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A2A, il carbone, gli elettrodotti e gli impegni per la COP21

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Nuova svolta nella saga infinita dell’elettrodotto fra Italia e Montenegro. Una grande opera che ormai assomiglia al Ponte sullo Stretto: di tanto in tanto riemerge dal silenzio, anche se le ragioni per giustificarla non reggono all’esame del buon senso.

Quando nel 2003 l’Italia subì il black out, si progettò un elettrodotto fra Balcani e Italia (approdo in Abruzzo) in vista dell’importazione di elettricità da quelle aree. Dieci anni dopo però, l’undercapacity italiana si trasformò in overcapacity e un’opera che oggi finirebbe per costare almeno un miliardo di euro, perse la sua attrattività. Per di più, l’iniziale previsione di importare energia idroelettrica dalla Serbia andava perdendo di significato già all’inizio del secondo decennio 2000, dato che ormai potevamo produrci in casa tutta l’energia verde che ci serviva per raggiungere gli obiettivi fissati a livello nazionale ed europeo.

Ora, andando verso l’appuntamento di dicembre a Parigi per la Cop 21, potremmo onorarci almeno di un definitivo abbandono del carbone e, quindi, di un contributo trasparente al miglioramento della situazione climatica. Ma tra il dire e il fare… ci sono sempre intoppi che nascondono interessi di cui i cittadini e l’opinione pubblica non devono occuparsi e che, nel caso trattato, hanno a che vedere proprio con il combustibile fossile più inquinante

Abbiamo già denunciato su questo blog che A2A, l’utility ancora a maggioranza pubblica di Milano e Brescia, aveva fatto un rischioso investimento in centrali elettriche compartecipate nel piccolo Montenegro, un Paese non proprio esempio di trasparenza e incorruttibilità. Un rischio che si poteva correre, probabilmente, solo esportando kWh in Italia a prezzi ben più alti di quelli che vengono pagati, quando vengono pagati, nel paese balcanico. E – qui viene il bello – non kWh puliti, ma kWh prodotti da A2A con carbone, bruciato in una centrale in via di raddoppio e estratto da una miniera di lignite, fonte di preoccupante inquinamento per la cittadina di Pljevlja, contigua alla centrale e al giacimento.

Nell’assemblea generale di A2A dello scorso 11 giugno era stata sollevata una decisa obiezione per un’operazione come quella in corso in Montenegro, contraria perfino al buon nome di una municipalizzata e, se si fanno i conti, vantaggiosa solo a fronte della realizzazione urgente della connessione con l’Italia, ovvero, della posa del cavo che dovrebbe attraversare l’Adriatico. Diciamoci perché e per chi “vantaggiosa”: perché i costi della costruzione dell’elettrodotto sarebbero finiti nella bolletta elettrica e A2A avrebbe usufruito di una infrastruttura a carico dello Stato.

E arriviamo ad oggi. Nella Legge di Stabilità in discussione al Senato ieri pomeriggio sono stati avanzati da parlamentari del Pd emendamenti per riconoscere sostegni ai cosiddetti “energivori” e produttori di energia da fossile, così da garantire ad essi un incentivo economico per l’acquisto virtuale di energia elettrica al di fuori dell’Italia ad un prezzo di favore, oltre che per la realizzazione di interconnessioni anche in un momento di overcapacity. Esiste già una legge del 2009 che promuove gli “interconnector” (siamo ormai abituati agli inglesismi quando le cose sono sospette) al costo di 500 milioni di euro l’anno prelevati dalle bollette elettriche dei cittadini. Una legge che dovrebbe decadere se davvero il nostro governo si muovesse verso le energie pulite, ma che l’emendamento sotto accusa (per quanto ci risulta contrastato al Senato solo dall’opposizione), prorogherebbe fino al 2021, sottraendo come maggiori oneri altri 2 miliardi di euro dalle utenze elettriche degli italiani.

In sostanza: trivelle, carbone e elettrodotti transmarini finirebbero per essere il biglietto da visita alla conferenza di Parigi spedito dal governo e da una municipalizzata che ha l’ambizione di regionalizzarsi e coprire l’intera Lombardia. Un accredito non certo coerente con gli impegni per la Cop 21 e con una paradossale inversione dei fini, che rendono ancora più oscuro perché dovrebbero essere i cittadini a dover finanziare opere sanzionabili e senza futuro. Importare energia prodotta in modo inquinante non fa bene all’ambiente, allontana il rispetto dei nostri impegni sul clima e contrasta con ogni dichiarazione pubblica dei nostri governanti nei consessi internazionali di fare di tutto per mantenere l’aumento di temperatura globale sotto i 2°C.

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Shale gas: dalla rivoluzione ai necrologi

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015“Nonostante tutta la propaganda di petrolieri, investitori, banche e politici lo shale gas non sarà la soluzione di nessuno dei nostri problemi energetici o occupazionali”. Lo affermava nel suo blog Maria Rita D’Orsogna più di un anno fa e io stesso sono più volte intervenuto su questo blog per sfatarne le virtù salvifiche, che ogni ad che si rispetti delle corporation energetiche italiane andava proclamando in tutti i convegni in cui si auspicava un approdo delle tecniche da scisto in Europa.

Interi dossier sono stati curati per disegnare il primato che gli Usa avrebbero conservato a lungo nel settore dell’energia, stroncando sul campo Russi, Arabi, Iraniani e l’Opec tutta. Invece due fattori – uno di natura geopolitica (l’abbassamento del prezzo del petrolio da parte dell’Arabia saudita) e l’altro di natura locale (la crescente opposizione dei movimenti locali negli Usa) – hanno capovolto le previsioni. Sono in atto opposizioni per ragioni ambientali in più parti del mondo,dalla California, al Sussex, in Bulgaria, in Algeria, nel Queensland.

Sara Stefanini e KalinaOroschakoff in un recente articolo sulla rivista Politico hanno documentato le difficoltà enormi che il metodo di fratturazione idraulica sta incontrando in Europa ancor prima di essere sperimentato su larga scala. Il film Gasland ha aperto gli occhi a molti attivisti, dando luogo a proteste organizzate per impedire l’inizio delle perforazioni. Una previsione dell’Us Energy Information Administration valutava in 18 miliardi di metri cubi il gas recuperabile in Europa, in particolare in Polonia, con il 29%, e in Francia, con il 28%. Ma in Polonia, ConocoPhillips è ormai l’ultima compagnia internazionale che ha lasciato le prospezioni e nel Regno Unito un consiglio locale di contea ha bloccato in questi mesi un progetto sostenuto a forza dal governo inglese.

Molte cose in Europa hanno preso una brutta piega per lo shale. La Russia con una campagna di informazione si è impegnata attivamente con le organizzazioni non governative e le organizzazioni ambientaliste con il doppio scopo di frenare l’espansione della tecnica e mantenere la dipendenza europea dal gas importato attraverso i gasdotti. Le preoccupazioni locali sui processi, il rumore, l’inquinamento delle acque e i terremoti, hanno preso il sopravvento, uscendo dall’irrazionalità e creando una vastissima documentazione scientifica sui danni e rischi del fracking e mettendo a nudo l’imprevidenza delle autorità nazionali, concentrate sull’energia potenziale e i benefici economici, ma non sugli effetti ambientali.

L’incertezza normativa ha fatto la sua parte: nessun Paese nel continente ha la stessa normativa e le raccomandazioni della Commissione europea per gestire i potenziali rischi ambientali non sono vincolanti e aprono la porta a varie interpretazioni. Così Bulgaria e Francia hanno vietato il fracking, mentre la Germania si interroga su quali regole stabiliscano standard ambientali difficilmente garantibili. Inoltre, non tutte le rocce di scisto sono le stesse e la geologia sul posto smentisce le previsioni di abbondanza: Conoco, Chevron ed Eni tutto abbandonato le loro licenze di esplorazione in Polonia dopo non essere riuscite a trovare quantità commerciali di gas.

Anche i costi si stanno rilevando poco attraenti. Le economie di scala devono ancora entrare in vigore in Europa. Negli Stati Uniti, la perforazione costa da 3 a10 milioni di dollari per pozzo. In Polonia, i 70 pozzi trivellati finora hanno un costo da 15 a 28 milioni di $ ciascuno. Ciò significa che i produttori di scisto avrebbero bisogno di un prezzo del gas ancora più elevato (circa il doppio di quello convenzionale) per giustificare il loro investimento. Infine, mentre negli Usa i proprietari terrieri hanno guadagnato molto dalle “royalties di scisto”, nella maggior parte dei paesi europei le licenze per un pozzo sono poco remunerate.

In conclusione, lo shale gas non è una priorità nemmeno per l’industria europea. E questa è una buona notizia, non solo per gli ambientalisti, ma per chi non vuole pagare con la distruzione della natura e con l’irreversibilità del cambiamento climatico uno sviluppo dissennato e una ricerca di competitività a tutti i costi, che portano alla dissoluzione dei legami di solidarietà tra i popoli e verso le future generazioni.

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Il carbone di A2A, sporca fuori, pulita dentro

dal Blog di Mario Agostinelli

Diversi commenti all’ultimo mio post su A2A e il carbone nella centrale compartecipata in Montenegro criticano la mia “pretesa” di avanzare riserve di carattere ambientale su operazioni vantaggiose economicamente anche se “sporche”. Vorrei innanzitutto ricordare che ex municipalizzate – ora SpA – come A2A hanno come azionisti di maggioranza i comuni che le hanno fatte nascere per gli esclusivi interessi dei loro abitanti. Di conseguenza, nei loro casi, la redditività economica non può prescindere dalla salute, dai danni climatici, dai rischi finanziari – non solo attuali – cui possono essere esposti i cittadini (in questo caso di Brescia e Milano).

In questo quadro risulta allora istruttivo valutare il resoconto dell’assemblea annuale di A2A del 10 giugno scorso in cui si è preso in esame il coinvolgimento montenegrino dell’azienda, su richiesta esplicita di un azionista critico nei confronti dell’importazione di elettricità da carbone. Seguendo le piste della domanda avanzata a nome di un comitato locale e delle risposte del Presidente, scopriamo che:

a) Andrebbe superata la diffidenza verso una attività “colonizzatrice” da parte dell’azienda milanese-bresciana. Dal che si deduce che per il management è superato l’ambito territoriale vissuto come linea guida dell’attività e che il mercato è il campo aperto in cui si giudica la strategia aziendale. Che, nel caso, può essere quella di incorporare gradualmente le aziende a partecipazione comunale di tutta la Lombardia e rischiare avventure extraterritoriali discutibili sotto molti profili, purché immediatamente redditizie (nel caso del Montenegro l’affidabilità di quel governo non è certo indubbia).

b) Il negoziato con il governo del Montenegro per continuare l’avventura del carbone verrà sottoposto a verifiche di redditività e efficienza aziendale, senza cenno alcuno alle implicazioni ambientali locali e globali della combustione di quantità elevate di lignite. E inoltre, nel caso di rottura del tavolo, è previsto un “arbitrato internazionale a Washington” per salvaguardare e dare valore attuale all’investimento realizzato nel 2009. Ci sono aspetti da non minimizzare: per esaminare la convenienza effettiva dell’operazione, occorrerebbe spiegare come si importerebbe l’energia prodotta a basso costo, se non con un elettrodotto (quello “interadriatico” approvato contro i territori abruzzesi di approdo e finanziato pubblicamente?); inoltre, se si ricorre ad un arbitrato, dove comparirebbero gli interessi dei cittadini milanesi, bresciani e montenegrini? Non è forse una delle maggiori obiezioni al negoziato tra Europa e Stati Uniti (Ttip) quella della possibilità di sottoporre a decisione esterna di natura privata i conflitti tra governi o enti pubblici e imprese? Perché proprio A2A – società ancora a maggioranza pubblica – dovrebbe spingersi in questa direzione?

c) La paradossale inversione dei fini dell’operazione Montenegro, rende ancora più oscure le ragioni del perché siano i cittadini a doverla finanziare: importare energia gravida di CO2, non fa bene all’ambiente, allontana il rispetto dei nostri impegni sul clima e contrasta con ogni dichiarazione pubblica dei nostri governanti come quella al G7 in Germania, dove ci siamo impegnati a fare di tutto per mantenere l’aumento di temperatura globale sotto i 2°C. Se da questi impegni scaturisse – che so – una Carbon Tax, dove finirebbe la valutazione di mercato espressa nell’immediato e che da molti è ritenuta determinante ed esaustiva?

Con le tendenze sempre più accentuate al decentramento della produzione energetica e all’ottimizzazione su base territoriale dei cicli di acqua, energia, cibo e consumo di suolo, si sente il bisogno di interventi pubblici e partecipati, sottratti alla sola dimensione del mercato. La privatizzazione in corso delle municipalizzate dell’energia, l’estremizzazione dell’autonomia manageriale, lo scarso controllo su di essa dei comuni e dei cittadini, facilitano anziché contrastare l’ancoraggio al modello dei fossili. A2A dovrebbe rivolgere il suo futuro industriale e la sua strategia innovativa alla componente idroelettrica e rinnovabile assai più che a quella fossile-gas-inceneritori-teleriscaldamento. Alle giunte comunali nessun suggerimento per il dopo Expo dallo slogan “energia per la vita”?

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Sequestrata la centrale a carbone di Vado Ligure

Intorno alle 13 di oggi i carabinieri sono entrati nella centrale a carbone Tirreno Power di Vado Ligure e Quiliano e l’hanno posta sotto sequestro per attuare l’ordinanza del Giudice delle indagini preliminari, Fiorenza Magni,  che prevede lo spegnimento dei gruppi a carbone e il commissariamento della centrale

La Giorgi imputa a Tirreno Power si imputa l’assenza del sistema di monitoraggio a camino, che avrebbe dovuto essere realizzato entro il 14 settembre 2013, ma dice che «una volta attuate le prescrizioni la centrale potrà ripartire».

Secondo l’ordinanza c’è stato un «comportamento negligente» e «i dati sulle emissioni provenienti dalle centraline sono inattendibili». Inoltre «le indicazioni dell’Aia non sono state rispettate».

Santo Grammatico, presidente di Legambiente Liguria, ha dichiarato: «Ben venga il sequestro e la chiusura degli impianti a carbone della centrale di Vado Ligure. Negli ultimi mesi i controlli effettuati da organismi istituzionali e la stessa Procura avevano evidenziato le problematiche sanitarie ed ambientali prodotte dalla presenza della centrale su questo territorio. Non è un caso che i capi di imputazione per gli indagati siano il disastro ambientale e l’omicidio colposo. Da anni denunciamo il rischio di convivenza tra la popolazione locale e le attività produttive legate al carbone, uno dei peggiori combustibili ancora oggi utilizzato per la produzione di energia elettrica».

Secondo Stefano Ciafani, vicepresidente di Legambiente, «il sequestro dell’impianto della Tirreno Power di Vado Ligure (Sv) rappresenta un importante passo avanti nella lotta all’inquinamento ambientale e sanitario da anni denunciato in Liguria. Ora ci aspettiamo che la centrale a carbone di Vado Ligure venga riconvertita con progetti utili e sostenibili e che possa così diventare un esempio da seguire anche per gli altri impianti industriali vecchi e inquinanti presenti ancora in Italia, che arrecano solo danni all’ambiente e alla salute dei cittadini. Dall’altra parte è però necessario che ci sia un cambio di rotta nella politica energetica di questo Paese. È ora di dire basta ai sussidi per le fonte fossili e alle politiche a favore del carbone, bisogna invece optare per una politica energetica che guardi alle fonti rinnovabili e alla riqualificazione energetica del patrimonio edilizio italiano. Al premier Renzi cogliamo l’occasione per ricordare che si possono recuperare le risorse tagliando i sussidi alle fonti fossili».

Anche l’assessore all’Ambiente della Regione Liguria, Renata Briano, ha sottolineato che «le inottemperanze e le inosservanze alle prescrizioni dell’Aia ( l’autorizzazione ambientale integrata) che hanno motivato il provvedimento sono contenute in un verbale di Ispra dopo una visita fatta insieme con i tecnici di Arpal alla centrale. Il dipartimento Ambiente della Regione Liguria aveva già precedentemente inviato, fra l’altro, una serie di lettere al Ministero dell’Ambiente, in cui si chiedeva di verificare l’esistenza di inadempienze ambientali sull’Aia stessa».

I sindacati sono preoccupati per i circa 700 i lavoratori della  produzione di energia o che lavorano per la Tirreno Power di Vado Ligure e Quiliano, Maurizio Perozzi della Rsu, ha detto al Secolo XIX: «Siamo allibiti per la portata del provvedimento deciso dal tribunale e richiesto dalla Procura. Già domani chiederemo di essere ricevuti dal Prefetto Gerardina Basilicata per poi essere convocati urgentemente dal ministero. Una situazione del genere è decisamente pesante e non ce l’aspettavamo». Pino Congiu, segretario della Uilcem di Savona, però ammette che ci sono diverse cose che non vanno: «Sono i due gli aspetti che gravano sulla centrale. Uno riguarda le rigorose prescrizioni imposte dall’Aia. L’altro è la crisi che da tempo grava anche in questo settore. Non vorremmo che questa chiusura potesse avere delle conseguenze gravi anche sui lavoratori».

 

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