“È urgente prendere decisioni reali molto robuste e muoverci a un ritmo molto forte” per affrontare il cambiamento climatico, ha affermato Giorgio Parisi, “perché siamo in una situazione in cui possiamo avere feedback positivi che possono accelerare oltremodo l’aumento della temperatura. È chiaro che per le generazioni future dobbiamo agire ora in modo molto rapido e non indugiare“. Con queste parole il premio Nobel 2021 per la fisica ha commentato il suo contributo allo studio dell’evoluzione dei sistemi complessi, come quello che rappresenta il clima e per cui ha ottenuto il prestigiosissimo riconoscimento. Mentre rendeva le prime dichiarazioni – molto significative da parte di un grande scienziato – la penisola era flagellata da bombe d’acqua e tornado da nord a sud.
Un’urgenza che non sembra nei fatti compresa dalla “cabina di regia” del governo, che continua a dilazionare i tempi di intervento con i fondi del Pnrr, esitante sul futuro del nostro sistema energetico, ancorato a fossili, trivellazioni e a qualche intervento di pura facciata sulle rinnovabili. Dopo lo straordinario corteo del 5 ottobre a Milano e l’annuncio di una costellazione di nuove manifestazioni in tutto il Paese prima dell’inizio della COP 26 di Glasgow – ricordo, tra le numerose altre, quella promossa dagli atenei italiani il 29 ottobre – chissà mai che dagli uffici ministeriali si dia uno sguardo ai manifestanti che si raccoglieranno sotto le loro finestre già sabato 9 ottobre a Roma con lo slogan “basta greenwashing!” – pratica istituzionale accreditata per coprire i regali fatti al fossile (20 miliardi di euro all’anno) con la copertura di una “transizione energetica” che contempla la centralità del metano, dell’idrogeno blu, del Ccs, di nuove trivellazioni, di nuovi gasdotti e di centrali a gas per sostituire la filiera del carbone.
Mentre si conclude la Precop 26 milanese, vengono ignorate le spinte dal basso che realizzano progetti alternativi contro il Ccs con “emissioni zero” a Ravenna e le rivendicazioni di quei lavoratori che, come nel caso di Civitavecchia, hanno capito quanto i nuovi impianti a turbogas, oltre ad inquinare, determinino anche gravi problemi occupazionali.
Il segnale inequivocabile di un popolo che pretende l’uscita dal fossile è giornalmente annacquato dal mainstream, intento a rimuginare fino ad esaurimento su quanto i capricci di Matteo Salvini, le fumosità di Carlo Calenda e le capriole di Matteo Renzi possano tenere botta ai decreti e alle riforme immodificabili che Mario Draghi concorda in sedi extraparlamentari.
In fondo, l’astensione di elettrici ed elettori alle Amministrative di ottobre fa pensare che il voto non sia in grado di influenzare le loro stesse vite; dato che si trasforma semplicemente nel “parterre” post-elezioni in cui quel che rimane dei leader politici più noti – sempre gli stessi – si azzuffa per un briciolo di potere sotto lo sguardo di habitué del piccolo schermo, anch’essi da anni sempre gli stessi.
L’irrompere di un Nobel così colto, ragionevole, mite, eppure tagliente e allarmante nelle sue previsioni, si riconnette immediatamente all’altra “metà del cielo”, che oggi è fatta di quante e quanti hanno a cura le sorti delle vite, della giustizia, della Terra.
Da tempo l’Associazione laica “Laudato Sì” raccoglie e alimenta proposte, studi, convergenze, occasioni di formazione e analizza profili indispensabili di riconversione ecologica, che i governanti tuttavia non sembrano voler mettere all’ordine del giorno. E non lo fa da sola, ma con moltissimi altri soggetti collettivi che non approdano ad una rappresentanza politica nel sistema del liberismo più camuffato.
Ci si dovrà pur chiedere, ad esempio, come sia possibile che lo scenario futuro della crescita della combustione di metano sia l’asse che in sede nazionale ha adottato la più grande impresa nazionale di idrocarburi – l’Eni – senza tener conto degli insostenibili danni ambientali e alla salute. Obiettivo tanto indifendibile da obbligarla ad adottare, quando concorre a gare di assegnazione all’estero, misure di passaggio a tecnologie rinnovabili estranee alla combustione di gas e petrolio già opzionato per i suoi gasdotti diretti in Italia.
Nello stesso tempo apprendiamo che Francesco Starace, un ad coraggioso all’Enel – anch’essa una partecipata statale come Eni – è l’inventore dell’obbligazione legata alla sostenibilità, lo strumento di gran lunga più grande del mondo, con un affare da 3,25 miliardi di euro (2,7 miliardi di dollari) ripagati dal conseguimento della neutralità climatica. Il bond di Enel ha due indicatori chiave di prestazione che fanno riferimento a due Sdg (Substainable Development Goals: il 13 su Climate Action e 7 su Affordable and Clean Energy). L’Enel mira a ridurre le emissioni dirette di gas serra del 64% entro il 2023, dell’80% entro il 2030 e completamente entro il 2050, il tutto rispetto al livello base del 2017, aumentando la propria capacità rinnovabile al 55% entro la fine di quest’anno, al 60% entro la fine del prossimo anno e al 65% entro il 2023.
Almeno il 90% dei nuovi investimenti di Enel deve ora essere allineato ad attività sostenibili, rispetto al 58% dell’anno scorso. E punta a far sì che il 48% dei suoi finanziamenti provenga dalla finanza sostenibile entro il 2023 e il 70% entro il 2030. Un’azienda sostenibile è certamente meno rischiosa, più redditizia e più resiliente. Purtroppo occorre considerare che, nella riorganizzazione internazionale di Enel decisa dallo scorso anno, è stata creata una specifica holding nazionale per l’Italia data in affidamento a Carlo Tamburi, il più convinto sostenitore del turbogas a Civitavecchia e insieme il meno propenso a invertire la rotta verso le rinnovabili sostenuta dall’Ente fuori dai confini nazionali.
Riesce scandaloso che in tanto chiacchierare sul clima si lasci alle aziende pubbliche uno spazio di improvvisazione o di interesse aziendale puro in dimensione nazionale, dove hanno più libertà di azione e più coperture politico-clientelari.
È il momento che il governo Draghi mostri la sua faccia e si ponga in sintonia con i cittadini sui piani energetici e climatici. Il danno per il Paese sarebbe di veder finire i fondi Pnrr per ripianare debiti anziché per fare investimenti. E non è certo di buon auspicio per i bilanci già indebitati il fatto che le prime cinque supermajor petrolifere e del gas al mondo abbiano perso circa 200 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato dal 2015, compromettendo la loro capacità di finanziare il cambiamento alla scala e al ritmo richiesti, ricorrendo altresì all’azione dei loro apparati legali per affibbiare agli stati i rischi cui vanno incontro.
Fossi Roberto Cingolani, inviterei al più presto il Nobel Parisi ad un sereno e non informale colloquio sulla transizione ecologica.
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