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Macron chiuderà 14 reattori nucleari entro il 2035

Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano

Il cambiamento climatico è il tipo di minaccia di cui le nostre menti non sono in grado di preoccuparsi. Sembra distante e che possa accadere nel futuro e ad altre persone: è invece tempo che il pubblico si convinca della rilevanza e dell’urgenza del problema. Arrivare a occuparsene a tempo scaduto e con una situazione irrimediabile e pericolosa ci ridurrebbe a subire limitazioni e imposizioni d’emergenza, con danno della libertà e della democrazia. Lo ripetono i climatologi di tutto il mondo, ma non è un problema per il trio ConteSalviniDi Maio, tutto intento a respingere migranti. Eppure se ne è accorto Emmanuel Macron e se ne sta capacitando la Francia, dove è andato in scena il primo atto di una rappresentazione in cui finale e repliche sono imprevedibili.

Ridurre le emissioni richiede che le persone confidino in autorità competenti, oneste e giuste e che tengano conto, quando decidono, di tutte le opinioni. Le barricate dei “gilet gialli” contro il caro gasolio, calato da un governo assai poco credibile dopo che aveva imposto duri colpi sul versante sociale (Macron era sceso al 25% di gradimento quando sono scoppiati i disordini), hanno indotto il presidente a fare un tentativo un po’ maldestro di recuperare un’immagine di ingiustizia sociale con un po’ più di giustizia climatica. La questione energetica giocata di fronte alla piazza è così balzata all’onore delle cronache, pur con un carico di ambiguità che analizziamo prima di trarne qualche insegnamento.

L’aumento del gasolio alla pompa era stato presentato ai francesi come misura per ridurre le emissioni climalteranti e l’inquinamento. Dopo giorni di proteste a volte violente per i prezzi elevati dell’energia, Macron ha proposto un meccanismo per rivedere la tassa sul carburante nel caso di aumento dei prezzi del petrolio sul mercato globale. Barcamenandosi tra condanna dei “facinorosi” e comprensione dei “concittadini”, ha anche avanzato l’offerta di tre mesi di consultazione con i gruppi di attivisti e associazioni, sia per scoraggiare le manifestazioni sia per “trovare il modo migliore per gestire i crescenti costi energetici”.

Ma da dove vengono i costi più alti dell’energia fossile e nucleare se non dalle crescenti preoccupazioni per la tutela dell’ambiente, del clima e della salubrità della popolazione? Il 27 novembre Macron ha fatto, più o meno coscientemente, un passo di grande rilievo, forse non voluto, ma altamente significativo: ha disegnato la transizione energetica dal vecchio sistema centralizzato fossile e nucleare verso il decentramento della rete elettrica, alimentata in gran parte da sole, acqua e vento. L’annuncio ha invaso i media di tutto il mondo: “Entro il 2035 chiuderanno 14 reattori nucleari”. Un botto, visto che la Francia dipende dall’energia nucleare più di qualsiasi altro Paese, ricavando circa tre quarti della sua elettricità da 58 reattori distribuiti in 19 centrali atomiche. Un botto subito messo in relazione alla necessità di stoppare la vicenda dei “giubbetti gialli”. Tuttavia la cronaca e le reazioni, sotto una pluralità di punti di vista, mentre ridimensionano l’annuncio lo arricchiscono di molte varianti interessanti, anche se contraddittorie.

François Hollande aveva già dichiarato che la quota di nucleare nel mix energetico del Paese sarebbe scesa dal 71% circa al 50% entro il 2025. Lo afferma Emiliano Bellini, che descrive l’iter dei governanti francesi rispetto al moloch del nucleare. Il successivo ministero per la transizione ecologica e inclusiva (macroniano) ha previsto la chiusura di sole sei centrali nucleari entro il 2028, mentre altri sei reattori nucleari verrebbero chiusi entro il 2035. In questo progetto l’obiettivo del 50% verrebbe raggiunto più tardi del previsto e, in teoria, la quota di energia nucleare potrebbe rimanere invariata fino al 2028. Si tratta dello scenario più ottimistico per lo sviluppo di energia pulita, perché invece il ministero delle Finanze (anch’esso macroniano) prevede la chiusura di nove reattori entro il 2035 e la costruzione di quattro nuovi entro il 2040. L’obiettivo del 50% sarebbe raggiunto solo entro il 2040 con un contemporaneo svecchiamento e rilancio.

Macron si è mosso tra i due ministeri, trovando una posizione di mezzo: la Francia chiuderà 14 dei 58 reattori (il 50% della potenza totale) attualmente in funzione nel Paese entro il 2035 (tra quattro e sei entro il 2030), oltre ai due della centrale di Fessenheim – la più vecchia del Paese – che cesseranno di funzionare nell’estate del 2020. L’eredità di Hollande, sposata in campagna elettorale dal nuovo presidente, viene – quatta quatta – spostata di dieci anni in avanti. Le affermazioni di contorno poi, vanno lette con cura: “Ridurre il ruolo dell’energia nucleare non significa rinunciarvi”, anche se non verrà adottata nessuna decisione immediata sulla costruzione di nuovi reattori di ultima generazione. Tuttavia le chiusure previste avranno come condizioni che “la sicurezza degli approvvigionamenti sia assicurata” e che “i vicini europei accelerino la loro transizione energetica”. Macron ritarda la riduzione della quota nucleare di un decennio, ma, altro botto, annuncia un obiettivo solare di 45 GW entro il 2030.

Bisogna riconoscere subito un’importante novità: le fonti rinnovabili previste sono sostitutive di fossili e nucleare, anche se la Francia manterrà una quota di nucleare al centro del suo sistema elettrico. Tanti sono gli spunti su cui riflettere, mentre molto del nuovo strombazzato sulla piazza ha ancora un tratto aleatorio. Su tre questioni mi voglio comunque soffermare:

1. Il nucleare che conosciamo è finito anche in Francia. I reattori invecchiano, i costi di dismissione e stoccaggio sono incomputabili, mentre il costo del kWh rinnovabile è ormai definitivamente inferiore.

2. La questione climatica comincia ad assumere contorni che pesano sul quotidiano, non solo per i danni e il degrado naturali, ma anche per i costi da sopportare nell’immediato e nel lungo periodo. Il mondo rurale che usa l’auto a caro prezzo e gli indigenti che reclamano salari e pensioni più equi sono scesi in piazza reclamando maggiore potere d’acquisto e occupazione dignitosa. Gli uni e gli altri non credono che l’odierno modello di sviluppo inalterato li porti lontano.

3. Il settore nucleare francese dispone oggi di 220mila posti di lavoro. Da qui al 2035 la metà di essi verrà riconvertita con un saldo occupazionale aggiuntivo se saranno sostituiti da efficienza e rinnovabili. Lo stesso non si può automaticamente dire dei rami manifatturieri che saranno falcidiati dai sistemi 4.0.

Arnaud Gosseement, un noto avvocato specializzato in legislazione ambientale, dopo aver apprezzato la chiusura certa di Fessenheim ai confini tedeschi, ha affermato che l’importanza degli annunci del 27 novembre è relativa, in quanto forniscono solo linee guida generali su una bozza di strategia energetica. Può darsi, ma io segnalo una discriminante rispetto al passato, dovuta ai fatti e alle novità del tempo assai più che alle furbizie politiche.

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Verso la COP24: scienziati e governi su strade diverse

di Roberto Meregalli

Non ha trovato molto spazio sui mass media la notiziadella pubblicazione (l’8 ottobre corso) della Sintesi per DecisoriPolitici dello “SpecialReport on Global Warming of 1,5 °C”, che costituirà, ovviamente,il riferimento scientifico per la Conferenza delle Parti (COP24) dellaConvenzione quadro dell’ONU sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) che avrà luogoin Polonia a fine anno (Katowice, 2-13 dicembre 2018).

Agli scienziati che per conto della Nazioni Unite seguono le vicende dei cambiamenti climatici, era stata chiesta un’analisi sulle reali possibilità di contenere l’innalzamento della temperatura globale ben al di sotto dei 2 gradi (rispetto ai livelli preindustriali), limitando l’aumento a 1,5 °C.

E la loro risposta è che limitare l’aumento a mezzo grado in più (siamo già ora a un grado in più), si può ancora fare ci eviterebbe un sacco di problemi.

Ad esempio, entro il 2100 l’innalzamento del livello del mare su scala globale sarebbe più basso di 10 cm con un riscaldamento globale di 1,5 °C rispetto a 2 °C. La probabilità che il Mar Glaciale Artico rimanga in estate senza ghiaccio marino sarebbe una in un secolo, mentre sarebbe di almeno una ogni decennio con un riscaldamento globale di 2 °C. Le barriere coralline diminuirebbero del 70-90% con un riscaldamento globale di 1,5 °C, mentre con 2 °C se ne perderebbe praticamente la totalità (oltre il 99%).

Agire dunque per evitare il peggio, questo è il messaggio. Messaggio terribile da recepire in un mondo di irresponsabili e dilettanti al potere. Purtroppo non si raccolgono voti praticando responsabilità e visione del futuro, si raccolgono esattamente seguendo la strada contraria.

Esemplare il fatto che il Consiglio Ambiente dell’UE, svoltosi all’indomani della diffusione del Rapporto speciale dell’IPCC, nonostante il Parlamento europeo avesse chiesto la riduzione delle emissioni auto del 40% al 2030, abbia faticosamente stabilito di ridurre le emissioni delle auto del 15% al 2025 e del 35% entro il 2030.

La verità è che dal 2030 non dovremmo più avere incommercio auto diesel o benzina! Tornando a casa nostra la situazione è di stasi totale.

Tutto fermo nella decarbonizzazione del sistema energetico. Viviamo della rendita del boom del solare del 2011 (governo Berlusconi IV) e su quella scia abbiamo raggiunto con cinque anni di anticipo i target europei del 2020. Ma quelli stabiliti per il 2030 al momento rimangono una chimera. Lo continuano a ricordare i rapporti trimestrali dell’Enea, il terzo del 2018 ribadisce che per il quarto anno consecutivo, la quota di FER sui consumi finali potrebbe perfino ridursi, continuando ad oscillare intorno al 17,5% raggiunto nel 2015. Rimaniamo inchiodati a quell’anno.

La prima metà del 2018 ha confermato la tendenza registrata negli ultimi tre anni riguardo all’evoluzione della produzione da fonti rinnovabili. Secondo le elaborazioni dell’osservatorio FER (su dati Terna) la nuova potenza eolica, fotovoltaica e idroelettrica connessa nei primi sei mesi del 2018 è stata pari a 334 MW, una variazione inferiore del 39% rispetto ai 551 MW installati nella prima metà del 2017. Viaggiamo ad un ritmo di incremento di installazioni di fotovoltaico ed eolico, le tecnologie da cui sono attesi i maggiori contributi per il raggiungimento degli obiettivi 2030, pari allo 0,5% – 2%. Una inezia rispetto ai target della Strategia Energetica Nazionale (SEN) al 2030, considerata pessima dall’opposizione ora al governo, ma i cui obiettivi green appaiono ora un miraggio nel deserto delle proposte legislative concrete.

Quello che si registra di nuovo è solo l’ok al gasdotto TAP, quindi un atto perfettamente in linea con le linee pro-gas di tutti i precedenti esecutivi; e che si sarebbe finiti per approvarlo nonostante le tonnellate di dichiarazioni contrarie lo si era capito quando Tony Blair (consulente della società partecipata da British Petroleum, dalla norvegese Statoil e dal gruppo pubblico dell’Azerbaigian Soca), ai primi di settembre era sceso in Italia ad incontrare Matteo Salvini (inutile sottolineare che l’incontro non sia avvenuto col ministro della attività produttive sotto la cui competenza ricadrebbe il capitolo energetico). Salvini aveva commentato che col nuovo gasdotto le bollette degli italiani sarebbero state meno care.

In verità il prezzo del gas è aumentato di parecchio quest’anno e di conseguenza anche quello dell’elettricità perché “a fare” il prezzo dell’elettricità è ancora il gas essendo ancora il re della generazione. A settembre il prezzo dell’energia in borsa (il Pun) ha toccato i massimi da ottobre 2012, salendo a 76,32 €/MWh, più che doppio rispetto ad un anno fa (+57,0%). Aumento conseguenza di quello del gas che a settembre 2018 ha aggiornato il record dal 2014 con quasi 30 €/MWh (+11 €/MWh su settembre 2017). Ergo il futuro delle nostre bollette non è per nulla roseo, chiedetelo all’ARERA, l’Autorità competente.

Non è di consolazione constatare che non siamo in controtendenza ma allineati col trend degli altri paesi. Il Rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia sugli investimenti energetici globali ha confermato che tutto il mondo procede ad un passo che non permetterà di raggiungere gli obiettivi energetici e climatici, fissati dall’Agenda ONU 2030 e dall’Accordo di Parigi.

Gli investimenti globali combinati nelle energie rinnovabili e nell’efficienza energetica sono diminuiti del 3% nel 2017, quelli nelle energie rinnovabili, che rappresentano i due terzi delle spese per la produzione di energia elettrica, sono addirittura calati del 7%. Certo è anche conseguenza del calo dei costi ma non è solo questo.

Terribile che gli investimenti delle imprese di proprietà statale siano rimaste più legate a petrolio e gas e alla produzione di energia termica di quanto non lo siano state le imprese private. Come dire che oggi è il “mercato” a guidare la generazione rinnovabile e non le istituzioni pubbliche. E’ la discesa dei costi del fotovoltaico passati dai 72$ per MWh dell’asta 2014 in Brasile ai soli 18$ dell’asta 2017 in Arabia Saudita a rendere il fotovoltaico competitivo e “amato” dalle utility, è il fatto che col vento e col sole il ritorno degli investimenti è semplicemente più rapido rispetto alle fossili.

In questo momento storico in cui sembra mancare la capacità, direi la consapevolezza, che solo decisioni collettive e responsabili possono condurci a soluzione di problemi che sono planetari viene da chiedersi se l’unica speranza sia da riporre nelle mani di un business illuminato.

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Città a prova di clima: il caso di Roma

a cura di PierLuigi Albini – 1 ottobre 2018

1. Per una diversa “scienza della città”

Nella storia dell’urbanistica e nelle sue teorizzazioni è talvolta emersa l’idea di una scienza della città come paradigma in grado di far convergere diverse discipline verso una pianificazione che governi in modo razionale l’urbanizzazione. Ma di ciò si vedrà più avanti, intanto va ricordato che è a Novecento inoltrato che l’urbanistica ha perso le sue radici di disciplina che comprende il fattore umano come fondamento. Ma quello che interessa prima di tutto sottolineare è che – a parte la necessità di rivedere la legislazione in materia e la critica dell’assoggettamento dell’interesse pubblico a quello privato, avvenuto negli ultimi decenni – nessuna delle precedenti nozioni di scienza della città o di cultura della città – a seconda dei punti di vista – teneva in considerazione l’emergenza climatica come perno necessario di un insieme di competenze progettuali e di decisioni politico-amministrative in grado di pensare delle città a prova di clima, appunto; e quindi di fare fronte ad uno dei più gravi problemi del secolo XXI: forse il più grave.

Secondo il giudizio di Henri Lefebvre – sociologo, filosofo e urbanista – “a parte pochi meritevoli sforzi, l’urbanistica non ha assunto lo statuto di un vero pensiero della città. Anzi, si è man mano rattrappita fino a diventare una sorta di catechismo per tecnocrati”. Va tuttavia detto che – come si vedrà nel paragrafo successivo – oggi il nesso clima-urbanistica è diventato una questione di vita o di morte e da qui la necessità di applicare nella pianificazione (leggasi Piani Regolatori Generali e decisioni urbanistiche) la valutazione dei servizi ecosistemici come parte essenziale di una lotta di contrasto al cambiamento climatico; e quindi di cambiare completamente l’approccio progettuale ed esecutivo a vari livelli: “diritto alla città e diritto alla natura tendenzialmente coincidono”.

Infatti, se la cosiddetta sostenibilità, che vede nelle città un attore essenziale per la sua realizzazione e come conseguenza obbligata al contrasto del cambiamento climatico, non è solo un vacuo slogan, occorre dire ad alta voce che si tratta di una questione di sopravvivenza, di fronte alla quale appare delittuoso e suicida continuare con le vecchie e incontrollate pratiche governate dagli interessi privati. Qui, proprio a proposito di urbanistica, si inserisce una lunga citazione di un saggio del 2005 che conserva tutta la sua attualità.

“Il fatto è che negli ultimi decenni l’urbanistica, da strumento di garanzia dei diritti dei cittadini e di contenimento dello sfruttamento incontrollato del territorio da parte della rendita, è divenuta uno strumento di garanzia della rendita e di esclusione dei cittadini dai processi di governo del territorio. Al disinteresse culturale e politico fa riscontro la debolezza e l’obsolescenza della disciplina: per molte ragioni risulta ormai inadeguata la strumentazione offerta dalla legge fondamentale (n°1150/42), mentre tuttora disattesa è quella riforma dell’urbanistica che si invoca da tempo e che dovrebbe assumere la fattispecie di legge quadro nazionale per aggiornare e mettere ordine nella materia, senza però derogare ai principi costituzionali sull’uso del territorio e sulla tutela dei beni ambientali [e per rispondere all’emergenza climatica, nda]. Rimane quindi tuttora irrisolto l’insieme dei problemi (di ordine istituzionale, fondiario, ambientale, funzionale) accumulatisi nel tempo. […]

Rimangono [quindi] aperte tutte le questioni derivanti dalla crescente complessità dei problemi di governo del territorio, anche perché il dibattito si è molto affievolito, al più limitato agli ambienti specialistici; i cittadini “fruitori” del territorio sono stati del tutto esclusi.

Come è noto, fino dagli anni sessanta e settanta la materia è stata oggetto di un acceso confronto soprattutto ideologico, mentre con la perdita di centralità dello Stato (sul principio del suo ruolo centrale si basava la legge 1150/42) e il progressivo processo di decentramento istituzionale si è sviluppato un crescente conflitto, sia all’interno dei diversi soggetti istituzionali sia tra questi e i soggetti privati (basti pensare alle vicende irrisolte del regime giuridico delle espropriazioni, dei vincoli, della disciplina generale dei suoli edificabili).

Nasce così negli anni ’90 l’urbanistica negoziata in cui al criterio ordinatore basato sulla gerarchia fra i piani si sostituisce quella per campi di interesse di volta in volta emergenti, mentre i nuovi strumenti e i nuovi istituti (Programma di Riqualificazione Urbana, Programma di Recupero Urbano, Programmi Integrati di Intervento, Contratti d’Area, Patti Territoriali, Prusst) vengono utilizzati, talvolta anche con finanziamento pubblico, come variante automatica agli strumenti urbanistici ordinari, fino a che il piano si riduce ad una meccanica e semplicistica sommatoria di progetti.

Con il processo di riforma (o, meglio, controriforma, nda) che ha avuto inizio a partire dal 1990 si è passati così da un sistema nel quale allo Stato era assegnato un ruolo di assoluta centralità a uno nel quale convivono una pluralità di centri decisionali (non solo in materia di diritto urbanistico) titolari di proprie attribuzioni.

Quindi, non solo le competenze urbanistiche dello Stato sono, evidentemente, ormai residuali, ma la stessa materia urbanistica non è più quella totalizzante pensata negli anni Trenta, non riguarda più la universitas dello spazio fisico e umano, ma è subordinata a un complesso di decisioni relative ad altri interessi pubblici specializzati insistenti sul territorio: la difesa del suolo (attraverso i piani di bacino), la protezione della natura (attraverso i piani dei parchi), la tutela dei valori estetici (attraverso i piani paesistici), e, accanto a questi, gli strumenti delle politiche di settore (i piani dei trasporti, dell’energia, dei rifiuti, delle cave, ecc.).”

Ora, la questione centrale è che l’insieme di questi piani non sono messi a sistema e le decisioni e gli atti amministrativi procedono appoggiandosi dunque a questo o a quell’aspetto del territorio e secondo le competenze burocratiche, nella pressoché totale ignoranza dei contesti e in assoluta carenza di coordinamento.

Tutto ciò è accompagnato dal passaggio dall’urbanistica concertata all’urbanistica contrattata, in cui – come detto – il ruolo dell’interesse pubblico è sempre più marginale o viene comunque piegato a quello privato utilizzando una normativa contraddittoria e saltando spesso allegramente le procedure tuttora prescritte dalla regolamentazione.

Mentre a livello nazionale sono sempre attese una legge sull’urbanistica che rimetta ordine nella normativa e una legge ormai urgente sul consumo zero di suolo, a livello regionale talune leggi che, per esempio, sembrano promuovere la cosiddetta rigenerazione urbana sono viziate da meccanismi premiali per l’aumento di cubature, per la concezione di un intervento non di sistema e multilivello (quartieri), nonostante si dichiari che i “programmi di rigenerazione urbana [sono] costituiti da un insieme coordinato di interventi urbanistici, edilizi e socioeconomici volti, nel rispetto dei principi di sostenibilità ambientale, economica e sociale […]” Quel che è infatti accaduto finora Roma è l’abbattimento e la ricostruzione di palazzine del Novecento di pregio. Insomma, si prevede una “offerta” normativa per ampliamento e ricostruzioni accompagnate da indirizzi programmatici riguardanti anche l’ambiente, ma non è stato recepito il concetto di rete ecologica ormai essenziale per ogni intervento multilivello. Nella legge regionale del Lazio 18 luglio 2017, n. 7, per esempio, la parola “clima” appare una sola volta a proposito del Piano agricolo regionale e non riguarda le città. Inoltre, non c’è un collegamento sistematico fra i vari aspetti di una nuova pianificazione (energia, trasporti, dissesto idrogeologico, acqua e così via). Ancora Claudio Canestrari, scriveva nel saggio citato:

“Deregolamentazione urbanistica, concertazione procedurale, delegittimazione della pianificazione di area vasta, marketing urbano spettacolare e privo di contenuti reali, sono i fattori messi in campo senza valutare gli elementi di coerenza territoriale complessiva e gli effetti economici, sociali e ambientali di medio/lungo periodo. Devastanti sono gli effetti della dispersione insediativa associata alle procedure deregolative.

Eppure sulla quantificazione dei costi collettivi e dei costi pubblici derivanti da tali politiche gli studi sono numerosi, sia in Italia sia in taluni contesti europei e perfino nord americani […]”.

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Libertà di parola, la solitudine del mondo operaio

Sentenza sui licenziamenti a Pomigliano

Mario Agostinelli ex segretario Gen. CGIL Lombardia

La vicenda del rilicenziamento dei cinque operai di Pomigliano da parte di FCA è noto per l’esposizione, da parte di manifestanti fuori dal loro orario e luogo di lavoro, di un fantoccio di Marchionne, che in effige si impicca da sé, dicendosi pentito per i suicidi che erano seguiti alle angherie sui dipendenti da lui segregati in un reparto confino a Nola. All’immediato licenziamento degli operai aveva fatto seguito una sentenza di reintegro da parte del tribunale di Napoli, contro cui FCA ha fatto ricorso in Cassazione.

La sentenza di questo autorevole organo della Magistratura, che ha articolato senza pretese di equidistanza le motivazioni a sostegno dell’allontanamento dei cinque dal lavoro e dal salario maturato, va considerata come un segno amaro e preoccupante dei tempi. Un segnale che va contrastato nella sostanza, per i valori di cui si fa interprete contro l’autonomia del lavoro e a favore della supremazia dell’impresa. E questa asimmetria avanza giorno dopo giorno nella solitudine del mondo operaio e proprio anche quando i contendenti continuano a confliggere aspramente. Questo avviene nella disattenzione dell’opinione pubblica e, purtroppo, in assenza, dopo l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, di un arbitro che restituisca simmetria al diritto al lavoro rispetto agli interessi dell’impresa. Vengono oggi ridefiniti nella pratica – e anche purtroppo nella più recente giurisprudenza – vincoli non più in sintonia con l’art.1 o l’art. 21 della Costituzione, come nel caso del malinteso “obbligo di fedeltà” da parte della lavoratrice o del lavoratore cui ha fatto riferimento la sentenza della Cassazione.

Diciamolo con nettezza: un obbligo di fedeltà nel rapporto di lavoro che non sia quello della segretezza o del know-how dell’impresa, appare come un “valore apocrifo”, tale per cui l’adesione ad un contratto di lavoro consegnerebbe le convinzioni personali al giudizio dell’impresa. Nel caso in questione si è innalzato il potere dell’azienda al di sopra dello Statuto dei Lavoratori e in contrasto con l’art. 21 della Costituzione, che tutela la libertà di opinione in ogni sua manifestazione, attuando così la rinuncia di condizionare il mercato a tutela dei lavoratori come corpo sociale dotato di diritti inalienabili una volta conquistati.

Vero è che il caso del licenziamento in ultima istanza dei cassintegrati Fiat, colpevoli di aver espresso, anche in modo brusco, dolore e rabbia per il suicidio di tre compagni di lavoro, si presenta a noi tutti come un fatto di straordinaria importanza sul piano della libertà e di quella democrazia “che ha varcato – come ripeteva Vittorio Foa – i cancelli della fabbrica”. Non si tratta, quindi, di uno sgradevole episodio di relazioni industriali o di provvedimenti attinenti ai comportamenti di questa o quella organizzazione sindacale.

 Ormai trova corso anche in settori della magistratura la rimozione dell’intralcio che il cuneo dell’art.18 della legge 300 poneva tra l’impresa e il lavoro, affidando il ruolo di arbitro nei licenziamenti senza giusta causa al potere e al rispetto della Costituzione, assicurato non dall’impresa o dal sindacato, ma dalla garanzia statuale messa in atto dal Giudice. Nella sentenza della Cassazione, che cassa, su ricorso della FCA, le decisioni del tribunale di Napoli sul reintegro dei 5 manifestanti licenziati, rimane in ombra quella responsabilità sociale fatta valere dal “terzo potere” dello stato contro il sistema delle imprese e il dispotismo padronale in fabbrica.

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Un ricordo di Luigi Luca Cavalli Sforza

di Telmo Pievani

Un maestro lo vedi dalla libertà e dalla curiosità. Di lui ricordo un insegnamento cruciale: quando intravedi un tema di ricerca promettente in cui ancora nessuno si è cimentato – diceva – quella è la direzione in cui puntare senza remore. Io ci ho provato con la mia filosofia della biologia, e mi è andata bene. Lo devo anche a quel consiglio, benché Luca Cavalli Sforza fosse molto sospettoso sul ruolo e sull’utilità della filosofia. Lo rassicuravo dicendogli che nella mia di filosofia c’era ben poca metafisica, ma non bastava. Provavo a cavarmela dicendogli che nella sua opera di ricercatore c’era un sacco di ottima filosofia della scienza, da lavorarci per anni. Ed ecco che allora tornava per un attimo quel suo sorriso intriso di curiosità e di sempre nuove domande di ricerca.

Oggi tantissimi ricercatori in tutto il mondo lavorano all’ombra delle sue intuizioni. Nessuno meglio di Luigi Luca Cavalli Sforza, il grande genetista spentosi il 31 agosto all’età di 96 anni a Villa Buzzati di Belluno, ha incarnato la figura del pioniere, di colui che inaugura campi di studio prima inesplorati e li lascia in eredità a intere generazioni di continuatori. Forse anche perché era alto, elegante e carismatico, ora che non c’è più vien da pensare ai giganti della scienza e a noi nani che guardiamo lontano arrampicandoci sulle loro spalle.

Dopo gli studi di medicina a Torino con Giuseppe Levi e a Pavia negli anni delle leggi razziali e poi della guerra, Cavalli Sforza dal 1942 fu introdotto allo studio della genetica di drosofila da un maestro del calibro di Adriano Buzzati Traverso, fratello di Dino. Fu Buzzati Traverso, pare, a suggerirgli di aggiungere come secondo nome Luca, con cui tutti lo chiamavamo. Il legame di una vita con la famiglia Buzzati sarà sancito dal suo matrimonio con una nipote dei Buzzati, Alba Ramazzotti, che lo seguirà per tutta la sua carriera e gli darà quattro figli.
Fra il 1948 e il 1950 lavorò a Cambridge, sotto la guida di Ronald A. Fisher, insigne statistico e tra i fondatori della genetica delle popolazioni. Con il microbiologo Joshua Lederberg, poi Nobel nel 1958 a 33 anni, Cavalli Sforza studiò l’allora sconosciuto sesso dei batteri, cioè lo scambio orizzontale di pacchetti di informazione genetica tra un batterio e l’altro, dando contributi fondamentali. Dal 1951 ricoprì uno dei primi insegnamenti di Genetica e Microbiologia in Italia, a Parma, dove cominciò ad appassionarsi alla genetica umana. Qui intuì che i nostri geni recano con sé preziose tracce della storia umana profonda e degli antichi spostamenti di popolazioni.
Fiutò questa pista a modo suo, mescolando come nessuno aveva fatto prima dati provenienti da discipline diverse: analisi dei gruppi sanguigni, ricerca di marcatori genetici, registri parrocchiali, storia demografica, alberi genealogici e indagini sulle distribuzioni dei cognomi (anche dai buoni vecchi elenchi telefonici). Collaborò con l’Istituto Sieroterapico Milanese e dal 1962 fu professore di ruolo all’Università di Pavia. Divenne intanto antropologo anche sul campo, guidando spedizioni di ricerca sui cacciatori raccoglitori khoi-san del Kalahari e prima sui suoi amati popoli pigmei dell’Africa centrale, campioni di sostenibilità e saggezza ambientale. L’incontro con la diversità umana reale lo convinse sempre di più che attraverso la lente delle differenze genetiche umane fosse possibile ricostruire l’albero delle separazioni storiche tra i popoli della Terra e la diffusione dei geni tra le popolazioni tramite mescolanze e migrazioni.

Non sempre in armonia con le logiche accademiche italiane, nel 1971 Luigi Luca Cavalli Sforza lasciò l’Italia per la cattedra di Genetica delle popolazioni e delle migrazioni a Stanford, dove assunse la guida di un programma di ricerca mondiale che mirava a ricostruire per via genetica niente meno che l’albero genealogico dell’umanità. Le analisi sempre più raffinate sulla variabilità umana (sul DNA mitocondriale, sul cromosoma Y e poi sull’intero genoma) lo portarono a scoprire che la specie Homo sapiens ha avuto un’origine unica, africana e recente, confutando il vecchio modello che prevedeva centri multipli di origine graduale in differenti regioni. La sua idea, poi confermata e precisata, fu che una grande diaspora fuori dall’Africa aveva prodotto, circa 60mila anni fa, il meraviglioso ventaglio delle popolazioni umane attuali e passate, diversificando i loro geni, ma anche le culture e le lingue del mondo. Geni, popoli e lingue è uno dei suoi libri di maggior successo.
Se questo è il quadro dell’evoluzione umana recente, significa che siamo tutti figli di stratificazioni migratorie successive, dall’Africa all’Eurasia, e poi da questa all’Australia e alle Americhe. Tutti migranti, insomma, e tutti discendenti da un piccolo gruppo di pionieri africani. Le differenze genetiche tra due esseri umani presi a caso nel mondo sono comunque minime. Ne discende, e Cavalli Sforza lo capì subito, che la separazione dell’umanità in “razze” ben distinte non regge, perché la variabilità genetica umana si distribuisce in modo continuo a partire dall’Africa dove ce n’è di più.
Collaborando con archeologi, antropologi e linguisti, forte della sua preparazione matematica e statistica, cominciò a utilizzare le comparazioni genetiche per ricostruire anche migrazioni più recenti, come quella degli agricoltori mediorientali che arrivarono in Europa portando con sé fisicamente le loro innovazioni, e per definire la struttura genetica di regioni più limitate (Italia compresa, crogiuolo di diversità biologiche e culturali). Nel 1994, insieme a Paolo Menozzi e Alberto Piazza, diede alle stampe un atlante monumentale che ancora oggi è un riferimento: Storia e geografia dei geni umani. Qualche anno prima, con Marcus Feldman a Stanford aveva proposto la prima teoria quantitativa della trasmissione culturale, poi aggiornata nel libro L’evoluzione della cultura.
Cavalli Sforza nella seconda metà del Novecento ha contribuito in modo decisivo alla maturazione professionale e tecnologica della genetica mondiale. Fin dal 1991 fu il primo promotore e direttore dello Human Genome Diversity Project, cioè lo studio comparato delle variazioni del genoma all’interno della nostra specie. Si trattava in sintesi di esplorare non soltanto un singolo genoma “medio”, ma la diversità effettiva dei genomi umani dispersi nel mondo, con importanti implicazioni per il miglioramento delle nostre conoscenze mediche e storiche.
Il ruolo delle migrazioni in archeologia e il parallelismo tra albero genealogico dei geni e albero di diversificazione delle lingue gli furono contestati, ma comunque la si pensi erano idee feconde. Una delle sue ultime intuizioni scientifiche, una decina di anni fa, fu di rara eleganza. Scoprì che la deriva genetica, cioè il campionamento casuale e la riduzione di variabilità genetica dovuti alla separazione di piccole popolazioni, aveva lasciato una traccia limpida in tutti i genomi del pianeta. La variabilità genetica umana infatti decresce progressivamente mano a mano che ci si allontana dall’Africa meridionale, probabile punto di partenza dell’ultima espansione globale che portò alla diffusione delle popolazioni di Homo sapiens attuali. Riduzione di variabilità genetica e distanza geografica dall’Africa, in virtù di un “effetto del fondatore in serie”, correlano fortemente. Gli piaceva particolarmente questo risultato, perché mostrava come fenomeni casuali quali la deriva genetica potessero dare origine a schemi statisticamente molto eleganti e predicibili.

Il valore culturale (e persino filosofico) della scienza di Cavalli Sforza sta tutto in quella domanda, chi siamo, che fa da titolo a un altro suo fortunato libro, scritto con il figlio Francesco (come anche la sua appassionante autobiografia scientifica: Perché la scienza. L’avventura di un ricercatore). La risposta è che siamo una storia di diversità, ancora in corso. Nel 2011 il Palazzo delle Esposizioni di Roma gli dedicò un’importante Mostra, Homo sapiens. La grande storia della diversità umana, inaugurata dal Presidente della Repubblica.
Il contributo eccezionale che Luigi Luca Cavalli Sforza ha dato alla scienza si misura nel mezzo migliaio di pubblicazioni internazionali ai massimi livelli, nelle alte onorificenze accademiche (tra le quali, Accademico dei Lincei e membro straniero della Royal Society), nei tanti premi (Balzan, Nonino, Serono), nelle innumerevoli lauree honoris causa. Per l’ampiezza e la fecondità del suo lavoro, avrebbe senza dubbio meritato il Nobel, ma essere un italiano e un evoluzionista non aiuta nell’impresa. A pensarci bene, per tutta la vita non ha fatto altro che dedicarsi in modo disinteressato alla ricerca pura e di base, nel senso più alto del termine.
Come Darwin, non amava gli steccati disciplinari. Non era mai dogmatico e spaziava da una linea di ricerca all’altra quasi con leggiadria. Gli veniva tutto facile. Da dieci anni era professore emerito a Stanford, ma era tornato in Italia, spendendosi con generosità nella divulgazione e nella lotta ai pregiudizi antiscientifici, primo fra tutti quello di chi per ideologia o ignoranza nega ancora la realtà e la bellezza dell’evoluzione darwiniana. Sull’eterna minaccia del razzismo ha scritto pagine intense (per esempio in Razzismo e noismo, con Daniela Padoan) e tenuto conferenze memorabili. Era un uomo schietto, ironico, profondamente libero, che avresti voluto interrogare su tutto, e invece era sempre lui a fare le domande a te. Da ogni gesto e parola sprigionava quella gioia che nasce da insaziabile desiderio di conoscenza, sulla natura e sull’umano. Certe volte ti proponeva connessioni tra fatti ed evidenze talmente lontani fra loro che stentavi a vederci una logica, e invece poi… aveva ragione lui, una logica c’era. La sua è stata davvero una bellissima avventura di ricerca.

(*) ripreso da “Nazione indiana” con questa nota introduttiva di Antonio Sparzani: «è scomparso il 31 agosto scorso Luigi Luca Cavalli-Sforza, grande scienziato e grande uomo per il quale nutro una grandissima stima, per averlo sentito raccontare le sue idee e per aver letto molti dei suoi scritti. Ho chiesto a Telmo Pievani, ordinario di filosofia della biologia all’Università di Padova e collaboratore e amico suo, di scrivere per Nazione Indiana un post che ricordi un così importante maestro».

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