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Un ricordo di Carla Ravaioli di Giorgio Nebbia

“Economia” e “ecologia” sono parole che hanno la stessa radice, ”eco”, dal greco, che sta ad indicare la casa, il territorio, la comunità. L’economia, un termine inventato dai filosofi greci, era nata per studiare e indicare le leggi, in greco nomos, appunto, le regole alla base dei rapporti e degli scambi umani nell’ambito di una casa, di una comunità. Poi, col passare del tempo, a partire dall’Ottocento il termine economia è stato impiegato per indicare i rapporti regolati dallo scambio del denaro, sulla base del principio che la massima felicità si ottiene aumentando la quantità del denaro disponibile perché con esso può aumentare la quantità delle merci prodotte e vendute e anche l’occupazione. La quantità del denaro scambiato in una comunità viene espressa con l’indicatore Prodotto Interno Lordo, la cui crescita è comunemente considerata una misura del benessere di tale comunità. D’altra parte la parola ecologia, “inventata” dallo studioso tedesco Ernst Haeckel (1834-1919) nel 1866, indica lo studio, la conoscenza, logos in greco, appunto, di quanto avviene in una casa, intesa questa volta come l’ambiente naturale, la grande “casa” in cui tutti i viventi svolgono le proprie funzioni di nascita, crescita, declino e morte, usando e trasformando le risorse naturali come le acque, l’aria, il suolo. Ma, per ragioni fisiche ben precise, l’aumento “economico” della produzione di beni materiali può avvenire soltanto impoverendo e sporcando le risorse e i beni “ecologici” della Terra, al punto da compromettere la stessa vita, il cui benessere sarebbe invece il fine delle attività economiche. Questa contraddizione è stata, fin dagli anni sessanta del Novecento, denunciata dai movimenti ambientalisti che, nel nome della vita, chiedevano di limitare e controllare la base stessa della crescita economica, la produzione di beni materiali. Da parte loro gli economisti hanno ridicolizzato le obiezioni ecologiche sostenendo che la tecnologia è in grado di risolvere tutti i problemi di scarsità, purché ci siano soldi sufficienti. Alla diffusione della conoscenza e al superamento delle contraddizioni economia-ecologia-lavoro ha dedicato tutta la sua lunga vita Carla Ravaioli (1923-2014), morta nei giorni scorsi a Roma. Laureata in lettere con una tesi in storia dell’arte, negli anni cinquanta e sessanta era stata una attivista dei diritti delle donne con alcuni libri (tradotti anche in tedesco e in altre lingue) che sono stati punto di riferimento per le lotte femministe. Si possono ricordare i suoi libri sulla condizione femminile, uno dei quali con una celebre “conversazione” con Moravia, l’intervista-confronto sul problema femminile con il Partito Comunista Italiano, un famoso libro sullo sfruttamento dell’immagine della donna nella pubblicità. Nel 1977 Carla Ravaioli fu eletta al Senato nel gruppo della Sinistra Indipendente, quel gruppo di intellettuali che il Partito Comunista Italiano candidava al Senato e poi alla Camera, pur non essendo iscritti al partito, un gruppo che aveva ospitato, nel corso degli anni, Lelio Basso, l’economista Claudio Napoleoni, Claudio Galante Garrone e tanti altri. Erano gli anni della primavera dell’ecologia, la stagione in cui i disastri ambientali apparivano in tutta la loro drammatica evidenza in Italia e nel mondo. Gli anni dell‘incidente che aveva contaminato con la diossina la cittadina di Seveso, gli anni in cui le fabbriche come l’Acna di Cengio in Liguria, la SLOI di Trento, l’Enichem di Manfredonia, la Caffaro di Brescia, per citare solo alcune delle tante, stavano sversando le loro scorie tossiche nel sottosuolo e nei fiumi italiani. Le contraddizioni fra i due volti, apparentemente inconciliabili, dalla maniera di intendere la “eco”, avrebbero potuto essere superate con un aumento della cultura ecologica, come chiedeva un disegno di legge che la Ravaioli propose in Senato. Per mettere in evidenza il bisogno di tale “nuova” cultura, la Ravaioli, nel libro “Bugie silenzi e grida”, esaminò criticamente gli articoli sull’ambiente apparsi in vari quotidiani italiani nel corso di un intero anno fra il 1987 e il 1988. Ma il suo principale impegno fu rivolto agli aspetti umani e sociali dell’”ecologia”, alle condizioni e all’ambiente di lavoro, ai rapporti fra sfruttamento della natura e guerra. Uno dei libri più recenti, pubblicato da una piccola casa editrice di Milano, aveva proprio il titolo “Ambiente e pace” per sottolineare che la vera pace può essere assicurata soltanto da più equi (la parola giustizia permea tutti gli scritti dell’autrice) rapporti fra i popoli e dal rispetto della natura e della vita. Carla Ravaioli aveva scelto come missione del suo lavoro la necessità di convincere gli economisti e i sindacalisti che, nei programmi politici ed economici, occorre tenere conto dei vincoli imposti dall’ecologia. Gran parte dei suoi libri e numerosissimi articoli sono rivolti proprio alla ”conversione” dei responsabili delle scelte economiche; molto interessanti i suoi “colloqui” con economisti come Claudio Napoleoni, Guido Rossi, Luciano Gallino, Giorgio Lunghini, Massimo Livi Bacci, con sindacalisti come Mario Agostinelli e Bruno Trentin. Carla Ravaioli ci mancherà e c’è da augurarsi che molti suoi scritti, sommersi in pubblicazioni poco accessibili, siano ripubblicati e meglio conosciuti a riprova del valore di questa grande intellettuale che resterà sempre viva nella storia del pensiero ecologico ed economico

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Sistemi di accumulo: lo stato dell’arte in Italia

Alessandro Codegoni – qualenergia.it

La fase uno della rivoluzione energetica mondiale si può dire sia consistita nell’inserire a forza, grazie a finanziamenti pubblici, una quota di nuove fonti rinnovabili nei vecchi sistemi elettrici. Scopo, abbassarne i costi industriali delle fonti pulite e dimostrare che il vecchio mantra “non potranno che essere fonti marginali” non aveva fondamento. La fase due consisterà nell’adattare le reti elettriche, in modo che possano funzionare con percentuali crescenti di fonti non programmabili, come il solare e l’eolico, superando progressivamente il bisogno del back up da parte di fonti fossili. Tecnologia simbolo di questa nuova fase sono gli accumuli di elettricità.

Questi, nella forma di batterie collegate alla rete, secondo un studio pubblicato a fine dicembre dalla società di ricerche IHS, conosceranno un vero boom, salendo da una installazione di circa 200 MW nel 2013, a una di 6 GW nel 2017, per arrivare nel 2020 a 40 GW di potenza totale installata nel mondo. Parte di queste batterie si useranno per rendere programmabile la produzione di grandi impianti eolici o FV (in California si stanno già introducendo obblighi a riguardo e in Italia servirà per far accedere questi impianti al futuro mercato del dispacciamento), parte serviranno per evitare sovraccarichi in tratti sensibili delle reti (come sperimenta Terna in Italia), e parte finirà nelle case e nei capannoni, per massimizzare l’autoconsumo di energia fotovoltaica, rendendo disponibile di notte quanto accumulato di giorno.

La cosa sembra allettante per gli utenti del fotovoltaico, ma in Italia per ora tutto sembra tacere. O quasi. “Nel rapporto che abbiamo fatto per l’Energy & Strategy group del Politecnico di Milano (vedi qui, ndr) – spiega a QualEnergia.it l’ingegner Simone Franzò – abbiamo analizzato tecnologia e convenienza dello storage concludendo che è proprio l’uso a livello di utenti finali ad avere più possibilità di crescita nel prossimo futuro, anche se, al momento, il costo dei piccoli accumulatori è ancora troppo alto per garantire, in assenza di incentivi specifici come quelli tedeschi, un recupero dell’investimento in tempi appetibili per le famiglie e ancor meno per le imprese. Ma il prezzo delle batterie, anche grazie alle auto elettriche, sta scendendo, e la soglia della convenienza la si dovrebbe raggiungere entro 2-3 anni”.

Conferma Marco Pigni di Fiamm, il più grande costruttore italiano di batterie: “E’ vero, i costi sono ancora alti, tanto che per adesso abbiamo venduto le nostre batterie zebra al sodio-nickel, che offrono le stesse prestazioni del litio, ma usando materiali meno rari e più sicuri, solo a Terna e per sistemi staccati dalla rete o con rete poco affidabile. Ma l’aumento della nostra produzione dovrebbe portare a un calo drastico dei prezzi, del 30-50% entro 3-4 anni, e allora recuperare il prezzo dell’accumulatore tramite il maggior autoconsumo dovrebbe richiedere meno di 10 anni”.

Ma a frenare l’uso di batterie sono anche le incertezze normative. “Il GSE ha escluso la possibilità di usare sistemi di accumulo per gli impianti FV incentivati – ricorda Luca Zingale, direttore scientifico di Solarexpo-The Innovation Cloud – mentre per il nuovo si attende da anni un regolamento tecnico. A dicembre l’Aeeg ha presentato una bozza di consultazione, che dovrebbero portare a una normativa entro il 2014. Per questo il mercato italiano dei piccoli accumuli per ora è quasi fermo. Nonostante ciò a Solarexpo-The Innovation Cloud 2013 si sono già viste varie proposte di storage e ancora più numerose se ne vedranno quest’anno, dal 7 al 9 maggio a Milano. Sono sicuro che la possibilità di abbinare batterie e solare avrà un grande successo in Italia, paese dall’elettricità molto cara, rendendo più conveniente l’installazione nei tanti casi in cui l’utente è fuori casa durante il giorno, e aiutando, con l’aumento della quantità di energia risparmiata, quelle imprese che sceglieranno i SEU come mezzo per tagliare il costo dell’energia. Non trascuriamo poi la componente psicologico-politica dell’accumulo, che molti aspettano come mezzo per rendersi il più possibile indipendenti dalle grandi società energetiche”.

In realtà c’è chi non ha atteso le normative: “E’ dal 2009 che, con la collaborazione dell’Università di Ancona – racconta a Qualenergia.it Roberto Mattioli, dirigente vendite dell’anconetana Energy Resources – stiamo sperimentando, con ottimi risultati, sistemi di accumulo in famiglie e aziende. Il nostro approccio è stato quello di inserirli in un quadro complessivo fatto anche da impianti a rinnovabili, efficienza energetica, domotica e mobilità elettrica. Paradossalmente, però, ora che abbiamo il know-how e i dati della ricerca, la crisi del settore, la stretta creditizia e l’incertezza normativa, ci rendono difficile procedere con lo sviluppo dei prodotti”.

Il gigante Power One, secondo costruttore mondiale di inverter, non ha evidentemente di questi problemi. “Tra sei mesi – ci spiega Paolo Casini, direttore marketing dell’azienda che ha la sua sede principale in Toscana – metteremo in vendita il nostro nuovo inverter per fotovoltaico da 3,6 e 4,6 kW, con accumulo modulare al litio da 2, 4 o 6 kWh, secondo necessità. Il suo uso dovrebbe già essere conveniente in Italia, Germania e Gran Bretagna, dove, l’alto e crescente costo dell’elettricità, sui 20 anni di vita di un impianto, e con un cambio delle batterie dopo 10, dovrebbe assicurare una redditività media del 5-6%. Naturalmente, all’inizio, contiamo di venderne soprattutto in Germania, grazie agli incentivi, ma siamo sicuri che appena le normative saranno pronte e magari i prezzi degli accumulatori, che costituiscono il 70% del costo di questo prodotto, scenderanno, saranno richiesti anche in Italia. Per una nostra famiglia media, infatti, già la versione da 2 kWh, dovrebbe consentire di passare da un autoconsumo medio del 30% a uno del 70%, velocizzando di molto il recupero dell’investimento. Soprattutto se, come nel nostro caso, il sistema di accumulo contiene anche software per ottimizzare l’uso dell’elettricità durante la giornata, per esempio dialogando con elettrodomestici intelligenti e programmando il loro uso in base anche alla prevista produzione solare”.

Ma esiste anche una soluzione di accumulo, che aggira ogni problema normativo. Ci hanno pensato sia Solon Italia che Albasolar, un’azienda piemontese di impianti fotovoltaici. “Da alcuni mesi – ci racconta Alberto Giacosa di Albasolar – stiamo offrendo sistemi di accumulo abbinati ai nostri impianti, dove i pannelli ricaricano la batteria, ma non immettono elettricità in rete. Finché la batteria è carica l’utente usa la sua energia, quando questa termina si apre il collegamento alla rete. E’ un sistema che interessa chi consuma molto in ore non diurne”.

Soliberty di Solon, presentato a ottobre, si basa su un concetto simile, con batterie al piombo (meno care di quello al litio, ma anche meno longeve) da 3,3 fino a 10 kWh, utilizzabili sia da chi ha impianti incentivati (con accumulo che fa da back up alla rete di casa), che nuovi (con accumulo connesso direttamente ai pannelli). Alla Solon promettono di far aumentare l’autoconsumo dell’elettricità solare fino al 90%, senza immissione in rete dalle batterie. Il lato negativo di questi sistemi è che l’eventuale eccesso di elettricità solare, se la batteria è già carica, non può essere venduto in rete. Ma è uno svantaggio che può essere mitigato dalla giusta combinazione di potenza dell’impianto solare e capacità dell’accumulatore.

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Congresso CGIL: uscire dalla crisi cambiando la politica energetica

 XVII CONGRESSO CGIL: una occasione per uscire dalla crisi cambiando la politica energetica e di sviluppo innovando le politiche del lavoro

Il congresso del più grande sindacato italiano ha per forza (nel bene o nel male) un impatto su tutto il quadro sociale, economico, politico, non solo sui lavoratori, e tra questi, sugli iscritti alla Cgil.

Purtroppo il Governo risulta sordo all’urgenza di varare un piano energetico che colga la necessità di fuoriuscire dal sistema dei fossili e continua ad ignorare il rapporto tra politica energetica, politica industriale, lavoro, ambiente e clima. Sono temi altresì all’ordine del giorno del congresso del più grande sindacato confederale, che realizza la consultazione e il coinvolgimento più democratico oggi realizzabile nel Paese. Anche per questo, nel massimo rispetto dell’autonomia di ognuno, come Associazione “Si alle energie rinnovabili No al nucleare”, siamo interessati ad approfondirne i contenuti in una forma che eviti qualsiasi intromissione e costituisca solo un arricchimento specifico su un terreno che vorremmo praticare insieme.

 

Partiamo dai testi integrali dei due documenti: il primo «Il lavoro decide il futuro», con  una serie di emendamenti collegati, e il secondo «Il sindacato è un’altra cosa»,  che possono essere consultati sul sito www.cgil.it.

Nella ragione sociale della nostra associazione non c’è solo il no al nucleare, ma soprattutto la necessità di trovare una direzione nella transizione energetica, superando le fonti fossili, a partire dal carbone, e sostituendole razionalmente e con congrua urgenza con quelle rinnovabili e l’efficienza energetica. Un altro modello non più basato sulle grandi centrali ma sulla generazione distribuita. I benefici non sarebbero solo ambientali, climatici ed economici (riducendo le importazioni); si porrebbero le basi per avviare una riconversione verso una economia di beni durevoli e sostenibili,  inducendo innovazioni nei cicli produttivi, nella stessa progettazione dei prodotti e dei loro cicli di vita. Un’altra strada per uscire dalla crisi, in alternativa agli investimenti per le grandi opere e per le spese militari, che oltre a valorizzare i beni comuni, creerebbe molte più occasioni di lavoro stabile e qualificato. Un percorso partecipato che necessita di precise scelte di politica industriale e di ricerca e anche di una partecipazione attiva, attraverso una pratica contrattuale coerente  da parte dei lavoratori, e di una consapevolezza dei consumatori, dei cittadini.

Da qui il nostro interesse per il movimento sindacale e per la Cgil. Infatti, su queste basi abbiamo già avuto la feconda occasione di collaborare con Cgil, Spi, Fillea, Flc, Fiom, Federconsumatori,  Sunia, Abitare e Anziani, Auser, al progetto Risparmiare energia a casa tua conviene”.

 

A noi sembra che questa “nuova idea di sviluppo” che salda le questioni sociali a quelle ambientali, ma che non sempre è stata, né è perseguita, con sufficiente coerenza dal movimento sindacale, anche per contraddizioni e oggettive difficoltà, sia sostanzialmente presente nel documento «Il lavoro decide il futuro» (costituito da una premessa generale e da 11 azioni tematiche), se si comprendono ed integrano anche gli emendamenti, sostenuti da alcuni dirigenti confederali e di alcune categorie (Fiom, Flc, Spi, Fillea, Fisac, Fp, ecc..) che hanno un coerente filo conduttore.

 

Questa è la valutazione generale che diamo come associazione; naturalmente chi di noi è iscritto e milita nelle diverse categorie della Cgil, si impegnerà a partecipare alle assemblee congressuali sostenendo queste posizioni con le necessarie articolazioni.

 

 

La Presidenza di “SI alle energie rinnovabili NO al nucleare” (www.oltreilnucleare.it)

 

Vittorio Bardi
Pierluigi Adami
Mario Agostinelli
Paolo Bartolomei
Mauro Bulgarelli
Nicola Cipolla
Massimo de Santi
Alfiero Grandi
Oscar Mancini
Gianni Mattioli
Gianni Naggi
Debora Rizzuto
Massimo Scalia
Alex Sorokin
Umberto Zona

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Carla Ravaioli se ne è andata…. leggera

Vorremo sempre bene a Carla perché ci rimane dentro. In effetti, non le volevamo solo bene: ne coglievamo in ogni istante l’apporto irripetibile per capire più in profondo come stessero le cose, senza limitarsi a dire che tutto sta cambiando solo per disancorarsi dai principi, dai valori, dalla memoria. Magari creandosi l’alibi per non stare più su una frontiera sempre meno presidiata.

La incontravo spesso venendo a Roma e ne apprezzavo la ricchezza di attenzioni anche agli aspetti umani delle relazioni. Bruna, mia moglie, sorrideva quando mi passava le sue telefonate, immancabilmente in orari che ci coglievano negli spazi sereni del ritorno a casa, quasi fosse una di famiglia che, quando viene a trovarti, metti al tavolo con quello che c’è.

Ho scritto un libro con lei sulle 35 ore e la riduzione dell’orario di lavoro in cui c’era tutta l’esplosione di gioia per la possibilità di riappropriarsi di uno spazio di vita, di ambiente restituito alla riproduzione e alla rinnovabilità, di convivialità meritata. Carla era molto bella anche dopo gli ottant’anni: il che faceva sperare a tutti gli estimatori di non invecchiare mai. Non accomodante, ma gentile, non settaria, ma rigorosa, dialogante, ma irriducibile nelle sue convinzioni. Credo sia appartenuta ad una generazione che era in grado ancora di trasmettere a quelle successive: ora se ne va, leggera, senza vivere il dramma della mia generazione che viene “rottamata” perfino dagli amici, prima che dagli avversari. Carla mi ricorda Laura Conti, seppure nella profonda diversità di esperienze, carattere, rapporti con l’eresia in politica. Laura ci è rimasta compagna di viaggio, come lo sarà indubbiamente Carla.

Ti vediamo sorridente anche in questo momento triste. Ma, come per Bruna, a cui tu eri affezionata e di cui ti addolorava la morte, “la vita non finisce mai”.

Mario

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Il fracking si frattura

di Antonio Turiel

Cari lettori,

la bolla del fracking sta giungendo alla sua fine. Già qualche mese fa analizzavamo la bassa redditività del gas e del petrolio sfruttati con questo metodo e l’assurdità economica del loro sfruttamento (specialmente nel caso del gas) e prevedevamo per niente luminoso per il loro sfruttamento, tanto negli Stati Uniti quanto nel resto del mondo. In solo nove mesi molti dei cattivi presagi sull’evoluzione dei giacimenti sfruttati mediante il fracking si sono andati confermando e tutta la bolla finanziaria montata intorno ad esso, sostenuta dall’inganno secondo il quale gli Stati Uniti saranno presto autosufficienti energeticamente è sul punto di sgretolarsi. Ricapitoliamo.

Cominciamo dalle denunce dell’industria stessa, ingannata dalle promesse alimentate dagli speculatori. Se già nell’agosto dello scorso anno Rex Tillerson, amministratore delegato di Exxon Mobile, denunciava al New York Times che nell’affare del gas da fracking “abbiamo tutti perso anche le mutande”, quest’anno è stata la volta di Peter Voser, nel momento in cui ha smesso di essere amministratore delegato della Shell, di riconoscere al Financial Times che la cosa di cui si pentiva di più era quella di essersi messo nel fracking . Il fatto è che nella frenesia del fracking negli Stati Uniti è stato reso prioritario il denaro liquido immediato davanti alla redditività a lungo periodo, dando per scontate condizioni economiche (che costi si sarebbero abbassati e che i prezzi sarebbero saliti) che alla fine non si sono verificate. I prezzi non salgono perché il consumo di gas naturale, dopo un leggero rialzo durante gli ultimi anni, sembra aver raggiunto il tetto e nell’ultimo anno si mantiene simile all’anno scorso, persino leggermente inferiore, se guardiamo i dati del consumo mensile della EIA del Governo degli Stati Uniti.

Pensate inoltre che il consumo annuale cresceva soprattutto perché lo faceva il consumo a valle, nel periodo di minor consumo – l’estate – perché il gas è meno caro in quel momento, il che ovviamente rendeva difficile rendere redditizio l’investimento. I fatti mal si addicono con certa propaganda interessata sulla rivoluzione dello shale gas in America e con l’inganno secondo il quale i prezzi si trovano grazie ad essa ai minimi storici.

Il fatto è che il costo della produzione di gas da fracking non è solo 2 o 3 volte superiore al prezzo attuale di vendita negli Stati Uniti (era necessario vendere il gas a più di 8 dollari ogni 1000 piedi cubici di gas perché tornassero i conti col fracking); il fatto è che lo sforzo necessario a mantenere i livelli produttivi attuali porta ad dover perforare sempre più pozzi ed un ritmo sempre più veloce, esponenziale, il che incrementa i costi reali ancora di più. Cosicché prima o poi doveva succedere ciò che sta succedendo, cioè che alcune delle formazioni più ricche di gas di roccia poco porosa (prima dicevamo gas di scisto ma non è il termine giusto per shale gas; in ogni caso, stiamo parlando del gas che si estrae per mezzo del fracking) stanno già cominciando a declinare. Peak shale gas.

Immagine da Oil Man: http://petrole.blog.lemonde.fr/2013/10/01/gaz-de-schiste-premiers-declins-aux-etats-unis/

Come mostra il grafico sopra di queste sopra queste linee, tratte da un eccellente articolo del miglior blog in lingua francese sul problema delle risorse naturali, Oil Man, le formazioni di Haynesville e Barnett, le due più produttive di gas di roccia poco porosa, sono giunte a loro rispettivi picchi di produzione in dicembre e novembre del 2011, rispettivamente. La stampa convenzionale americana comincia a farsi eco di ciò che sono dati e specula su quando aspettarsi che l’ultima grande formazione, Marcellus, entri in declino.

Naturalmente i promotori di questo tipo di estrazione diranno che si può aumentare la produzione se si investe di più, cosa che si dovrebbe fare con decisione perché, secondo loro, è la fonte energetica del futuro. In realtà si può dire lo stesso del petrolio convenzionale o di qualsiasi altra risorsa che giunge al proprio picco: è sempre vero che investendo di più si può estrarre più gas, petrolio, carbone e uranio. Il problema è che sia redditizio, cosa che, come abbiamo già spiegato, dipende dall’EROEI (redditività energetica, insomma) nonostante che, a quanto sembra, gli economisti non riescono a comprendere un concetto così semplice, ma che si scontra coi loro pregiudizi su come dovrebbe funzionare il mondo per adattarsi ai loro desideri. E’ questo tipo di argomentazione sbagliata quella che porta a vendere come cosa praticamente fatta il miracolo che non arriva del petrolio da acqua ultra profonde del Brasile o della futura produzione di petrolio da Vaca Muerta in Argentina che dovrebbe invertire il declino terminale della produzione di petrolio della nazione andina. Menzogne per il consumo locale, cinismo nell’era del declino.

Per chi non capisca che si possa estrarre il gas di roccia poco porosa nonostante in esso si perdano ingenti quantità di denaro (10.000 milioni di euro solo nel 2012, come mostrava Dave Hughes nell’articolo apparso su Nature questo febbraio) raccomando di guardare i video della serieFrackonomics, al primo dei quali si accede seguendo il link che ho messo nel nome. La questione è semplice: “si tratta di una bolla finanziaria orchestrata da Wall Street”, nelle parole di Deborah Rogers dell’Energy Policy Forum. Se volete più dati sulla farsa dello shale gas  e dello shale oil (del quale parleremo ora) non mancate di visitare il sito ShaleBubble.org.

E cosa succede al petrolio di roccia poco porosa? Questa risorsa non è stata identificata in Europa (qui si parla solo di shale gas), perché i suoi giacimenti sono molto meno numerosi. Come spiegavamo nel post di inizio anno, il petrolio leggero di roccia compatta è redditizio in modo marginale; non darà grandi benefici, ma almeno ne dà qualcuno, non come il gas naturale di roccia poco porosa (l’economia dello shale gas, ad essere onesti, è un po’ più complessa visto che i liquidi associati che appaiono in alcuni giacimenti rendono effettivamente redditizie alcune piattaforme). Tuttavia, le prospettive della sua produzione non sono tanto allegre come quelle delloshale gas: persino la IEA riconosce nei suoi rapporti che la sua produzione sarà sempre marginale (come abbiamo già detto in questo blog). Persino coloro che scommettono su un futuro luminoso per lo shale oil, come Goldman Sachs in un recente rapporto, riconoscono che la sua produzione arriverà al massimo al 2022:

Immagine da Oil Man, http://petrole.blog.lemonde.fr/2013/10/08/le-court-avenir-du-petrole-de-schiste-vu-par-goldman-sachs
 
Tuttavia, una volta che i posti migliori (sweet spots) sono stati sfruttati quello che rimane è più difficile e più caro da estrarre e meno redditizio. Se già per lo shale oil era necessario un prezzo al barile superiore agli 80 dollari, nella misura in cui passa il tempo il prezzo minimo sale finché a un certo momento non lontano questi giacimenti smetteranno di essere redditizi. E per non lontano intendo dire ora: anche se alcuni gestori famosi continuano a lodare gli incredibili vantaggi del fracking, la cosa certa è che il numero di pozzi attivi nella formazione di Bakken (la più produttiva proprio in questo momento) sembrano aver raggiunto un massimo a settembre dell’anno scorso (e ancora a novembre veniva negato), come mostra il grafico seguente, ancora una volta grazie a Oil Man:
Di nuovo la stessa argomentazione: con più investimenti uscirà fuori più petrolio, senza tenere conto che questo aumento di investimento può renderlo non redditizio e che logicamente gli investitori rifuggono gli investimenti non redditizi. Dave Hughes fa una stima più realistica di quello che ci si può aspettare dal petrolio di roccia compatta negli Stati Uniti:
Cioè, a seconda se si riesce ad aggiungere più o meno pozzi nuovi ogni anno il peak shale oil o punto di produzione massima di questo tipo di risorsa sarà nel 2015-2017. Non è un gran cambiamento, in ogni caso e il suo arrivo seppellirà tutti i sogni di indipendenza energetica degli Stati Uniti. E i problemi potrebbero arrivare prima: un articolo recente mette in guardia rispetto al fatto che la produzione dei pozzi di petrolio di roccia compatta attualmente in estrazione crolla di 63.000 barili al giorno in meno ogni mese e ogni volta crolla più rapidamente.
Immagine da SRSrocco Report
Il che non è proprio poco se si tiene in considerazione che equivale al 71% della nuova produzione.
Immagine da SRSrocco Report
Entro poco tempo, forse in un paio di mesi, la nuova produzione non potrebbe già più compensare il declino dei pozzi già attivi: è come correre su un tapis roulant. Tutto questo sembra dare ragione a Dave Hughes ed alle sue stime di quando avverrà il picco del petrolio di roccia compatta.
Le conseguenze di questa festa del fracking sono, naturalmente, molto negative. I gruppi anti fracking di solito si focalizzano sul problema dell’impatto ambientale, soprattutto sotto forma di inquinamento. Alla fine dei conti si devono iniettare ingenti quantità di acqua combinata a prodotti chimici abbastanza aggressivi e la maggior parte di quest’acqua torna in superficie, dove deve essere trattata o semplicemente immagazzinata. Questo aumenta lo stress idrico delle zone di perforazione (in Texas c’è una guerra aperta fra l’industria del fracking e gli agricoltori e gli allevatori) e aumenta il rischio che quest’acqua inquinata arrivi ad esaurirsi se non viene trattata in modo corretto (il che, dato l’ingente consumo e il ritmo frenetico, non è per nulla facile). Dall’altra parte, nonostante il tanto insistere sul fatto che le zone di frattura idraulica sono molto più profonde della falda acquifera e che la cassaforma della perforazione isola perfettamente la falda dalla penetrazione di sostanze chimiche che salgono e scendono, la cosa certa è che si sa che entro 5 anni almeno il 50% delle perforazioni presentano fessurazioni. L’effetto a lungo termine di questo inquinamento persistente pertanto è sconosciuto, data l’applicazione recente su ampia scala di questa tecnica.
Meno conosciuto è il fatto è il fatto che il fracking è un incubo logistico con un grande impatto ambientale più convenzionale a livello superficiale. Le forniture per mantenere la frenetica attività arrivano via strada, in camion carichi di acqua, sabbia e prodotti chimici e nella maggior parte dei siti la scarsa produzione dei singoli pozzi (alcune decine di barili di petrolio al giorno, nel caso deltight oil) fa sì che persino il petrolio e il gas risultante venga trasportato via camion. Questo implica fare grandi piattaforme logistiche, con un grande impatto sul territorio ed altri problemi associati al traffico così intenso (gli incidenti possono essere abbastanza gravi). Ovviamente nessuno paga queste esternalità ambientali. Tuttavia, ci sono altre esternalità che possono portare che possono portare a breve termine alla bancarotta piccole comunità. Come spiega Deborah Rogers, alcune contee del Texas si vedono obbligate a tenere le strade continuamente dissestate  a causa dell’intenso traffico pesante che vi transita grazie a fracking e le tasse che raccolgono non coprono nemmeno lontanamente questa spesa, fino al punto di poter distruggere le casse delle contee. La cosa curiosa della Texas Railroad Commission’s Eagle Ford Shale Task Force che ha analizzato la questione è che implicitamente assume che l’affare smetta di essere redditizio. Quindi, ciò che viene venduto come un nuovo Eldorado può presupporre non solo la rovina ambientale – e quindi economica – a lungo termine, ma persino direttamente quella economica a breve termine nelle comunità dove viene impiantato.
Il fiasco del fracking è una sorpresa, un bel sogno nel quale alcuni imprenditori hanno creduto in buona fede ma che la realtà ha smentito? Be’, in realtà no: una velina al New York Times ha rivelato che già nel 2010 i funzionari del Dipartimento per l’Energia degli Stati Uniti opinavano che era molto difficile che lo shale gas o lo shale oil sarebbero mai arrivati ad essere redditizi. Si potrebbe persino parlare di manipolazione dell’informazione per favorire un determinato affare speculativo, nel quale i promotore gonfiano le aspettative mentre i responsabili dell’amministrazione guardano dall’altra parte finché non esplode tutto. Bene, la stessa cosa della bolla immobiliare che, come i cattivi seriali ora torna con forza in tutto il mondo.
Riassumendo questo lungo post: le risorse estratte mediante fracking si sono potute estrarre soltanto negli Stati Uniti grazie alla forza del dollaro come moneta di riserva e per un tempo limitato. Si fa importando energia incorporata nei materiali usati ed esportando inflazione e miseria, ma ma nemmeno così si riesce a farlo durare molto tempo. Ed ovviamente un tale schema non è fattibile nemmeno lontanamente in Europa.
Dimentichi della sempre più evidente decadenza di questo tipo di estrazione negli Stati Uniti, in Spagna uno degli ultimi movimenti dei gruppi pro fracking è stato quello di tirar fuori questo video di lode dei sui benefici e di minimizzazione dei suoi problemi. Intanto, decine di gruppi locali contro il fracking, si mobilitano per cercare di bloccare i permessi. La battaglia è sempre più amara , ma a queste latitudini è chiaro che la prima parte può solo perdere, anche se questo non significa che la seconda vinca. In realtà la cosa più facile è che tutto il mondo perda se non si impone il buon senso.
Saluti.
AMT
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