2013)

“Sono davvero sbalordito, non vi è alcun senso di urgenza qui” ha dichiarato un portavoce dell’IPCC alla conferenza COP 19 conclusa a Novembre a Varsavia.

L’unico sorprendente successo è stato un accordo sul REDD (Riduzione delle emissioni da deforestazione e degrado) che fornirà una compensazione per i paesi che potrebbero perdere gettito non sfruttando le loro foreste e che include la verifica, il monitoraggio e la salvaguardia per le comunità locali. La deforestazione e la conversione delle foreste in terreno agricolo contribuisce per circa il 10 per cento delle emissioni totali di CO2 antropica.

Più controversa è stata l’introduzione di un meccanismo internazionale per le perdite e i danni climatici” (“loss and damage”), che apre la strada al risarcimento dei danni per i paesi sviluppati. In definitiva, la lentezza del processo per arrivare nel 2015 al “dopo Kyoto” e la scarsa fiducia fra le Parti, suscitano seri dubbi sul  raggiungimento di un nuovo accordo globale per la riduzione delle emissioni.

A Bali, in Dicembre, per la prima volta nella sua storia, l’Organizzazione Mondiale del Commercio ha concluso un incontro ministeriale con un accordo.

A sperare in un accordo finale erano stati proprio i PVS, perché per loro da quando l’OMC/WTO ha smesso di funzionare come strumento prevalentemente euro-americano, è iniziata la stagione degli accordi bilaterali o regionali che seguono la logica delle catene di approvvigionamento esigendo una grande integrazione fra i Paesi che partecipano alla filiera di un prodotto. Ma questi accordi in genere legano un centro di consumo a quelli di produzione e i Paesi più deboli si trovano in una posizione negoziale debole.

Questo apre possibilità per il futuro, possibilità però che saranno tutte da creare. L’accordo in sé è infatti molto deludente e il piatto della bilancia pende anche questa volta dalla parte dei paesi più forti. Il rischio è che i Paesi poveri siano costretti a privilegiare l’informatizzazione dei loro uffici doganali rispetto alle scuole e a migliorare le infrastrutture dei porti piuttosto che gli ospedali.

Come ha scritto Roberto Meregalli, “la battaglia per un sistema equo di regole che ponga il diritto al cibo, al lavoro, alla salute, all’ambiente prima del diritto a fare business, sarà ancora aspra e lunga, ma la crisi dell’occidente dovrebbe aver insegnato che le ricette del passato sono da buttare e che l’unica politica win-win è quella della cooperazione”.

Insomma, dopo Stoccolma, Varsavia e Bali è la scienza o l’economia a dettare l’agenda per gli abitanti del pianeta?

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Contro i cambiamenti climatici

Contro i cambiamenti climatici, i disastri ambientali, la politica e le industrie inquinanti che sono responsabili, un gesto eclatante della società civile italiana

Il clima mondiale sta rapidamente cambiando: l’effetto delle emissioni di gas clima alteranti e l’incuria del territorio si scarica sulla natura che si ribella con forza: dalle Filippine, agli Stati Uniti, alla Sardegna, uragani e alluvioni si susseguono, ma la politica e l’economia internazionale, e quella italiana, non se ne cura.
La 19a Conferenza delle Parti dell’Onu sul cambiamento climatico, in corso a Varsavia, si avvia a chiudersi con un nulla di fatto o il ripescamento di promesse in extremis.

A Varsavia le associazioni ambientaliste, sociali, le Organizzazioni non governative e sindacali presenti alla Conferenza Onu sul clima  hanno deciso con un’azione clamorosa di abbandonare i negoziati.
Tra le organizzazioni della società civile che hanno deciso di abbandonare i lavori della COP 19 ci sono anche Legambiente, la CGIL, Fairwatch ed il WWF Italia.
“Alla Conferenza di Varsavia” si legge in una nota “i Paesi ricchi non hanno nulla da offrire. Molti Governi dei Paesi in via di sviluppo stanno lottando ma non riescono a tutelare adeguatamente le necessità ed i diritti delle loro comunità”.
“E chiaro che” continua la nota “se si continuerà in questo modo, i prossimi due giorni di negoziato non decideranno le azioni che il mondo così disperatamente attende”.
“Per questo abbiamo deciso di utilizzare meglio il nostro tempo abbandonando volontariamente i negoziati climatici di Varsavia. Al contrario abbiamo scelto di impegnarci a mobilitare i cittadini per fare pressione sui nostri Governi per prendere la leadership per una seria lotta al cambiamento climatico. Lavoreremo per trasformare i nostri sistemi alimentari ed energetici a livello nazionale e globale così da porre le basi per un’economia sostenibile e low carbon con lavoro e vita degni per tutti. Così da ritornare ai negoziati portando la voce di tutte quelle cittadine e di quei cittadini che hanno a cuore un futuro sostenibile per l’intero pianeta”.

Energiafelice si associa a questo impegno

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Se il biogas agricolo diventa business

di Giovanni Carrosio – da www.ecologiapolitica.org

Negli ultimi anni, in Italia sono nati quasi mille impianti per la produzione di energia da biogas agricolo. Per la precisione, 953 impianti, la maggior parte dei quali (90%) concentrati nel Nord Italia, nelle aree caratterizzate da una importante densità di grandi allevamenti zootecnici e nelle aree ad alta specializzazione nella produzione di mais. Produrre energia da biogas agricolo significa utilizzare il metano prodotto dalla fermentazione anaerobica di deiezioni animali e/o biomasse (mais, triticale, sorgo foto) per alimentare un cogeneratore che trasforma il biogas in energia elettrica e termica.  Grazie alla vendita dell’energia elettrica e ad un sistema di incentivi molto generoso, gli agricoltori che adottano questa tecnologia fanno grandi profitti.

Gli impianti a biogas hanno iniziato a diffondersi in modo consistente a partire dalle politiche di incentivazione, giustificate secondo una triplice retorica. La prima: produrre energia da biogas è necessario per ridurre le emissioni di anidride carbonica in atmosfera; secondo la vulgata dominante, il processo che porta alla produzione di energia è neutro dal punto di vista delle emissioni climalteranti; le biomasse rilasciano in atmosfera l’anidride carbonica assorbita durante il ciclo di vita, con un bilancio perciò uguale a zero. La seconda: produrre energia da biogas è necessario per sostituire le fonti fossili con fonti rinnovabili prodotte sui nostri territori, riducendo la dipendenza del nostro paese dall’estero. La terza: produrre energia da biogas vuol dire incrementare la multifunzionalità delle aziende agricole, consentendo loro di fare profitti ed investire nell’ammodernamento ecologico dei sistemi produttivi.

Questa triplice argomentazione, che ha giustificato la strutturazione di un sistema di incentivi molto generoso, è stata smentita dai fatti. La tecnologia del biogas agricolo, per come si è  affermata in Italia, è stata utilizzata soprattutto come dispositivo di ulteriore modernizzazione e artificializzazione dei processi produttivi delle aziende agricole, vanificando e contraddicendo gli obiettivi che i policy makers si erano dati – ammesso che gli obiettivi reali coincidessero con quelli dichiarati.

Le aziendebiogas1 agricole hanno sostanzialmente due modi di organizzare la produzione di energia da biogas: il modo contadino e il modo imprenditoriale. Le aziende che adottano il  modello contadino utilizzano la tecnologia del biogas come dispositivo per chiudere i cicli aziendali e conquistare margini di autonomia dal mercato nella riproduzione di fattori produttivi come energia e fertilizzanti. Si tratta di medio-piccole aziende zootecniche, nelle quali  il digestore che produce biogas è proporzionato rispetto alle dimensioni dell’azienda. Le deiezioni animali vengono sottoposte a digestione anaerobica e dal processo vengono prodotti energia e  fertilizzante. Il fertilizzante organico viene distribuito nei campi, sostituendo anche nella totalità i fertilizzanti chimici comprati dall’agroindustria, e l’energia viene in parte venduta alla rete nazionale (quella elettrica) e in parte utilizzata per il riscaldamento delle stalle e degli edifici aziendali (quella termica). In questo modo, l’azienda agricola riduce gli input esterni e diventa più autonomia nelle riproduzione di alcuni fattori produttivi.

Le aziende che adottano il modello imprenditoriale – e nel caso italiano sono la maggior parte – utilizzano invece il biogas come dispositivo per incrementare il giro d’affari e ampliare la scala aziendale. La taglia dei digestori adottata è solitamente più grande rispetto alle capacità produttive dell’azienda e alle deiezioni animali vengono aggiunte colture dedicate come mais e triticale. In questo modo le imprese agricole utilizzano suolo agricolo per alimentare i digestori. Si stima che nel Nord Italia siano circa 200 mila gli ettari occupati a colture destinate alla produzione di energia da biogas. Per queste aziende il biogas non è funzionale alla chiusura dei cicli aziendali e tanto meno alla riconquista di margini di autonomia rispetto ai mercati. Infatti, esse acquistano  sul mercato i mangimi che prima dell’adozione della tecnologia del biogas coltivavano su terreno aziendale.

Oggi i terreni sono utilizzati a scopo agroenergetico e la produzione di energia diventa il principale business aziendale.  In molti casi, questo comporta un ampliamento di scala delle imprese agricole: esse tendono a incrementare il numero di animali allevati – intensificando così il rapporto tra terreni e numero di capi – per avere più materiale organico da utilizzare nei digestori e produrre in questo modo più energia. Energia che viene venduta per riscuotere gli incentivi (quella elettrica), ma che in gran parte viene dispersa in atmosfera sotto forma di calore, perché eccedente rispetto ai bisogni aziendali (quella termica). E’ una vera e propria speculazione sugli incentivi, che porta le aziende ad ingrandirsi anche grazie all’ingresso di capitali industriali che sostengono gli investimenti.

In questo modo, quella che secondo la retorica corrente  doveva essere una politica per l’ambiente e per lo sviluppo rurale, nella pratica ha generato un aggravamento dei problemi ambientali legati agli allevamenti intensivi, una competizione per l’utilizzo della terra, una ulteriore “modernizzazione”, specializzazione e industrializzazione dell’agricoltura.

Il modo di produzione contadino, però, ci dice che una alternativa è possibile. Che le nuove tecnologie per la produzione di energia da fonti rinnovabili possono essere utilizzate in modo eco-compatibile, se la logica non è quella del profitto, ma quella della riproducibilità delle risorse naturali. E soprattutto, dimostra che non esistono energie rinnovabili buone in sé,  e che i modelli sociali e produttivi con i quali esse sono  adottane sono determinanti per conciliare produzione e ambiente. Perché ciò sia possibile, però, servono politiche nuove, che non facilitino la speculazione, ma premino l’agricoltura eco-compatibile.

 

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Ue e Italia a marcia indietro su clima e ambiente

di Mario Agostinelli – IlFattoQuotidiano 4 novembre 2013

Siamo a pochi mesi dalle elezioni europee e dal semestre europeo affidato all’Italia. Si direbbe che i governi e le classi dirigenti del vecchio continente facciano di tutto per spegnere la speranza di futuro dei loro cittadini e aumentare la distanza tra società e politica.

L’Ue, che aveva a lungo sostenuto una posizione avanzata e attenta sulla tutela dell’ambiente e sulla difesa dai cambiamenti climatici, sta compiendo una svolta che offusca definitivamente la sua funzione di punta nel panorama mondiale. Sotto la pressione del mondo finanziario e delle grandi corporation, ogni giorno viene sfondato un argine da cui tracimano gli interessi privati e la spoliazione dell’ambiente naturale, sempre più apertamente sostenuti dai rappresentanti dei governi, Italia in testa. I tre episodi qui sotto riportati sono più convincenti di qualsiasi astratta argomentazione.

  1. La Commissione ha deciso di sospendere i finanziamenti per i progetti locali, bloccando le sovvenzioni alle piccole azioni diffuse per la mitigazione degli effetti climatici (un programma da 864 milioni di euro per il 2014) per sostituirle con prestiti privati. Si trattava di interventi sulle foreste e le torbiere, per la costruzione di percorsi di attraversamento della fauna selvatica con garanzia di corridoi ecologici, per la riduzione delle emissioni di gas serra nel settore lattiero-caseario e – caso curioso, ma molto rilevante per la conservazione della biodiversità – per la protezione della foca degli anelli nei laghi finlandesi. Molti sarebbero stati gli enti locali, gli istituti accademici e le organizzazioni non governative destinatari di questi fondi: tra di essi quelli spagnoli e italiani sono i più numerosi. Purtroppo dal nostro governo… silenzio tombale. Si conferma così l’approvazione di una tendenza più ampia a utilizzare i fondi pubblici come capitale di rischio per il settore privato, come già sta succedendo per i piani nucleari del governo britannico e per le proposte di infrastrutture energetiche dell’UE.
  2. A ruota di un’analoga presa di posizione dei top manager delle più importanti industrie energetiche europee (v. il post precedente in questo blog), i ministri dello sviluppo economico e dell’industria di nove Stati membri dell’UE, fra cui il nostro Zanonato, hanno emesso una nota congiunta sulla crisi dell’industria europea in cui si afferma che “è necessario che la Commissione analizzi il differenziale di competitività fra l’Europa e le altre economie avanzate, prodotto dal divario nei prezzi dell’energia e dagli impegni in materia di riduzione delle emissioni di CO2 e di produzione da fonti rinnovabili” e che si dovrà entro febbraio 2014 ridurre questo “differenziale di competitività”. È la prima volta che in Europa l‘attacco alle rinnovabili assume una dimensione sovranazionale. Ci si muove a testa bassa e al di fuori degli organi collegiali dell’Unione contro lo sforzo finora attuato per contrastare il cambiamento climatico. E, nello stesso tempo, si è disposti a sacrificare il futuro dell’industria, che risiede proprio nella sua riconversione “green”. Non sono tenute in alcun conto nemmeno le conclusioni dello studio del World Energy Council per cui nel 2030 le tecnologie verdi varranno il 34% del mix elettrico planetario. Ma tanto possono sui nostri governi le lobby energetiche, preoccupate dei rischi dei loro investimenti, dato che, nonostante la loro forza di rallentamento e conservazione, le politiche contro il riscaldamento globale sono destinate ad andare avanti (v. il rapporto della Banca Mondiale “Turn Down the Heat: Why a 4 °C Warmer World Must be Avoided”).
  3. Il commissario europeo all’Energia, Gunther Oettinger, avrebbe fatto cancellare da un documento della Commissione i dati sull’entità dei sussidi pubblici alle fonti fossili e al nucleare, molto superiori agli aiuti ricevuti dalle energie rinnovabili. Questo per negare che, se alle rinnovabili europee nel 2011 sono andati aiuti per 30 miliardi di dollari e all’efficienza energetica 15 miliardi, al nucleare di miliardi di fondi pubblici ne sono andati 35 e alle fossili 26, cui ne andrebbero aggiunti altri 40 per i danni sanitari che causano. E’ evidente come i dati siano stati cancellati perché sarebbe imbarazzante chiedere la progressiva riduzione degli incentivi alle rinnovabili quando fossili e nucleare, tecnologie mature e con grosse esternalità negative, ricevono aiuti pubblici molto più sostanziosi. Potremmo chiederne ragione a Sara Romano, alto funzionario del Ministero dello Sviluppo Economico, che ha assunto l’incarico di “Direttore generale per l’energia nucleare, le energie rinnovabili, l’efficienza energetica”. Non c’era stato un referendum contro il nucleare solo due anni fa?
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