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Ambiente ed energia: un solo ministero

di Stella Bianchi

Ma l’Italia ci crede davvero alle energie rinnovabili? A parole sicuramente si, nei fatti molto meno. E’ passato poco tempo da quando – con impegno e non poche difficoltà – alla camera siamo riusciti a cambiare la norma introdotta in senato alla legge di stabilità che non si limitava ad assicurare una capacità di riserva al sistema energetico ma di fatto penalizzava le energie alternative per tenere in piedi indiscriminatamente le centrali elettriche tradizionali (soprattutto a gas e carbone) che a partire dallo ‘sblocca centrali’ del 2002 si sono moltiplicate in maniera esponenziale e che oggi sono doppiamente in crisi (per colpa dell’eccesso di produzione e per colpa del calo dei consumi energetici in tempi di Pil che arretra e industria al palo). Le rinnovabili avrebbero dovuto “pagare” questi errori di valutazione per i quali la nostra capacità di produzione di energia elettrica tradizionale è molto più del doppio dei picchi di richiesta.

Messo in archivio questo (parziale) successo le questioni tornano e tutte dentro al governo. Si avvicina un momento importante con la definizione degli obiettivi europei al 2030 dopo il successo della strategia 20-20-20 (con i tre obiettivi fissati a livello europeo per il 2020 per arrivare a meno 20% delle emissioni di co2, a più 20% per le rinnovabili, a più 20% per l’efficienza energetica). Nel governo, da una parte il ministro allo Sviluppo Zanonato sostiene nei commenti alla consultazione sul Libro Verde comunitario per le strategie energetico-climatiche al 2030, che vada fissato un obiettivo unico sulle emissioni senza definire anche obiettivi per le rinnovabili e per l’efficienza energetica. L’esperienza ci dice però quanto sia importante fissare target di sviluppo per promuovere la crescita dell’energia del futuro, che ha generato crescita e posti di lavoro ed è indispensabile per contrastare in modo efficace la terribile minaccia dei cambiamenti climatici che ci impone di cambiare il nostro modo di produrre e consumare energia.

Non a caso l’idea di un obiettivo unico, limitato alle sole emissioni di co2, è sostenuta dalle grandi imprese delle energie convenzionali e osteggiato dal mondo della green economy che chiede apertamente obiettivi per le rinnovabili. E nel governo il ministro dell’Ambiente Andrea Orlando sostiene apertamente questa posizione, con una riduzione delle emissioni di co2 pari almeno al 40 per cento e obiettivi per rinnovabili ed efficienza, e su questo tema ha firmato un appello europeo insieme ad un bel numero di ministri dei paesi membri.

Ecco basta guardare le firme in calce all’appello per accorgerci che c’è qualcosa che non va qui in Italia. Ci si accorge ad esempio che Francia, in Portogallo, in Belgio, in Danimarca la qualifica dei ministri mette insieme le competenze sull’ambiente con quelle sull’energia (in qualche caso anche con i lavori pubblici e la mobilità). Fa eccezione la Germania, dove però a firmare l’appello pro-rinnovabili è Sigmar Gabriel, uomo forte dell’Spd nella grosse koalition e ministro dell’Economia e dell’Energia.

Non è mia intenzione aprire una querelle tra due ministri che stimo (per altro tutti e due del Pd…) ne voglio farne una questione personale. Credo però che non abbia senso avere le competenze dell’ambiente separate da quelle per l’energia: non siamo più negli anni in cui l’ecologia era una “passione per pochi”, siamo nel millennio del cambiamento climatico e staccare il come si produce energia (e quindi anche il come e quanto si produce in termini di gas climalteranti) e il come si preserva e anzi si cambia in meglio l’ambiente e si creano posti di lavoro a partire dal maggior rispetto per l’ambiente sia irrealistico. Sul tema di cui si discute, il governo prenda una decisione univoca che ci consenta di essere nel gruppo che traina il cambiamento necessario e promuove l’unica crescita possibile nel rispetto dell’ambiente nel quale viviamo come sostiene con chiarezza il ministro Orlando insieme ad altri ministri europei e metta mano ad una riforma delle attribuzioni ministeriali perché su questo non può esserci strabismo.

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Elettricità +0,7%: sapete perché?

Dal primo gennaio le tariffe elettriche sono aumentate dello 0,7%. L’Authority – che ha ampliato il proprio titolo divenendo “Autorità per l’energia elettrica, il gas ed il sistema idrico”, come a dire che si occuperà di tutta la materia referendaria su cui 27 milioni di cittadini hanno provato invano a dire la loro – ha chiarito che non c’è aumento del prezzo del gas e non ha avuto più il coraggio di dire che la colpa è delle rinnovabili.

“Per l’elettricità, – ha affermato – l’incremento complessivo dello 0,7% della bolletta della famiglia tipo è determinato dall’introduzione dal mese di gennaio di un nuovo onere generale di sistema, la componente ‘Ae’ per finanziare le agevolazioni alle imprese manifatturiere con elevati consumi di energia elettrica introdotte dalla legislazione”. Così, la bolletta è diventata una sorta di bancomat su cui scaricare i costi dell’oscura politica energetica e fiscale italiana. E non è finita, perché finora è stata contabilizzata solo la prima tranche di 400 milioni prevista dalla legge del governo delle larghe intese: ce ne sono altri 820 da recuperare per il 2014! (v. www.martinbuber.eu)

Non sarebbe il caso che Zanonato, che dall’inizio del suo operato parla di ridurre il costo della bolletta, si dedichi a trasformarne e renderne trasparente la struttura riportandole al loro scopo originario ed eliminando tutti i carichi impropri che ne falsano la natura? Ma non sembra questo il cammino che ci aspetta: in sospeso c’è “un’erogazione a favore della Sogin per far fronte agli impegni connessi ai contratti di riprocessamento in Francia del combustibile nucleare irraggiato e del combustibile di Creys Malville” (citazione dalla delibera 641/2013/R/Com). Sapevamo che il nucleare è per sempre, ma adesso se ne accorgono anche le nostre tasche. E poi, senza che se ne sia parlato, si attinge alle bollette per 300 milioni di euro, prelevati e spostati per coprire la cancellazione dell’IMU.

Basta così, direte. Ma eccoci al famoso Cip6, l’incentivo allo smaltimento rifiuti e scarti petroliferi attraverso la generazione elettrica. Vanno reperiti 470 milioni di euro “per far fronte alla risoluzione anticipata della convenzione della centrale di Falconara dell’Api e altri 570 milioni di euro in relazione alla centrale di Priolo, raffineria ISAB di Erg” (v. www.staffettaonline.com). Infine, sale del 60% il costo per la copertura del nuovo capacity payment a favore dei cicli combinati a gas (si pagherà non la corrente prodotta ma la disponibilità a entrare celermente in produzione), onere fortemente voluto dalle utility per remunerare la capacità disponibile ad entrare in produzione per adattarsi alla generazione rinnovabile.

In queste amare constatazioni, c’è molta “technicality”, dirà chi legge ed è difficile capire. Vogliamo tradurre? Si tratta di 3,5 miliardi di euro come aggravio previsto per le future bollette, considerando anche altri oneri relativi a quelle del gas (Quotidiano energia del 7/1/2014). Chi potrebbe scambiare per politica energetica e industriale questo accanimento verso i consumatori ignari e male informati? E ci sembra arduo cercare di convincerli che i costi elevati dell’erogazione di energia e la mancata riduzione delle tariffe sono da attribuire alla diffusione incentivata delle fonti rinnovabili!

di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

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Il quinto rapporto IPCC sul riscaldamento globale

Lo scorso 27 settembre è stato rilasciato a Stoccolma il quinto rapporto dell’IPCC per la valutazione del riscaldamento globale. E’ possibile ora, alla luce di un documento scientifico con un consenso senza precedenti, riflettere sulla distanza tra l’allarme lanciato e il comportamento dei leader mondiali, che nei consessi successivi a Varsavia e a Bali non hanno per l’ennesima volta corrisposto alla responsabilità cui sono chiamati. D’altra parte, prevale ancora la competizione nell’arena del mercato globale rispetto alla cooperazione per il salvataggio del pianeta e continua ad affiorare il pensiero prevalente di questa fase storica, che si affida ad una presunta “razionalità economica” per affrontare i problemi sociali, politici e ambientali.

 

I contenuti del rapporto

Partiamo dai contenuti inoppugnabili del rapporto.

Non ci sono più margini di incertezza riguardo alla responsabilità dell’uomo sul riscaldamento globale. Anzi, ulteriori emissioni di gas ad effetto serra causeranno un ulteriore riscaldamento e cambiamenti in tutte le componenti del sistema climatico.

Le proiezioni climatiche mostrano che entro la fine di questo secolo la temperatura globale superficiale del nostro pianeta probabilmente raggiungerà 1.5 °C oltre il livello del periodo 1850 – 1900. Senza serie iniziative mirate alla mitigazione e alla riduzione delle emissioni globali di gas serra, l’incremento della temperatura media globale rispetto al livello preindustriale potrebbe superare i 2 °C e arrivare anche oltre i 5 °C.

Gli ultimi tre decenni sono stati i più caldi dal 1850, quando sono iniziate le misure termometriche a livello globale. L’ultimo decennio è stato il più caldo e l’oceano superficiale (0–700 m) si è riscaldato durante gli ultimi decenni del 1971-2010.

Il periodo 1983–2012  “probabilmente” è il trentennio più caldo degli ultimi 1400 anni.

Dal 1950 sono stati osservati cambiamenti negli eventi estremi meteorologici e climatici: la frequenza di ondate di calore è aumentata in vaste aree dell’Europa, Asia e Australia; in Europa e Nord America la frequenza o l’intensità di precipitazioni intense (o estreme) è aumentata.

Le calotte glaciali in Groenlandia e Antartide hanno perso massa negli ultimi due decenni. I ghiacciai si sono ridotti quasi in tutto il pianeta. Entro la fine del secolo, è verosimilmente da attendere una forte diminuzione delle coperture glaciali a scala globale (-15% fino a -55%), escluso l’Antartide.

L’innalzamento del livello globale medio marino ha accelerato negli ultimi due secoli ed è stato di 1.7mm/anno nel periodo 1901-2010 e di 3.2mm/anno nel periodo 1993-2010”.

Le continue emissioni di gas serra provocheranno ulteriore riscaldamento nel sistema climatico, con cambiamenti nella temperatura dell’aria, degli oceani, nel ciclo dell’acqua, nel livello dei mari, nella criosfera, in alcuni eventi estremi e nella acidificazione oceanica. Molti di questi cambiamenti persisteranno per molti secoli.

E ‘praticamente certo che ci saranno più frequenti estremi di temperatura (caldi e freddi) sulla maggior parte delle aree di terra e su scale temporali giornaliere e stagionali, all’aumentare delle temperature medie globali.

Le aree soggette a permafrost superficiale (fino a 3.5 m di profondità) presenti alle latitudini intermedie ed elevate si ridurranno (da -37 % fino a -81%) con l’aumento delle temperature atteso.

Il cambiamento climatico influenzerà in maniera crescente il ciclo dell’acqua a scala globale: le zone equatoriali e le alte latitudini vedranno probabilmente una crescita delle precipitazioni, con intensificarsi dei fenomeni estremi e susseguenti piene, mentre le zone tropicali aride andranno verosimilmente incontro a precipitazioni sempre minori. Le aree soggette a precipitazioni di matrice monsonica verosimilmente incrementeranno.

 

L’urgenza del cambiamento e la staticità dei decisori politici

Se il medico annuncia una malattia grave, si dovrebbe subito iniziare a cercare la cura. Perché mai dovremmo correre rischi più grandi quando si tratta della salute del nostro pianeta? E ‘fuor di dubbio che, se vogliamo evitare il cambiamento climatico superiore a due gradi centigradi, abbiamo bisogno di responsabili politici per implementare meccanismi che garantiscono che una grande quantità di carbonio rimanga sotto terra, sia riducendo l’estrazione dei fossili e sostituendoli con le rinnovabili e promuovendo il risparmio, che sostenendo l’agricoltura contadina e la riforestazione.

Gli impatti dei cambiamenti climatici presenteranno crescenti sfide per i governi di tutto il mondo e rischi imprevedibili per il sistema globale delle imprese. L’aumento delle temperature, i cambiamenti nel regime delle precipitazioni, l’aumento del livello dei mari, ghiacciai che scompaiono e l’acidificazione dell’acqua del mare avranno effetti diretti sulla spesa pubblica, sulla salute, sulla qualità della vita, sui risultati economici di molti settori industriali. La stessa UE sembra non mantenersi all’altezza della sua storia precedente e cede sempre di più alla pressione dei grandi enti energetici che spingono per bassi costi delle materie prime fossili, incentivi per l’ammodernamento delle grandi infrastrutture, eliminazione di qualsiasi forma di carbon tax. Va segnalato come alla testa di questo schieramento si sia posizionata la Polonia, forte anche dell’accondiscendenza del governo italiano.

C’è molta incertezza nelle aree geopolitiche del pianeta, che guardano a breve al rilancio del gas e del petrolio con sistemi non convenzionali (shale gas) per accreditare un’affermazione dei loro settori manifatturieri tradizionali grazie al minor peso della bolletta energetica. Naturalmente, tutti i costi esterni di queste scelte ricadrebbero sulla società a livello globale e sulle generazioni future, costrette a riparare ai danni climatici, all’inquinamento e al peggioramento delle condizioni di salute. C’è un aperto conflitto tra Canada, Australia e Stati Uniti da una parte e i paesi poveri dall’altra, con la Cina il Brasile e i paesi emergenti in una posizione di attesa, mentre la stessa UE si trova incerta e lacerata al proprio interno.

 

Il negazionismo dei media

L’obiettivo della gran parte dei media è di tener lontano l’opinione pubblica dalla drammaticità del problema con una insistenza calcolata nel mettere in dubbio i risultati dei rapporti IPCC e nel travisare l’informazione sulle prove esibite. Il ruolo delle grandi corporation e delle lobby del carbone e del gas che stanno dietro questa operazione è evidente ed è documentato da una coraggiosa inchiesta del Guardian. Sono all’attacco il Sunday, il Christian Post, i canali e i giornali di Rubert Murdoch, il Wall Street Journal e il Washington Post. E, naturalmente, ne risentono anche i quotidiani nostrani come Repubblica, Il Sole 24 Ore e soprattutto il Corriere della Sera, che vengono amplificati e ripresi dalle TV private nelle news e nelle loro trasmissioni pseudoscientifiche.

La disinformazione e il negazionismo si sono sapientemente articolati secondo cinque schemi, che tutt’ora si intrecciano a seconda dell’occasione. Lo schema 1 riguarda la pura negazione che il problema del clima esista. Quando le persone vengono poste di fronte ad un problema scomodo, la reazione immediata consiste nel negare la sua esistenza e, in questo caso, nel negare che il pianeta si stia riscaldando. A tal fine si sono esibiti dati che riguardavano la bassa atmosfera, ma ben presto è stato dimostrato che anche la bassa atmosfera si stava scaldando a un ritmo coerente con le misure di temperatura superficiale. In più si è volutamente trascurato che il 98% del riscaldamento inizialmente va a finire negli oceani.

Lo schema 2 si è sviluppato per negare che l’uomo fosse la causa e, a questo fine, sono stati contestati i modelli in uso per interpretare i dati; inoltre, si è messa in discussione la eccezionale concordanza degli esperti, andando a scovare le chat dissonanti su blog tematici per niente certificati e citando illegalmente della corrispondenza privata. Lo schema 3 accetta che l’uomo sia responsabile del mutamento, ma sostiene che il riscaldamento globale non è nulla di cui preoccuparsi, perché può essere risolto dalla tecnologia a valle e da una riorganizzazione degli insediamenti umani. Lo schema 4 esprime il massimo di pessimismo: non c’è niente da fare! La soluzione del problema sarebbe troppo costosa e farebbe male ai poveri. In realtà è vero il contrario. Lo scetticismo su possibili soluzioni addirittura precipita nella schema 5: è troppo tardi per intervenire. Quindi, non dovremmo perder tempo e dovremmo solo attrezzarci ad anticipare le catastrofi ed a ripararle poi con un apparato di intervento di permanente emergenza.

Credo che ognuno di noi abbia fatto esperienza di quanto queste posizioni vengano a bella posta contrapposte tempestivamente ad ogni esposizione dei responsabili internazionali dell’IPCC.  Basta ancor oggi leggere i giornali o ascoltare radio e TV. Gli opinion leader frequentemente si buttano a confutare una previsione che dovrebbe ribaltare completamente l’agenda politica e lo fanno grossolanamente su commissione, senza cognizioni di causa. Ma il quinto rapporto IPCC è un brutale colpo a quelle che ormai si rivelano solo insinuazioni o, più banalmente, cappellate.

 

Il rischio per il sistema delle imprese

C’è un aspetto nuovo nel conflitto aperto sul “climate change” e riguarda proprio il punto che sembrava il più ostico da affrontare – cioè la convenienza economica – e coinvolge i partner più titubanti a cambiare passo – cioè il mondo delle imprese. Il rischio di una gigantesca “bolla di carbonio” che deriverebbe dall’attuazione di serie politiche di riduzione delle emissioni, mette a rischio il futuro del settore del gas e del petrolio: infatti, se non si prenderanno subito provvedimenti, in un futuro prossimo non sarà più utilizzabile il 60 – 80% delle riserve di carbone, petrolio e gas delle aziende quotate in borsa. Gli investitori più attenti si stanno accorgendo che puntare su questo tipo di aziende sta diventando una scelta molto rischiosa. Già oggi la BEI e la Banca Mondiale ricusano molti dei progetti di costruzione di centrali a carbone.

La competitività delle imprese in Europa sarebbe gravemente colpita dal riscaldamento globale, che secondo molti scienziati rischia di verificarsi in questo secolo. Peter Thorne, l’autore principale delle osservazione per il Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (IPCC) ha affermato che:

“se si dispone di possibilità alternative e di cambiamento, è sbagliato continuare a costruire infrastrutture che peggioreranno il clima, mentre è più saggio costruirne per le implicazioni di adattamento e mitigazione”. L’UE è scossa al proprio interno dalle richieste degli enti energetici, appoggiati da alcuni governi (tra cui quello polacco e quello italiano), per incentivare l’utilizzo in Europa di carbone e gas a buon mercato importato dagli Stati Uniti spostando il finanziamento alle fonti rinnovabili.

 

Si direbbe però che l’imprenditoria più innovativa sia assai più avanti: infatti, per aiutare la comunità imprenditoriale a comprendere meglio le implicazioni del cambiamento climatico, la University of Judge Business School di Cambridge e la Fondazione Europea per il Clima hanno distribuito a vari settori industriali un documento assai rigoroso, dal titolo intrigante: “Il cambiamento climatico influenzerà il mio settore di attività?”. L’intento è quello di incoraggiare le direzioni aziendali a uscire dal business quando comporta forti emissioni ed a prepararsi per una nuova economia “low carbon”. Il documento si trova su http://bit.ly/15D2DvH.

 

Dopo il rapporto: i negoziati di Varsavia (Novembre) e Bali (Dicembre 2013)

“Sono davvero sbalordito, non vi è alcun senso di urgenza qui” ha dichiarato un portavoce dell’IPCC alla conferenza COP 19 conclusa a Novembre a Varsavia.

L’unico sorprendente successo è stato un accordo sul REDD (Riduzione delle emissioni da deforestazione e degrado) che fornirà una compensazione per i paesi che potrebbero perdere gettito non sfruttando le loro foreste e che include la verifica, il monitoraggio e la salvaguardia per le comunità locali. La deforestazione e la conversione delle foreste in terreno agricolo contribuisce per circa il 10 per cento delle emissioni totali di CO2 antropica.

Più controversa è stata l’introduzione di un meccanismo internazionale per le perdite e i danni climatici” (“loss and damage”), che apre la strada al risarcimento dei danni per i paesi sviluppati. In definitiva, la lentezza del processo per arrivare nel 2015 al “dopo Kyoto” e la scarsa fiducia fra le Parti, suscitano seri dubbi sul  raggiungimento di un nuovo accordo globale per la riduzione delle emissioni.

A Bali, in Dicembre, per la prima volta nella sua storia, l’Organizzazione Mondiale del Commercio ha concluso un incontro ministeriale con un accordo.

A sperare in un accordo finale erano stati proprio i PVS, perché per loro da quando l’OMC/WTO ha smesso di funzionare come strumento prevalentemente euro-americano, è iniziata la stagione degli accordi bilaterali o regionali che seguono la logica delle catene di approvvigionamento esigendo una grande integrazione fra i Paesi che partecipano alla filiera di un prodotto. Ma questi accordi in genere legano un centro di consumo a quelli di produzione e i Paesi più deboli si trovano in una posizione negoziale debole.

Questo apre possibilità per il futuro, possibilità però che saranno tutte da creare. L’accordo in sé è infatti molto deludente e il piatto della bilancia pende anche questa volta dalla parte dei paesi più forti. Il rischio è che i Paesi poveri siano costretti a privilegiare l’informatizzazione dei loro uffici doganali rispetto alle scuole e a migliorare le infrastrutture dei porti piuttosto che gli ospedali.

Come ha scritto Roberto Meregalli, “la battaglia per un sistema equo di regole che ponga il diritto al cibo, al lavoro, alla salute, all’ambiente prima del diritto a fare business, sarà ancora aspra e lunga, ma la crisi dell’occidente dovrebbe aver insegnato che le ricette del passato sono da buttare e che l’unica politica win-win è quella della cooperazione”.

Insomma, dopo Stoccolma, Varsavia e Bali è la scienza o l’economia a dettare l’agenda per gli abitanti del pianeta?

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Politica energetica italiana: via col gas

di Mario Agostinelli

In un ottimo articolo su Repubblica, Sylos Labini e Ruffolo prospettano una politica energeticache traduca in opportunità le ammonizioni del quinto rapporto Ipcc (Intergovernmental panel on climate change). Moltissime loro osservazioni potrebbero interloquire positivamente con questo blog e i commenti che lo arricchiscono. In sostanza, i due autori ritengono necessaria una maggior indipendenza dell’Italia dalle importazioni allargando strategicamente il contributo delle rinnovabili e riconvertendo l’eccesso di offerta elettrica dei cicli combinati e delle centrali a carbone. Ma chi lo va a dire a Enel ed Eni che hanno continue assicurazioni da un governo che manca di una politica industriale, che sposta incentivi dalle fonti rinnovabili alle fossili e vorrebbe trasformare la nostra penisola nell’hub del gas d’Europa?

La linea strategica di Labini e Ruffolo prevede investimenti e occupazione stabile proiettata nel futuro e programmabile sul territorio. Una rivoluzione, che in Germania sta già avvenendo, seppur tra contrasti, ma che i paesi dell’Est europeo, più l’Italia, vorrebbero seppellire sotto una nube di gas a buon mercato estratto e consegnato con enormi ricadute ambientali (lo shale gas, il gas siberiano con le implicazioni sul permafrost, le condotte che occupano decine di migliaia di tratte di foreste e fondali marini). È stata assunta la crisi come alibi per un miope rilancio del vecchio, per interessiche i cittadini non condividono (a proposito: se non avessero vinto i “sì” al referendum cosa ne avremmo fatto delle centrali nucleari già programmate?).

Così, ad ogni accensione dello schermo ci troviamo il cane a sei zampe e i “guerrieri” dell’Enel  a parlarci della loro energia buona, che, guarda caso, nobilita ogni nostra azione senza che venga mai citata l’emergenza climatica come opportunità per correggere i nostri comportamenti e per adeguare il sistema di offerta e consumo di energia. Avanti così, dunque, negando che gli scienziati di tutto il mondo hanno ammonito che invece non si può continuare in questo modo.

In fondo, i negazionisti del clima sono tutt’altro che rinunciatari e li sostengono la rete di Murdoch, i giornali economici più prestigiosi, i quotidiani che fanno opinione. Con una strategia ben definita, che il Guardian ha disvelato. Si procede per tappe: prima negando che il problema ci sia; poi riconoscendolo, ma affermando che la tecnologia può risolvere il problema; quindi, assumendo per inesatta l’affermazione dell’Ipcc per cui l’aumento di temperatura è, con una probabilità di almeno il 95%, causato dall’uomo; infine, riconoscendo che il problema c’è, ma che abbiamo a disposizione molto tempo o, addirittura, non c’è più niente da fare.

Fortunatamente abbiamo pochissimo ma sufficiente tempo, se facciamo prevalere senza compromessi l’interesse per la vita e la salute. Ma dove galleggia il Governo italiano tra quelle tappe esemplificate dal “Guardian”, visto che considera l’abbattimento di CO2 con 18GW di solare e gli oltre 8GW di eolico un peso da ridimensionare? Un po’ si era già capito, quando era stata presentata una traccia di strategia energetica nazionale (Sen) fortunatamente oggi riposta in un cassetto. In quel documento si accontentava un po’ tutti, all’italiana. Credo soprattutto per rassicurare Putin, Erdogan, l’Azerbajan e l’Algeria che le nostre banche avrebbero onorato i loro impegni neglispaventosi investimenti richiesti dai gasdotti che, in un braccio di ferro tra contendenti e in un abbraccio micidiale per le nazioni importatrici, solcano e solcheranno l’Europa da nord e da sud. Magari con gli italiani che alla loro inaugurazione si metteranno a cantare “O sole mio!”.

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Il Forum per l’Energia dell’Est: una sintesi di Mario Agostinelli

Le tre linee di fondo della politica energetica europea, migliorare la competitività dell’economia, aumentare la sicurezza degli approvvigionamenti e accrescere la sostenibilità, non trovano ancora una convergenza. Anzi, sembrano confliggere. Questo quanto emerso dai dibattiti cui ho partecipato durante il Forum per l’Energia dell’Est europeo organizzato a Danzica, in Polonia.

La Polonia guida quella parte dell’Eurozona che rimane scettica rispetto agli obiettivi “20/20/20” decisi dalla commissione Ue. Una coalizione di paesi che incontra un tacito sostegno da parte del nostro Governo, alleato ai governi dell’Est Europa nel privilegiare il ricorso al gas e, quindi, nel ritenere non strategica e solo integrativa la prospettiva di crescita di un sistema decentrato ad energie rinnovabili.

Il cavallo di battaglia di questa alleanza sta nella necessità – a suo dire – di abbassare i prezzidell’energia in Europa aumentando l’offerta di carbone, nucleare (sempre all’erta) e gas russo, istituendo un “enorme transatlantico di libero scambio” per evitare che gli Stati Uniti attraggano nuovi investimenti, a partire dall’industria ad alto consumo energetico. Secondo l’auspicio di questo scenario, diventerebbe decisiva la collocazione di centrali nucleari all’Est e lo sviluppo delle infrastrutture di trasmissione transnazionali basate sulla produzione di grandi impianti e il potenziamento dei gasdotti. La produzione eolica e solare risulterebbe pertanto solamente integrativa e da prendere in considerazione per il suo progressivo affermarsi in Germania e nel Nord Europa. Il vero ruolo d’innovazione sarebbe affidato al gas da scisto (shale gas) estratto nei Carpazi nonostante il dissenso della Ue, ai fini di svincolare gli ex satelliti sovietici dall’egemonia putiniana.

Date queste premesse, gran parte della discussione al Forum è stata di natura geopolitica e ci ha riportato ai conflitti europei dell’inizio Novecento, con la rivendicazione dei paesi balcanici di avere un’autonomia da Russia e Germania. Il Sud Europa svanisce e ci si ritrova in un contesto tutto determinato dal vecchio paradigma energetico. C’è da capire perché mai l’Italia dovrebbe dar corda ad una simile prospettiva.

Qui ho capito l’importanza straordinaria per il futuro dell’Europa di un diverso approccio energetico, fondato sulla rinnovabilità, il decentramento, il risparmio, l’economia regionale e territoriale. Un metodo capace di cogliere come la questione del riscaldamento globale e l’impatto delle risorse petrolifere mondiali sull’ambiente facciano prevedere un futuro diverso in cui la politica dovrà ridisegnare consumi, produzione, indirizzi economici e industriali, evitando atteggiamenti protezionistici.

Nonostante il nocciolo del problema polacco sia la dipendenza dal carbone, tra gli intervenuti ha preso piede una posizione imprevista: la riduzione delle emissioni sarebbe compatibile con una maggiore competitività e la graduale transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio e l’ammodernamento delle infrastrutture si ripercuoterebbero positivamente su tutti i settori.  Mi ha sorpreso come anche in un paese dichiaratamente scettico rispetto al superamento delle fonti fossili, ci si renda conto che efficienza, fonti energetiche rinnovabili e a bassa emissione facciano guardare al futuro con maggiore ottimismo.

Si direbbe che sulle fonti di energia rinnovabili si stia aprendo una nuova linea di divisione in Europa – a ranghi non compatti nemmeno nei paesi dell’Est – e che la mancanza di un dibattito politico in Italia la ponga ai margini di una partita decisiva. È stato proprio Stephen Tindale, esperto del Centre for European Reform (Regno Unito), a sottolineare come risparmio, rinnovabili e clima agiscano per una profonda integrazione tra i paesi europei, dato che ci sono molti più vantaggi in un’economia a basse emissioni di carbonio, dall’aumento degli investimenti al rilancio dell’economia. “L’Europa – ha affermato – non deve guardare indietro, puntando sulla divisione “so-far” dei 27 Paesi in base a diversi tipi di energia prevalente. Gli ha fatto eco Wolfram Sparber,sostenendo che la massimizzazione della produzione da Fer e il soddisfacimento delle aspettative degli operatori in relazione alle fonti variabili di generazione può procedere a molti livelli (tecnici, organizzativi e informatici), producendo da subito l’integrazione delle energie rinnovabili nei sistemi energetici nazionali.

In conclusione, mi è parso bizzarro incontrare nel Paese sotto il profilo energetico più conservatore d’Europa aperture e riflessioni che avrebbero scioccato il nostro ministro Zanonato.

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