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Lo dice Oxford, le grandi dighe non convengono, meglio piccoli progetti

di Davide Vannucci – www.pagina99.it

Secondo uno studio di Oxford, oltre a costare troppo, le grandi dighe rendono poco. È un’indagine certosina su 245 grandi dighe costruite tra il 1934 e il 2007 in 65 Paesi. E la conclusione è che è meglio concentrarsi su piccoli progetti

È difficile separare il concetto di keynesismo dall’immagine della Diga di Hoover, soprattutto nei manuali di politica economica. Del resto, la Hoover Dam, costruita negli anni Trenta sulle rive del Colorado, al confine tra l’Arizona e il Nevada, è il paradigma dell’opera pubblica ben fatta, che riesce nell’impresa di rilanciare l’economia e promuovere l’occupazione.

La diga è, nell’immaginario umano, il simbolo di una natura domata, un ulisside, un prodotto dell’ingegno e dell’astuzia, che piega il dato naturale verso il bisogno, ancor più di un ponte o di una galleria. È l’emblema del progresso, della tecnica che indirizza l’elemento primordiale, lo converte in energia, nel motore di uno sviluppo che si presuppone infinito. Non a caso, tutti i Paesi, o quasi, in una fase di boom, o di rilancio della propria economia, hanno costruito una diga. L’esempio (tragico) del Vajont è sotto gli occhi di tutti.

Questo fattore non è passato inosservato all’università di Oxford, i cui ricercatori hanno svolto un’indagine certosina su 245 grandi dighe costruite tra il 1934 e il 2007 in 65 Paesi. Il risultato? Quella di Hoover sembra essere un’eccezione. Nella stragrande maggioranza dei casi, costruire enormi dighe è antieconomico, provoca danni ambientali e trasferisce debiti onerosi sulle generazioni future.

La grande infrastruttura rooseveltiana è un’anomalia non solo perché raggiunse il proprio scopo, quello di fornire elettricità a basso costo agli Stati del Sud-ovest, durante la Grande Depressione, ma anche perché venne terminata due anni prima rispetto alle previsioni, con un costo inferiore di 15 milioni di dollari a quanto era stato stanziato. Secondo gli oxfordiani, invece, le dighe hanno superato mediamente il 97 per cento del loro budget iniziale, con il caso limite di Itaipù, al confine tra Brasile e Paraguay, che venne a pesare il 240 per cento in più del previsto. Anche i tempi di costruzione non sono mai stati in linea con i progetti iniziali (una media di 8,2 anni, 2,3 anni in più rispetto a quanto pianificato).

Eppure la corsa a costruire dighe non conosce sosta. Il leader del settore è la Cina (metà delle grandi infrastrutture di questo tipo si trova nel Celeste Impero e le compagnie di Pechino sono impegnate in più di 300 interventi, in 70 diversi Paesi). Il Brasile, dal canto suo, ha lanciato un enorme progetto a Belo Monte, il Pakistan a Diamer-Bhasha. Persino l’Etiopia ha avviato la costruzione della cosiddetta Gilgel Gibe III, 243 metri di altezza, sul fiume Omo (il cui appalto è stato vinto dall’italiana Salini).

La Banca Mondiale vede con favore le mega-infrastrutture idroelettriche, una posizione non condivisa dal Congresso americano, che ha chiesto all’amministrazione Obama di opporsi con forza all’interno delle istituzioni finanziarie internazionali. La ragione del costante interesse per le dighe non è misteriosa: si stima che tra il 2010 e il 2040 il consumo di energia crescerà del 56 per cento. Il nucleare viene messo in discussione (anche se in Asia il numero dei reattori tende a crescere), né si può vivere di solo petrolio, gas o carbone. Più del novanta per cento dell’energia prodotta da fonti rinnovabili viene dalla dighe. Media e politici discutono sempre di eolico, solare, geotermico, ma è l’idroelettrico a dominare ancora in questo campo.

Eppure, come sottolinea Bent Flyvbjerg, il ricercatore capo degli oxfordiani, l’impatto ambientale delle dighe non è del tutto neutro, sia per l’emissione di CO2, sia per la produzione di una grande quantità di metano. Per non parlare dei costi sociali, come il disagio, o meglio il trauma, causato ad interi villaggi, obbligati improvvisamente a trasferirsi, abbandonando tradizioni ed abitudini secolari. Il film cinese “Still Life”, vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 2006, descrive l’alienazione di una comunità costretta a cambiare vita a causa della costruzione della Diga delle Tre Gole, sul Fiume Azzurro.

Nel mirino degli oxfordiani ci sono i grandi progetti, veri e propri behemoth, i cui costi tendono inevitabilmente a crescere in corso d’opera. La già citata diga di Belo Monte – la cui costruzione è stata sospesa più volte per gli interventi della magistratura, a causa di ragioni ambientali – dai 14,4 miliardi di dollari di partenza dovrebbe passare a 27,4 miliardi, lasciando in rosso le casse statali, in un Paese che sta soffrendo proteste di massa per l’eccessivo aumento del costo della vita. I danni riguardano anche l’impatto sull’ecosistema. Si calcola che il grande progetto delle Tre Gole avrà un costo ambientale di 26,45 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni.

Prendere a prestito denaro, spesso in valuta straniera, per finanziare grandi progetti infrastrutturali di questo tipo è un azzardo, soprattutto per le economie ancora fragili, al primo stadio del loro sviluppo. La diga etiope, per fare un esempio, peserà sul budget statale per almeno 2,1 miliardi di dollari, senza contare le conseguenze sulla vita quotidiana degli abitanti della bassa Valle dell’Omo e sulle loro attività produttive, come la pesca. Meglio concentrarsi su piccoli progetti, scrivono ad Oxford, perché le dighe sono comunque necessarie, anche per irrigare i campi, fornire acqua potabile e gestire gli stessi sbalzi climatici, (permettono di accumulare riserve idriche, o di mitigare la piena dei fiumi in caso di forti piogge), oltre ad essere un ottimo volano per l’occupazione (il progetto di Belo Monte darà lavoro a 20.000 persone). Il discorso è valido soprattutto per i Paesi in via di sviluppo, dove si concentra la maggior parte degli investimenti futuri. Qui i capitali privati sono scarsi e tutti gli oneri si riversano sulle casse pubbliche. Fare il passo più lungo della gamba potrebbe essere una scelta esiziale.

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Sequestrata la centrale a carbone di Vado Ligure

Intorno alle 13 di oggi i carabinieri sono entrati nella centrale a carbone Tirreno Power di Vado Ligure e Quiliano e l’hanno posta sotto sequestro per attuare l’ordinanza del Giudice delle indagini preliminari, Fiorenza Magni,  che prevede lo spegnimento dei gruppi a carbone e il commissariamento della centrale

La Giorgi imputa a Tirreno Power si imputa l’assenza del sistema di monitoraggio a camino, che avrebbe dovuto essere realizzato entro il 14 settembre 2013, ma dice che «una volta attuate le prescrizioni la centrale potrà ripartire».

Secondo l’ordinanza c’è stato un «comportamento negligente» e «i dati sulle emissioni provenienti dalle centraline sono inattendibili». Inoltre «le indicazioni dell’Aia non sono state rispettate».

Santo Grammatico, presidente di Legambiente Liguria, ha dichiarato: «Ben venga il sequestro e la chiusura degli impianti a carbone della centrale di Vado Ligure. Negli ultimi mesi i controlli effettuati da organismi istituzionali e la stessa Procura avevano evidenziato le problematiche sanitarie ed ambientali prodotte dalla presenza della centrale su questo territorio. Non è un caso che i capi di imputazione per gli indagati siano il disastro ambientale e l’omicidio colposo. Da anni denunciamo il rischio di convivenza tra la popolazione locale e le attività produttive legate al carbone, uno dei peggiori combustibili ancora oggi utilizzato per la produzione di energia elettrica».

Secondo Stefano Ciafani, vicepresidente di Legambiente, «il sequestro dell’impianto della Tirreno Power di Vado Ligure (Sv) rappresenta un importante passo avanti nella lotta all’inquinamento ambientale e sanitario da anni denunciato in Liguria. Ora ci aspettiamo che la centrale a carbone di Vado Ligure venga riconvertita con progetti utili e sostenibili e che possa così diventare un esempio da seguire anche per gli altri impianti industriali vecchi e inquinanti presenti ancora in Italia, che arrecano solo danni all’ambiente e alla salute dei cittadini. Dall’altra parte è però necessario che ci sia un cambio di rotta nella politica energetica di questo Paese. È ora di dire basta ai sussidi per le fonte fossili e alle politiche a favore del carbone, bisogna invece optare per una politica energetica che guardi alle fonti rinnovabili e alla riqualificazione energetica del patrimonio edilizio italiano. Al premier Renzi cogliamo l’occasione per ricordare che si possono recuperare le risorse tagliando i sussidi alle fonti fossili».

Anche l’assessore all’Ambiente della Regione Liguria, Renata Briano, ha sottolineato che «le inottemperanze e le inosservanze alle prescrizioni dell’Aia ( l’autorizzazione ambientale integrata) che hanno motivato il provvedimento sono contenute in un verbale di Ispra dopo una visita fatta insieme con i tecnici di Arpal alla centrale. Il dipartimento Ambiente della Regione Liguria aveva già precedentemente inviato, fra l’altro, una serie di lettere al Ministero dell’Ambiente, in cui si chiedeva di verificare l’esistenza di inadempienze ambientali sull’Aia stessa».

I sindacati sono preoccupati per i circa 700 i lavoratori della  produzione di energia o che lavorano per la Tirreno Power di Vado Ligure e Quiliano, Maurizio Perozzi della Rsu, ha detto al Secolo XIX: «Siamo allibiti per la portata del provvedimento deciso dal tribunale e richiesto dalla Procura. Già domani chiederemo di essere ricevuti dal Prefetto Gerardina Basilicata per poi essere convocati urgentemente dal ministero. Una situazione del genere è decisamente pesante e non ce l’aspettavamo». Pino Congiu, segretario della Uilcem di Savona, però ammette che ci sono diverse cose che non vanno: «Sono i due gli aspetti che gravano sulla centrale. Uno riguarda le rigorose prescrizioni imposte dall’Aia. L’altro è la crisi che da tempo grava anche in questo settore. Non vorremmo che questa chiusura potesse avere delle conseguenze gravi anche sui lavoratori».

 

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Ucraina, il gas che attizza i roghi di Kiev

Torneremo a vivere in un continente che – come mezzo secolo fa – era metà sotto il tallone degli Usae metà sotto quello dell’Unione Sovietica? Saranno ancora le armi ospitate sul suo territorio a segnare il ruolo subalterno dell’Europa tra i contendenti? La tragedia ucraina è presentata intermini geopolitici non convincenti: l’Ucraina aderirà alla “democratica” Unione Europea o manterrà legami con il “dispotico” impero russo?

È vero che i confini della moderna Ucraina contengono una crepa Est-Ovest, che è linguistica, religiosa, economica e culturale. Ma finora la frattura non sembrava comportare irreparabili minacce di guerra. Ben più decisiva sembrerebbe la determinazione dell’economia e della finanza che dominano il mondo nello sfruttare fino allo sfinimento le fonti energetiche fossili che superano in enormi condotte grandi distese o giacciono sotto quelle grandi pianure, in spregio alla realtà del cambiamento climatico e in insostenibile alternativa al sistema diffuso delle fonti rinnovabili, là pressoché sconosciute.

Victoria Nuland, vice Segretario di Stato per gli affari europei – un superstite della cricca neoconservatrice che circondava George W. Bush – catturata da una telecamera nascosta mentre bisbigliava: “che gli Europei si fottano!”, parla esplicitamente di una lotta tra Europa e Stati Uniti, terrorizzati – questi ultimi – da un’alleanza geopolitica tra Germania, Francia e Russia all’interno della transizione energetica in corso.

La verità è che l’Europa attuale ha abdicato di fronte alla politica finanziaria ed energetica dellecorporation multinazionali e alla geopolitica militare che punta all’annessione dell’Ucraina alla Nato: il modello dell’Est è fatto di carbone, gasdotti e giacimenti fossili da controllare con l’esibizione degli eserciti, mentre il controllo del clima è subordinato alla competizione nel mercato.

Il fattore “scatenante” dei roghi di piazza e dell’entrata dei blindati russi in Crimea potrebbe essere individuato nello shale gas, o meglio nelle grandi risorse di gas ucraine estraibili con la tecnica del fracking, con la conseguente concorrenza alle condotte che portano gas convenzionale dalla Russia interna ed estrema.

La possibile eppur trascurata spiegazione dell’intreccio economico che sta dietro la guerra civile di Kiev e l’invasione della Crimea, viene addirittura da una fonte insospettabile come il think thank Conservative Home, che si definisce “la casa del conservatorismo”. Harry Phibbs – il principale columnist del web di Conservative Home – ricorda che “lo scorso novembre ci fu un accordo di coproduzione da 10 miliardi dollari per il gas da scisto, firmato dall’Ucraina con laChevron, che faceva seguito ad un precedente, simile accordo con la Royal Dutch Shell”. E aggiunge che “l’Ucraina è uno dei campi di battaglia per la rivoluzione dello shale gas, dato che finora l’Occidente per le sue forniture di petrolio e gas tradizionali è stato fortemente dipendente da un instabile Medio Oriente e da una Russia inaffidabile”.

Questo serve anche a spiegare il rumoroso silenzio sulla vicenda ucraina del fedele amico di Putin,Silvio Berlusconi, e di buona parte del gotha energetico italiano che con Putin e con la sua oligarchia autoritaria dello Stato-mercato energetico russo fa e ha fatto affari d’oro, pur non ritraendosi dall’avventura del gas non tradizionale, finora avversata dall’Ue.

Da tempo l’Ucraina punta a diventare, da problematico Paese di transito del gas russo, un Paese produttore di shale gas, sostenuto dalla Global Shale Gas Initiative promossa dagli Stati Uniti per fornire supporto tecnologico e know how attraverso il coinvolgimento delle proprie compagnie energetiche.

A riguardo, l’Italia non sta con le mani in mano. Scaroni, amministratore delegato del gruppo Eni in odore di riconferma col governo Renzi, il 27 novembre 2013 ricordava, a margine della presentazione dell’opera della Madonna di Raffaello a Palazzo Marino, di avere 9 blocchi esplorativi per il gas non convenzionale nelle regioni vicine alla Crimea (Lliv).

Insomma: lo sfruttamento del gas non convenzionale da parte di Usa, ex satelliti sovietici e Cina potrebbe privare Mosca del suo ruolo di fornitore energetico dominante, togliendo al Cremlino una formidabile arma economica e geopolitica.

La partita tuttavia è apertissima, perché il diffondersi su scala globale di una shale gas revolution appare complicato da una serie di fattori economici e tecnologici, nonché dal suo devastante impatto ambientale.

Ma dovrebbe colpirci come questo acutissimo conflitto avvenga tutto all’interno delle vecchie fonti – gas, petrolio e, di riflesso, carbone – su cui si sostiene un modello che ha un presente di guerra, ma non ha un futuro né sul piano della soluzione della crisi ambientale e economica, né sul versante dell’occupazione e della democrazia. Ecco perché, quando è più evidente il richiamo delle armi, è tanto più urgente andare alle radici delle motivazioni per la loro entrata in campo. E la soluzione di una energia rinnovabile, decentrata, governata e conservata democraticamente sul territorio diventa a questo punto ineliminabile.

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Un governo ignaro di rinnovabili e clima

Se il buongiorno si vede dal mattino, per il settore delle rinnovabili e dell’efficienza energetica non tira proprio un vento a favore, vista la nomina dei due ministri ‘competenti’ in materia da parte del neo presidente del consiglio Matteo Renzi. E’ pur vero che le valutazioni sulle persone si fanno sulla base di atti concreti, ma è proprio la direzione presa con la scelta dei due responsabili ai dicasteri Sviluppo e Ambiente che non sembra rendere centrale l’industria low carbon e le questioni ecologiche. Intendiamoci, non che il recente passato sia stato un alternarsi di ministri folgorati sulla via della green economy. Dove non hanno fatto disastri (più o meno consapevoli) per questi comparti, nel migliore dei casi sono stati ininfluenti (almeno il ministro Orlando si era speso per obiettivi distinti e vincolanti per rinnovabili ed efficienza energetica al 2030).

Al ministero dello Sviluppo Economico ci sarà Federica Guidi la cui nomina già in queste ore sta diventando un fattore di criticità del nuovo governo per i conflitti di interesse di cui è portatrice. Figlia dell’industriale Guildalberto Guidi, storico rappresentante della Confindustria, laureata in giurisprudenza, è stata presidente dal 2008 al 2011 dei Giovani imprenditori di Confindustria. Tanto per capirci, parliamo di quella parte di Confindustria che avallava l’idea dell’ad di Enel, Fulvio Conti, dicostruire 4 o 5 centrali nucleari in Italia. Quel ritorno al nucleare avrebbe portato, a regime, almeno altri 60 TWh all’anno. Alla faccia della storica overcapacity. Alla luce degli obiettivi 2020 e di quelli che poi sarebbero stati definiti al 2030, del lento declino della produzione domestica già in atto e di una domanda che dal 2011 è in costante calo (con circa 108 TWh su 318 coperti da rinnovabili nel 2013), ci saremmo dovuti sorbire un enorme surplus di elettricità, oltre i costi e i rischi di quel piano, in fondo solo per dare ossigeno ai soliti pochi appaltatori dell’impresa. Ricordiamocelo sempre quando li sentiamo in coro pontificare sui costi delle rinnovabili unica causa, a loro dire, del caro bolletta e sulle illuminanti visioni dell’energia del futuro.

In un’intervista a Il Tempo nel giugno del 2008, la neo ministra Guidi affermava: “Abbiamo le centrali nucleari a pochi chilometri dai nostri confini. Dunque non farle sul nostro territorio è un falso problema. C’è stato un terremoto in Giappone e il sistema di sicurezza delle centrali ha tenuto. Inoltre pur non essendo esperta del settore sento parlare di nucleare di terza o quarta generazione e di un livello di prevenzione del rischio ancora più elevato. Questo può bastare per dare una risposta a un costo dell’energia che in Italia è più alto del 30% rispetto ai partner europei. Un ultimo aspetto è che possiamo rientrare in pista anche dal punto di vista commerciale in un settore in cui eravamo leader”. Ecco, non è esperta in materia. Per una ministra che dovrebbe essere un tecnico non è un bel biglietto da visita.

Dopo il giuramento al Quirinale, correttamente Federica Guidi si è dimessa dalle cariche operative della società di famiglia, la Ducati Energia, ma resta lampante il conflitto d’interessi. La sua azienda opera in tutti i settori controllati dal suo Ministero: energia elettrica, eolico, meccanica di precisione, eccetera. E inoltre, i suoi prodotti sono venduti a società pubbliche di cui lo Stato è ancora azionista come Enel, Poste o Ferrovie dello Stato.

Solo per fare un esempio la Ducati Energia è tra le aziende in gara, insieme ad altre inclusa la turca Karsan, per l’acquisto della Bredamenarinibus, la più importante azienda italiana produttrice di autobus che deve essere ceduta da Finmeccanica (controllata al 30% dallo Stato). La Guidi uscirà dalla stanza del consiglio dei ministri, come diceva di fare Berlusconi, quando all’ordine del giorno c’era da discutere di uno dei suoi molteplici affari privati? Non prendiamoci in giro. Siamo curiosi di sapere cosa dirà l’Antitrust sulla posizione della neo-ministra.

Il ‘premier rottamatore’ aveva per questo dicastero due altre cartucce: l’amministratore delegato delle Ferrovie Mauro Moretti e Luca Cordero di Montezemolo. Non proprio due figure dalla riconosciuta nomea verde.

Pare che essere esperti non sia una condizione fondamentale per la scelta dei ministri e il governo Renzi non si allontana da questa linea.

All’ambiente infatti c’è Gian Luca Galletti, laureato in scienze economiche e commerciali, succede ad Andrea Orlando, a sua volta nominato ministro della Giustizia. Appartenente all’Udc, si è occupato di finanzia pubblica, ma mai di tematiche ambientali. Insomma c’era da assegnare un ministero al gruppo parlamentare di Casini ed è stato scelto quello meno conteso, in perfetto stile prima repubblica. E questo dà la cifra del richiamo per il nuovo premier dei temi ambientali.

I due ministeri sono stati assegnati a due personalità di centro-destra, in un governo che dovrebbe avere soprattutto un profilo di centro-sinistra (altro conflitto?) e rispondere a quella sfida di totale cambiamento di cui tanto parla l’ex sindaco di Firenze. Ma a prescindere dalla loro collocazione politica, che lascia il tempo che trova visti i recenti risultati bipartisan, molti ricordano che Renzi nei suoi famosi discorsi alla Leopolda dava spesso grande rilevanza ai temi ambientali, alle energie rinnovabili, si diceva contrario alle grandi opere inutili e alla cementificazione del territorio. Quando si parla di fatti! Queste sono scelte a prima vista in forte controtendenza, un puro compromesso per chi afferma di voler rivoluzionare il paese.

Aspettiamo ovviamente di essere smentiti, ma il rischio di ritrovarsi, al solito, con ministeri che si assumono il ruolo di meri fiancheggiatori dei grandi gruppi industriali ed energetici è evidente.

24 febbraio 2014
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Governo Renzi. Pace, acqua, energia: fine della ricreazione!

di Mario Agostinelli

Il funambolico Matteo Renzi ci ha presentato la sua squadra con i fasti di un evento “son et lumières”: sorrisi ammalianti, nidiate tricolori, cascate di flash su griffes impeccabili. Ma il suo delfino Delrio si è dovuto subito dopo occupare delle biografie di ministri e ministre sicuramente non inappuntabili. Così sospette, da convincermi che il nuovo governo sia nei suoi punti chiave schierato manifestamente contro i 27 milioni di cittadini che hanno votato sì ai referendum del 2011 e risulti ostile a quei movimenti per la pace e la sostenibilità legittimati da una forte partecipazione dal basso. Partecipazione radicata, che una domenica di primarie con due milioni di consensi una tantum dovrebbe comunque rispettare, se non riconoscere come risorsa e valore.

Oltre alla riconferma di Lupi, pro-grandi opere e pro-Tav, le new entries Galletti e Guidi, che muoveranno le risorse economiche più importanti per la politica industriale, l’energia, l’ambiente, e il clima, si sono fin qui contraddistinte a favore della privatizzazione dell’acqua e del ritorno del nucleare e non danno segni di ripensamento. Pinotti, a sua volta, è ben nota nell’ambiente militare e industriale – in particolare in Finmeccanica e Fincantieri – per essere pro-industria bellica, in buona continuità con il suo predecessore Mauro. Ma andiamo con ordine.

Gianluca Galletti, neo ministro dell’Ambiente, è un commercialista che non ha mai masticato ambiente in vita sua. Proseguirà la tendenza della Prestigiacomo e di Clini in direzione di una industrializzazione dell’Ambiente: a favore delle energie fossili, per la privatizzazione dell’acqua, a sostegno della fusione finanziaria delle utility pubbliche rimaste. Mirabolanti le dichiarazioni rese sull’acqua pubblica: “I partiti che hanno sostenuto il referendum sull’acqua e le Regioni che hanno proposto ricorso alla Corte Costituzionale si devono ora assumere la responsabilità di aver causato un danno enorme al Paese nel suo momento più difficile.” E non sono da meno quelle sul nucleare, quando, candidato alle regionali dell’Emilia Romagna dichiarava: “Se mi dimostrano che in tutta Italia il sito più sicuro e più economico è in Emilia-Romagna io non avrei timore a mettere un reattore nucleare proprio qui.”

Federica Guidi, neo ministro per lo Sviluppo economico, già beccata per una cena ad Arcore da Berlusconi, per parlare anche di una sua possibile candidatura con Forza Italia alle prossime europee, è inconflitto di interessi con Enel, Poste, Ferrovie per l’azienda di famiglia da cui si è prontamente dimessa, la Ducati Energia. Dice del suo incarico Stefano Fassina, ex vice ministro dell’Economia: “Il potenziale conflitto di interessi è del tutto evidente. Ma oltre a questo mi preoccupa la visione del ministro sulla politica industriale, la sua idea di rilanciare il nucleare, la sua contrarietà al ruolo dello Stato nell’economia.”  Nota per aver sostenuto l’abolizione del contratto nazionale di lavoro da sostituire con accordi individuali, ha attaccato le municipalizzate ancora a prevalenza di capitale pubblico e sostenuto con decisione il passaggio in mano privata delle fasi più remunerative del ciclo integrato dell’acqua.

Roberta Pinotti, neo ministro alla Difesa, sostiene la funzione dell’organizzazione e dell’intervento militari per l’aiuto che forniscono in tutti gli eventi calamitosi. Contraria alla riconversione dell’industria bellica, arriva ad affermare: “Se si decidesse che non è ‘etico’ avere un’industria militare, dovremmo rinunciare a una quota dell’uno per cento del prodotto interno, che dà lavoro a 50mila addetti diretti e a 150mila nell’indotto. Auspico investimenti nella ricerca e nello sviluppo dell’alta tecnologia militare da riversare nei dispositivi civili”. Come insegna l’avventura F-35.

Accanto alla Mogherini, grande fautrice dell’integrazione fra Nato ed Unione Europea, darà filo da torcere ai sostenitori dell’inutilità dell’acquisto dei caccia F-35 ed Eurofighter.

Quando Delrio dice che “sui ministri tecnici non abbiamo chiesto a nessuno per chi votavano e non ci interessava saperlo, ma sapere cosa avrebbero fatto nel settore in cui si sarebbero impegnati”, tenta di glissare sul significato politico delle designazioni antireferendum e antidisarmo, che, in quanto a contenuti, parlano più chiaro degli opportunismi e della volatilità del voto.

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