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Gli F-35 servono al nucleare: cancelliamoli!!!

Gentili rappresentanti del popolo alla Camera dei Deputati,

cancelliamo, non ridimensioniamo soltanto il programma di acquisto degli F35!!!

Ricordiamo che servono alla guerra nucleare e che la nostra Costituzione è pacifista!!!

in allegato:

1- gli F35 servono al nucleare

2- il disarmo mondiale passa da Ghedi ed Aviano

L’art. 4 della legge delega n. 244/2012 per la revisione dello strumento militare nazionale ha ricondotto alla piena sovranità al Parlamento le decisioni in materia di spese della Difesa sugli armamenti; Parlamento che ha già disposto un’indagine conoscitiva sull’acquisto dei cacciabombardieri d’attacco – con capacità nucleari – F35, già conclusa – se le nostre informazioni non sono errate – a febbraio scorso.

Spetteranno ora alle Camere le decisioni e gli atti conseguenti e la prima discussione, come ben sapete, è prevista alla Camera il 4 aprile pv., quando verranno prese in esame dalla Commissione Difesa le conclusioni ufficiali della citata indagine conoscitiva sui sistemi d’arma.

Apprendiamo dalla stampa che il Consiglio Supremo di Difesa avrebbe messo in atto manovre dilatorie sostenendo che ogni decisione dovrebbe essere successiva alla messa a punto del “LIBRO BIANCO” (studio che dovrebbe essere pronto a dicembre) che dovrà stabilire quali sono le minacce future per la sicurezza nazionale del nostro Paese e gli strumenti militari adatti a fronteggiarli.

Apprendiamo altresì che esiste un gruppo di parlamentari che punta a trasformare le conclusioni dell’indagine conoscitiva, prevista per il 4 aprile, in una risoluzione da far votare in aula che impegni il governo a sospendere i contratti del programma F35 – questa volta davvero, visto che l’attività contrattuale, sempre se la stampa non equivochi, sta continuando ad andare avanti – in vista di un suo significativo ridimensionamento.

Nei testi allegati si sottopone alla vostra attenzione un aspetto trascurato, la finalità nucleare degli F35, che, a nostro modesto parere, dovrebbe indurre tutti i cittadini fedeli allo spirito pacifista della nostra Costituzione, quale che sia la natura ed il livello della loro responsabilità, ad accettare non il ridimensionamento del programma ma la sua totale cancellazione.

Questa finalità è la conseguenza degli accordi di condivisione nucleare (“Nuclear Sharing agreements“) in ambito NATO, stipulati nel periodo della guerra fredda, ma tuttora in vigore ed operativi.

Ne derivano:

– lo stoccaggio delle B61 (atomiche USA “tattiche”) nelle basi di Ghedi ed Aviano

– l’addestramento di piloti italiani all’uso possibile dell’arma nucleare in attuazione della modalità della “doppia chiave” (qui è più specificatamente in ballo Ghedi). Sarebbero due i poligoni nel nostro paese nei quali i piloti si addestrano al bombardamento con le B61: Capo Frasca in provincia di Oristano e Maniago II in provincia di Pordenone;

– la partecipazione dell’Italia alle riunioni del Nuclear Planning Committee della NATO.

Quello che, per non farla troppo lunga, sottolineiamo nel file allegato dal titolo: “Gli F35 servono al nucleare” è che vedremmo giustamente impostato un dibattito non incentrato sulla quantità della spesa rispetto a presunti benefici (questi aerei ultra-costosi funzionano o sono solo un bidone?) ma sulla qualità della scelta, che deve fare riferimento a domande molto più di fondo e non eludibili.

Queste le domande che segnaliamo: se gli F35 sono (anche) dei bombardieri, chi dovremmo andare a bombardare?

Ed ancora più a monte: come facciamo a gettare acqua sul fuoco di un contesto internazionale i cui focolai possono far deflagrare un grande incendio?

Come, puntando sulla prevenzione e non aspettando che i buoi siano scappati dalla stalla, agiamo in modo che sia inutile pensare che possa servire andare a bombardare qualcuno?

Terza domanda infine: se qualche conflitto fosse sfuggito di mano e ci trovassimo costretti all’uso della forza, bombardare con armi nucleari, come purtroppo sta nei nostri piani ufficiali, sarebbe una opzione idonea al raggiungimento di qualsiasi obiettivo razionale?

Quale allora la via che ci permettiamo di suggerire?

Per rispondere a queste domande in modo alternativo rispetto all’inerzia delle dinamiche imperanti – ma anche in modo convincente – dovremmo riuscire ad affermare – e con un po’ di sforzo la nostra sensazione è che possiamo farcela! – tre presupposti nel dibattito e nella mentalità pubblica: la sicurezza comune, la nonviolenza come forza potente, la difesa difensiva come attuazione del dettato costituzionale.

Nel file allegato dal titolo “Il disarmo mondiale passa da Ghedi ed Aviano” è invece contenuto un dossier del periodico Difesa-ambiente, n. 1- 2014, (di cui Alfonso Navarra che vi scrive è direttore responsabile) che approfondisce la notizia del collegamento tra le atomiche USA in via di ammodernamento nelle basi di Ghedi ed Aviano e gli F35, trattando in sostanza l’assurdità delle dottrine di impiego odierne dell’arma nucleare.

Vi chiediamo, in sostanza, di recepire l’appello contenuto nell’ultimo pamphlet di Stéphane Hessel, tra i principali estensori della dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo. Il grande partigiano, scomparso da poco, in “ESIGETE! Il disarmo nucleare totale” (appena tradotto in Italia dalla EDIESSE e curato da Mario Agostinelli, Luigi Mosca ed Alfonso Navarra) ci ammonisce: “I nemici di ogni Stato non sono gli altri Stati, i veri nemici sono comuni a tutti gli Stati, ed essi si chiamano: la miseria nel mondo, la mancanza di istruzione, la degradazione dell’ambiente, le catastrofi naturali, le epidemie, la corruzione, i fanatismi… E’ dunque contro questi nemici che si tratta di concentrare tutto il potenziale di cui l’Umanità dispone, di intelligenza, di iniziative solidali, di creatività… e non in una corsa folle ad ogni sorta di armamenti!

Milano 31 marzo 2014

Mario Agostinelli – Presidente dell’Associazione Energia Felice (ARCI) (www.energiafelice.it) – cell. 335/1401703

Alfonso Navarra – in nome e per conto di FERMIAMO CHI SCHERZA COL FUOCO ATOMICO (www.osmdpn.it) tel. Ufficio 02-5810.1226 cell. 340/0878893

Scarica i documenti:

Gli F-35 servono al nucleare

Il Disarmo mondiale passa da Ghedi ed Aviano

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Le utility al bivio: status quo o generazione distribuita?

Difendere disperatamente lo status quo o adattarsi ai tempi che cambiano? Le utility in questa fase di transizione sono di fronte a questa scelta. Se nella maggior parte dei casi le grandi compagnie elettriche si limitano ad una strategia difensiva, non manca chi si attrezza al cambiamento, iniziando ad operare nell’efficienza energetica e nella generazione distribuita da rinnovabili. Anzi questa, secondo gli analisti, è una delle tendenze verso cui andrà il sistema dell’energia nei prossimi anni.

Le aziende elettriche tradizionali fondate sul modello energetico centralizzatosaranno presto a rischio di sopravvivenza a causa della riduzione della domanda e dell’aumento della concorrenza causata dalla diffusione di impianti di generazione distribuita da rinnovabili in autoconsumo, fotovoltaico con batterie in primis. Il rischio è ventilato da tempo in diversi report. Per citarne solo alcuni dei quali abbiamo parlato: quello del gruppo bancario USB  a quello dell’Edison Institute, passando dal dossier di Citigroup, fino al recente studio del Rocky Mountain Institute, che prevede tra il 2020 e il 2030 negli Usa, grazie al calo dei costi di FV e storage, ildistacco dalla rete di circa dieci milioni di utenze.

La strategia delle utility nella maggior parte dei casi è stata essenzialmente quella dipuntare i piedi: difendere l’esistente premendo per misure che rallentino la diffusione delle rinnovabili in autoconsumo. In Italia, ad esempio, abbiamo visto come Enel sia tra i più accesi fautori della proposta della nostra Autorità per l’Energia – a quanto parecondivisa anche dal MiSE – di far pagare oneri di rete e/o di sistema sull’energia autoconsumata.

Altri due grandi fronti della guerra di trincea delle compagni elettriche contro l’autoconsumo sono Stati Uniti e Australia. Negli Usa, come abbiamo scritto, ALEC, la potente lobby di legislatori conservatori e liberisti, da sempre in prima linea nel difendere gli interessi delle fossili, ha messo tra le sue priorità quella di frenare la proliferazione del solare in autoconsumo con iniziative legislative volte a colpire ilnet metering, cioè i meccanismi paragonabili al nostro Scambio sul Posto. In particolare, si vorrebbe ridurre il compenso che le utility sono tenute a versare per l’energia immessa in rete dai piccoli impianti FV e si vorrebbe che a questi siano fatti pagare specifici oneri per l’uso della rete. Ad esempio in Arizona da novembre si è imposta una tassa sul FV per l’uso della rete di circa 5 dollari al mese per un impianto a 3 kW; l’utility locale, APS, si era battuta addirittura affinché l’importo della tassa fosse 10 volte più alto, pari a circa 50 dollari al mese per impianto residenziale.

Se le utility stanno per lo più giocando in difesa, però, non vuol dire che non abbiano capito l’urgenza di cambiare il proprio modello di business. E diverse hanno già cominciato a muoversi, investendo nella generazione distribuita: sarà questa la tendenza dei prossimi anni, prevede Cleantech, che nel suo Clean Energy Trends(pag. 10 e seguenti) elenca una serie di operazioni che vanno in tal senso sul mercato Usa.

Il gigante Edison International, ad esempio, ha di recente acquisito SoCore Energy, azienda di Chicago che installa FV su tetto; NextEra Energy Resources, ramo di Florida Power, ha acquistato Smart Energy Capital, portafoglio di aziende del FV. Altre utility hanno acquistato azioni di Clean Power Finance (CPF), fornitore di servizi per il finanziamento del solare nel residenziale. Exelon, altra grande compagnia elettrica, tramite Constellation, offre leasing per il FV. Ma gli esempi sono numerosi

Cleantech cita l’a.d. di CPF, Nat Kreamer, che racconta di un incontro con executive manager di grandi utility interessati alla generazione distribuita: “Una situazione del genere non si sarebbe verificata un anno fa”. D’altra parte le opportunità che si aprono nella generazione distribuita sono chiare anche a grandi utility europee: lo avevamo visto a proposito di Enel, intervistando Sauro Pasini, responsabile dell’Area tecnica Ricerca, mentre sappiamo che la tedesca RWE nei documenti interni parla dell’eventualità di “sviluppare un business model innovativo e profittevole rivolto ai prosumer, un mercato da un miliardo di euro che sta emergendo accanto alla value-chain tradizionale”.

31 marzo 2014
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Energie rinnovabili e comunità locali

di Giovanni Carrosio da www.ecologiapolitica.org

Aria, acqua, terra e fuoco, i quattro elementi fondamentali impiegati da Empedocle molti secoli fa per descrivere il mondo in cui viviamo, sono tra loro interconnessi. Il fuoco – l’energia – viene oggi utilizzato dall’uomo e consumato così dissennatamente, in particolare nelle sue forme fossili, da compromettere i cicli della biosfera, dando luogo ad un inarrestabile degrado dell’aria, dell’acqua, della terra. Il processo di privatizzazione dell’energia e di concentrazione economica negli ultimi due secoli è stato pari a quello degli altri elementi. Eppure, all’energia è stata sempre riservata poca attenzione da parte dei movimenti politici e sociali, che si sono mobilitati soprattutto in occidente per contrastare le tecnologie più distruttive, come il nucleare, o per difendere la propria terra dall’industria petrolifera, soprattutto nei Sud del mondo. Un’attenzione insufficiente è stata riservata alla relazione esistente tra energia e potere, tra forme della democrazia e fonti energetiche, tra modelli sociali e modelli energetici, con l’eccezione di alcuni intellettuali e studiosi, come ad esempio Ivan Illich (Energia ed equità, 1981), Barry Commoner (The Politics of Energy, 1979) e più di recente Hermann Scheer (Energy Autonomy: The Economic, Social & Technological Case for Renewable Energy, 2006).

Sulla scia di questi classici del pensiero critico, un bravo storico della Columbia University, Timothy Mitchell, nel suo libro “Carbon Democracy. Political Power in the Age of Oil (2012)”, ha aggiunto un elemento conoscitivo in più, sostenendo una tesi forse troppo deterministica, ma certamente stimolante nel comprendere i nessi tra fonti energetiche e forme della democrazia. Egli ha delineato una relazione molto stretta tra l’avvento del carbone e l’importanza della classe operaia come soggetto politico organizzato all’interno delle democrazie occidentali. Il ciclo del carbone permetteva alla classe operaia di poter rivendicare diritti attraverso lo sciopero in una serie di nodi centrali del ciclo produttivo, dalla sua estrazione fino all’utilizzo nelle centrali. Bloccare una sola di queste fasi significava far mancare energia a tutto il sistema produttivo di uno stato nazionale. Pensiamo a quanta risonanza e valore simbolico ha avuto ancora negli anni 1984-1985 lo scontro tra i minatori del carbone e la Tatcher, che voleva chiudere – ed effettivamente chiuse – tutti i siti minerari in Inghilterra non solo per ragioni economiche, ma per sottrarre ai lavoratori un terreno di lotta attraverso cui rivendicare diritti e democrazia. E non a caso, la chiusura delle miniere prevedeva una transizione energetica verso petrolio e nucleare, fonti energetiche che richiedono un sistema di potere molto concentrato.

Per Mitchell il declino tardo novecentesco del movimento operaio come forza del cambiamento ha una delle cause proprio nel mutamento del sistema energetico e nel passaggio dalla centralità del carbone a quella del petrolio. Quest’ultima, fonte poco controllabile socialmente perché dislocata soprattutto nei paesi mediorientali e bisognosa di un apparato militare per gestirne le implicazioni geopolitiche, ha fatto sì che i lavoratori e i cittadini dei paesi occidentali perdessero la possibilità di controllare l’elemento primario per il funzionamento degli apparati sociali e produttivi della società contemporanea: in seguito alla continua e progressiva sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine in ogni ambito della nostra vita, l’energia è diventata sempre più un elemento fondamentale nella nostra quotidianità.

Ammesso che gli scenari di transizione dal sistema fossile ad un sistema di approvvigionamento energetico basato per lo più su fonti rinnovabili e decentrate siano realistici – molti osservatori sostengono che stiamo assistendo ad una fase di transizione energetica, ma altri ritengono che vi sarà un rigurgito delle fonti fossili grazie a nuove tecniche di estrazione – con le energie rinnovabili si può riaprire la possibilità di controllare democraticamente la produzione di energia. Allo stesso tempo, si riaffaccia la possibilità di risanare una delle fratture metaboliche più significative tra natura e società, che si è aperta a partire dallo sfruttamento ottocentesco delle fonti fossili con la liberazione in atmosfera di enormi quantità di anidride carbonica e l’alterazione forse irreversibile del clima. Certamente il carbone, come sostiene Mitchell, ha consentito alla classe operaia di conquistare diritti, stato sociale e democrazia, ma questo è successo in contraddizione e a discapito degli interessi della natura, rendendo la seconda contraddizione disvelata da James O ’Connor, quella tra ambiente e capitale, un elemento costitutivo delle democrazie occidentali novecentesche.

In Europa e in alcuni paesi emergenti, come Cina, Brasile e India, l’energia prodotta da fonti rinnovabili sta effettivamente crescendo di importanza, conquistando importanti quote all’interno del paniere delle fonti energetiche. Significative politiche di promozione delle nuove fonti rinnovabili hanno fatto sì che eolico, fotovoltaico, biomasse, geotermia si diffondessero rapidamente. La scelta di investire nelle rinnovabili non è stata però inserita all’interno di una alternativa di sistema, e questo ne ha depotenziato notevolmente la portata democratica e ambientale. Le rinnovabili sono state utilizzate fino ad oggi soprattutto come uno strumento di ristrutturazione verde del capitalismo, producendo concentrazioni economiche talvolta in continuità con quelle già esistenti, che agiscono come nuovi padroni del vapore (nel nostro caso padroni del vento, del sole…). Le multinazionali che investono nelle energie rinnovabili si muovono su scala globale, speculando sugli incentivi messi a disposizione dagli stati nazionali, senza alcun tipo di integrazione con i territori, seguendo una logica di economie di scala che sono spesso incompatibili con i sistemi ecologici locali. L’esempio più eclatante sono le grandi centrali a biomasse, che devono importare materia prima dall’estero – integrandosi nella geografia globale del land grabbing – perché sovradimensionate rispetto alla biocapacità locale di fornire risorse.

Nonostante i processi dominanti vedano la costituzione di nuove concentrazioni e la permanenza di contraddizioni tra produrre energia da fonti rinnovabili e preservazione dell’ambiente, vi sono segnali importanti che ci dimostrano come le energie rinnovabili possano essere strumento di riappropriazione per le comunità locali del controllo democratico sulla produzione e sul consumo di energia e della ricomposizione della frattura tra sistemi socio-produttivi e sistemi ecologici.

In un recente libro, Livio de Santoli – professore di Fisica alla Sapienza di Roma – ha delineato come le comunità locali possano acquisire autonomia energetica grazie all’adozione di sistemi di micro-generazione da fonti rinnovabili (Le comunità dell’energia, Quodlibet, 2011). Una autonomia energetica, che sul piano politico e sociale diventa appunto democratizzazione economica e possibilità di redistribuire il potere da strutture gerarchiche a sistemi sociali locali.  Il web dell’energia, ovvero la creazione di una rete di nodi mediante la quale organizzare territorialmente la produzione, la distribuzione e il consumo di elettricità e calore, è infatti una prospettiva radicale, che ha l’ambizione di rovesciare l’attuale modello centralistico-gerarchico in nome di una democratizzazione comunitaria e di un’ampia federalizzazione delle risorse.

Intento della nostra rivista è iniziare un percorso conoscitivo per fare luce su come le comunità locali si stanno dotando di sistemi di produzione di energia da fonti rinnovabili, cercando di cogliere la varietà dei modelli socio-organizzativi che vengono adottati su scala locale e le conseguenze che l’introduzione delle rinnovabili di comunità producono anche sul piano politico e sociale.

Iniziamo questo viaggio conoscitivo con una piccola comunità nella provincia di Bolzano, quella di Prato allo Stelvio. Si tratta di una comunità di circa 3.400 anime, in provincia di Bolzano, che soddisfa interamente il proprio fabbisogno di elettricità e calore con le rinnovabili e, attraverso una cooperativa che coinvolge praticamente tutti gli abitanti, gestisce in proprio impianti e rete elettrica, con ricadute positive sul piano ambientale ed economico, grazie alla creazione di circuiti economici locali e alla gestione sostenibile delle risorse.

Storicamente, proprio la posizione geografica di isolamento è diventata una importante virtù. Nel 1925 la rete elettrica nazionale non serviva ancora questa comunità ed è allora, con una piccola centrale idroelettrica da 80 kW, che è iniziata l’esperienza di autarchia energetica partecipata. Da allora viene gestita in completa autonomia la produzione di energia attraverso una cooperativa, Energie Werk Prad – Società Elettrica di Prato, di cui sono soci praticamente tutti gli abitanti (il 90% delle utenze allacciate). Di proprietà della cooperativa, oltre agli impianti di produzione da rinnovabili, è anche la rete elettrica, che si interfaccia con quella nazionale per prelevare energia in certi momenti e per vendere il surplus, ma che può funzionare anche a isola: qui per esempio non si sono nemmeno accorti del black out del 2003.

A produrre più energia di quella che il paese consuma – il 50% il surplus elettrico annuo – è un mix di fonti rinnovabili ben assortito, che sfrutta al meglio le potenzialità offerte dalla posizione geografica del paese, sovrastato dal ghiacciaio dello Stelvio e circondato da boschi e da pascoli: idroelettrico, centrali alimentate con biogas e biomasse di produzione locale, ma anche eolico e fotovoltaico. Il grosso, come si può immaginare, lo fa l’acqua: 4 impianti idroelettrici di piccola e media dimensione, per una potenza complessiva di circa 3,4 MW, alcuni dei quali integrati nel sistema di irrigazione che serve tutta la zona agricola.

Fiore all’occhiello del sistema energetico di Prato allo Stelvio sono poi gli impianti a biomassa, che producono sia elettricità (3,9 milioni di kWh l’anno) che calore (13,9 milioni kWh/anno) per l’impianto di teleriscaldamento che serve l’85% del territorio comunale. A fornire l’energia primaria quasi esclusivamente biomassa di provenienza locale. Il contributo del gasolio all’alimentazione del sistema di cogenerazione, che nel 2001 era di circa l’80%, in 9 anni è stato progressivamente eliminato.

Dei 4 impianti di cogenerazione, riuniti in un unico locale, due – da oltre 1 MW l’uno – funzionano con cippato (oltre la metà dell’energia primaria del sistema) proveniente per il 40% dai boschi comunali e per il resto dagli scarti delle segherie della zona; un altro è alimentato con il biogas prodotto in loco a partire dalle deiezioni animali dei molti allevamenti; il quarto impianto a olii vegetali – in parte acquistati in Italia tramite filiera certificata e in parte ottenuti anche riutilizzando gli olii di frittura degli alberghi locali – viene acceso solo quando il fabbisogno energetico è più alto, ossia d’inverno.

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Democratizzare il sistema energetico

Vento e sole sono disponibili ovunque, così le energie rinnovabili possono essere utilizzate a piccola scala, in qualunque angolo del mondo. Questa natura delle fonti rinnovabili, insieme ad una transizione energetica ormai avviata, promette di trasformare la struttura e le dimensioni dei sistemi elettrici nazionali. La più grande trasformazione alla quale bisogna lavorare è la democratizzazione della rete elettrica, abbandonando un sistema dominato dalle grandi utilities per costruire un sistema democratico, formato dalla interazione di milioni di piccoli produttori che si scambiano energia in una rete altamente flessibile.

Scarica il rapporto di ricerca Democratizing the Electricity System – A Vision for the 21st Century Grid

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ALL’OMBRA DI FUKUSHIMA RIPARTE IL NUCLEARE NEL MONDO

Ventisette milioni di voti al referendum antinucleare basteranno a chiudere la partita? Si, solo se si tiene viva l’alternativa della riduzione dei consumi e della sostituzione delle fonti fossili con le rinnovabili e se si tiene d’occhio il rapporto inverso tra disarmo atomico e proliferazione del nucleare civile. Una tentazione quest’ultima che torna ad ispirare le politiche industriali delle potenze mondiali. In effetti, come prevedeva Hermann Scheer (http://www.edizioniambiente.it/libri/656/imperativo-energetico/), questo primo quarto di secolo assisterà ad una sfida aperta tra sole e atomo.

IL PESO DEGLI INTERESSI MILITARI

A tre anni dalla tragedia, Fukushima non sembra decisiva quanto lo era stata Chernobyl trenta anni fa. E ciò nonostante che, dopo la fuoriuscita di 300 tonnellate di acqua altamente radioattiva dalla centrale, il governo giapponese abbia alzato già a metà del 2013 lo stadio di allerta al Livello 3, corrispondente su scala mondiale a un “incidente radioattivo grave”. Subito dopo il riconoscimento ufficiale della enorme gravità dell’evento, sui mercati si era diffuso il panico e alla Borsa di Tokyo i guadagni accumulati sino a quel momento erano evaporati completamente. (V. http://www.wallstreetitalia.com/thumbnailer.aspx?width=0&image=57404.png)

Il tracollo improvviso di 250 punti dell’indice azionario Nikkei 225 in seguito alle notizie sulle fuoriuscite radioattive da Fukushima rimarcava l’allarme per il riversamento nel Pacifico dell’acqua radioattiva presente nel terreno di Fukushima, e per l’accumulo fino a 40.000 miliardi di becquerel (unità di misura del Sistema internazionale dell’attività di un radionuclide, con 1 Bq che corrisponde ad 1 disintegrazione al secondo) nelle acque del mare.

Ma, se si sono turbati persino i mercati, chi ha messo il silenziatore all’opinione pubblica mondiale? E come mai l’energia nucleare torna saldamente nelle agende politiche di molti paesi, con proiezioni per nuovi impianti simili o superiori a quelli dei primi anni del nucleare? Con 70 reattori in costruzione in tutto il mondo di oggi, sltri 160 o più programmati a venire durante i prossimi 10 anni e centinaia di impianti in cantiere, l’industria nucleare globale sta chiaramente avanzando con forza. La maggior parte dell’aumento della capacità (oltre l’80%), verrà concentrata nei paesi che già utilizzano il nucleare e posseggono armamenti nucleari.

Quindi, bisogna ancora una volta non sottovalutare il ruolo dell’apparato militare nel sostegno al nucleare civile. A cominciare dall’Europa, che va alle elezioni senza un dibattito evidente sulla propria politica energetica e la sicurezza e chiusura dei suoi reattori. Anzi, il rilancio annunciato del nucleare inglese – con la collaborazione francese – esprime l’ambizione di Gran Bretagna e Francia di ritornare “grandi potenze”. Il 21 ottobre 2013 il governo inglese conservatore, appellandosi a capitali e tecnologia d’oltre Manica, ha rilanciato l’impegno nucleare, dando via libera a un consorzio franco-cinese che costruirà due reattori nel sito di Hinkley C, il primo di almeno otto siti nucleari che dovrebbero “ridurre i costi energetici e la dipendenza da combustibili fossili e vecchi impianti”.

Se si guarda al retroterra militare del nucleare cosiddetto “civile”, non dovrebbe stupire più di tanto che l’atomo inglese possa parlare anche francese, non fosse altro che per riequilibrare la potenza economica tedesca in Europa.

Cameron, ha infatti confermato “l’irrinunciabilità dell’arsenale nucleare nazionale ai fini della preservazione degli interessi vitali del paese, almeno fino a quando si assisterà alla proliferazione orizzontale di armi di distruzione di massa e di sistemi missilistici balistici”. Il nucleare militare francese, altresì, punta a mantenere una deterrenza nucleare “limitata ma efficace, essenziale per la sopravvivenza della nazione”. Oggi, sia la Francia che la Gran Bretagna si oppongono alla de-nuclearizzazione dell’Alleanza Atlantica. E vogliono che la NATO rimanga un’alleanza nucleare e, mirando a un ruolo di prime potenze nell’area mediterranea si fanno promotrici dell’intervento contro il regime siriano, l’Iran, la Libia.

http://www.ansa.it/web/notizie/canali/energiaeambiente/nucleare/2013/10/21/Cameron-nucleare-settore-vitale-assicura-lavoro_9495129.html

Contemporaneamente, la capacità nucleare si sta espandendo in Europa orientale e in Asia. La Cina si sta imbarcando su un enorme aumento della capacità nucleare a 58 GWe entro il 2020, mentre obiettivo dell’India è di aggiungere ai suoi in funzione da 20 a 30 nuovi reattori entro il 2030.

Intanto, mentre alcune comunità come in Finlandia e Svezia hanno accettato la costruzione locale di siti di smaltimento definitivo dei rifiuti nucleari importati, ci sono già esempi di globalizzazione dell’industria nucleare. A livello commerciale, entro la fine del 2006 tre grandi alleanze tra occidentali e giapponesi si erano formate e sono state dopo il 2010 rafforzate: Areva con Mitsubishi Heavy Industries;

General Electric con Hitachi; Westinghouse con il controllo per il 77% da parte diToshiba. Molti dei reattori della Cina utilizzano tecnologia proveniente dal Canada, da Russia, Francia e Stati Uniti, mentre la Cina assiste paesi come il Pakistan nello sviluppo dei loro programmi nucleari. La Russia è attiva nella costruzione e nel finanziamento di nuove centrali nucleari in diversi paesi. La Corea del Sud sta costruendo un progetto nucleare per 20 miliardi di dollari negli Emirati Arabi Uniti. Infine, anche l’Australia si appresta per la prima volta ad entrare nel mercato dell’atomo.

(Vedi anche: WNA Documento Informativo sui piani per nuovi reattori in tutto il mondoWNA Documento Informativo su Emergenti Paesi energia nucleare .)

CAMBIAMENTO CLIMATICO, RIARMO, DISINFORMAZIONE

Una maggiore consapevolezza dei pericoli e dei possibili effetti dei cambiamenti climatici ha portato i decisori, i media e l’opinione pubblica ad accettare che l’uso dei combustibili fossili debba essere ridotto e sostituito da fonti a basse emissioni di energia. Il sentimento popolare si concentra sulle energie rinnovabili, ma il nucleare è l’unica tecnologia prontamente disponibile su larga scala che sia alternativa ai combustibili fossili per la produzione di una fornitura di energia elettrica che assicuri il carico di base e sia compatibile con l’attuale sistema centralizzato imposto dalle corporation. Per di più molti dei problemi legati al cambiamento climatico, alla sicurezza nucleare, alla non proliferazione, sono a dimensione globale e gli accordi tra stati passano da verifiche affidate ai loro apparati militari, sostenitori dell’atomo.

D’altra parte la traiettoria pericolosa dall’energia nucleare alle armi nucleari è oggi messa in discussione da una richiesta popolare per la pace e la sostenibilità.

Lo dimostra la grande manifestazione dell’11 Marzo a Tokyo, silenziata dai media.

Sotto gli slogan “Sayonara Nucleare” e “Fukushima non si ripeta ancora”, migliaia di persone rappresentate da associazioni si sono riunite nel parco di Hibiya, per dare forma ad un corteo che si è concluso sotto la sede del Parlamento, la Kantei.

Le proteste, tuttavia, vengono contrastate da una nuova legge scellerata.  ( www.counterpunch.org ). I partiti giapponesi si sono scontrati in Parlamento riguardo ad una legge sui segreti di Stato. Secondo questo provvedimento il governo – e solo quest’ultimo- ha il potere di decretare quali possano essere i segreti di stato. Qualunque impiegato statale che divulghi questi “segreti” rischia di essere detenuto fino a 10 anni ed i giornalisti che rischiano di rimanere incastrati nelle maglie di questa vaga legge potrebbero scontare una pena fino a 5 anni di carcere.
Questa indiscutibile battuta d’arresto della democrazia si è abbattuta sulle dimostrazioni per Fukushima. Alle spalle di queste restrizioni sulla libertà, c’è un rivitalizzazione del militarismo giapponese, che attenta alla sovranità popolare ed è altresì provocato dal disaccordo con la Cina riguardo al Mare del Sud. Le posizioni assunte dalla Cina sono servite come giustificazione da parte del Dipartimento di Sicurezza USA per il coinvolgimento da parte del militarismo industriale americano nel Sud-Est asiatico in appoggio al rilancio del nucleare ad opera del nuovo governo conservatore del Giappone.
Contro la legge molti dei più famosi scienziati Giapponesi, inclusi i premi Nobel Toshihide Maskawa e Hideki Shirakawa, hanno guidato l’opposizione firmando una lettera pubblica di protesta che definisce la legge in questione una minaccia ai “principi del pacifismo e ai diritti umani fondamentali stabiliti dalla Costituzione”. Non suona un pò troppo familiare tutto ciò?

Per una più ampia riflessione su questi temi rimandiamo alla imminente pubblicazione del libro di Stephane Hessel e Albert Jacquard “Exigez” a cura di Energiafelice (Agostinelli, Mosca, Navarra), edito da Ediesse. ( v. http://www.china-files.com/page.php?id=36867 )

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