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Energia? Solo per lobby e specialisti

Continuo a non darmi una spiegazione di come mai le questioni energetiche, all’origine di grandi conflitti geopolitici e di enormi preoccupazioni ambientali, non entrino assolutamente nell’agenda politica che viene posta – ancorchè attraverso le distorsioni del sistema di media – all’attenzione dei popoli, che, in quanto sovrani, potrebbero orientarne democraticamente gli sviluppi. L’energia sembra questione di lobby, di corporation semisegrete, di società anonime dedite a ostacolare ogni trasparenza, di una megamacchina tecnologica affidata a esperti e scienziati senza altre visioni che quelle connaturate alla loro specializzazione. Eppure, poche questioni impattano in modo così rilevante sul diritto alla vita come la necessaria transizione per una fuoriuscita dalle fonti fossili e dal nucleare. E la ricerca di un sistema alternativo a quello che ha dominato la rivoluzione industriale esige un contesto interdisciplinare e un continuo scambio tra tecnici, scienziati, economisti e tutte le articolazioni della rappresentanza diretta e delegata, se si vogliono considerare i riflessi sociali, politici, economici e ambientali delle soluzioni da adottare. Invece, ci troviamo continuamente posizionati all’incrocio tra enormi interessi di speculazione finanziaria, pressioni di corruzione a livello internazionale, progetti di strategie militari, colonizzazione in chiave moderna di interi territori. Insomma: nonostante l’approccio democratico e pubblico dell’IPCC nell’affrontare il nesso tra cambiamenti climatici, comportamenti umani e modello energetico, con un incontestabile documento indirizzato a decisori politici che dovrebbero rappresentare la sovranità popolare a livello planetario, quei decisori si rimettono alla volontà del capitale globale e stazionano nelle loro stanze dei bottoni blindate. Così risulta praticamente impossibile, per la stessa funzione subordinata che si sono dati i media, snidare responsabilità e discuterne apertamente.

Ne segue che la sensibilità diffusa a favore di un diverso paradigma energetico viene lasciata in un perenne stand-by (si pensi all’appannamento del significato di 27 milioni di voti contro il nucleare), interrotto episodicamente non dal varo di progetti ambiziosi e in discontinuità con il passato, ma solo da interventi prevalentemente di natura etica, come quello lanciato dal segretario dell’ONU o quello sotto riportato di papa Francesco. Di seguito provo a partire da questioni apparentemente scollegate e ordinate per livelli crescenti di importanza, per dimostrare come, nella sostanza, esista una diffusa connivenza tra potere economico e potere politico per mantenere lo status quo in un settore che, attraverso la centralizzazione e il sistema di comando che permea il sistema alimentato dalle fonti fossili, impedisce un controllo sociale esteso e informato.

 

LA SOGIN, EXPO E IL NUCLEARE

Dalle carte dell’inchiesta sugli appalti di Expo 2015 emerge l’interesse rivolto dalla “cupola” Frigerio-Greganti-Grillo verso la Sogin, società di Stato partecipata al 100 per cento dal ministero del Tesoro e incaricata della realizzazione del deposito nazionale definitivo dei rifiuti radioattivi, nonchè dello smantellamento degli impianti nucleari dismessi. Le indagini scoprono, purtroppo, tutta la permeabilità ad azioni di corruzione di un settore che, pur non essendo più centrale nella politica industriale nazionale, viene tuttavia tenuto al riparo da occhi indiscreti.

Secondo un articolo apparso sulla Stampa, che riporta le intercettazioni sotto inchiesta da parte dei Pm milanesi (http://www.lastampa.it/2014/05/11/italia/cronache/la-cricca-dellexpo-puntava-al-nucleare-sMemG2TKEdS12fY1HCZZXL/pagina.html ), Frigerio, Greganti e Grillo non si sarebbero limitati a pilotare 98 milioni di euro finiti a Maltauro e Saipem per la costruzione di depositi di scorie nucleari, ma avrebbero manovrato per nominare loro uomini in posti decisivi alla Sogin, al fine di assegnare un appalto da un miliardo e mezzo per operazioni nel sito nucleare di Caorso.

La società è da tempo esposta a forti polemiche ed ha una storia tutt’altro che irreprensibile e agevolmente riconducibile alla mancanza di trasparenza che ha sempre accompagnato le operazioni nel settore nucleare.

La Sogin ha finora svolto attività riconducibili alla realizzazione-ristrutturazione di alcuni depositi temporanei di rifiuti radioattivi e alla demolizione di vecchi fabbricati. Ma le dimensioni finanziarie complessive racchiuse nella sua “missione” vanno da 3 a 5 miliardi di euro: quindi si tratta di un’opera pubblica di dimensioni consistenti e non si può trascurare che nel corso di 10 anni l’azienda ha accumulato ritardi nei lavori che sono arrivati fino al 170%, mentre i costi preventivati sono più che raddoppiati.

Su tutta la vicenda del nucleare siamo oggi in una fase delicata di passaggio e le attuali inchieste dei magistrati fanno sperare in un intervento molto netto del Parlamento per dar corpo ad una ristrutturazione profondanel settore della sicurezza, con l’obiettivo di creare un sistema efficiente, in grado di gestire lo smantellamento degli impianti, anziché perpetuare lo status quo.

E’ uscito in queste settimane il decreto legislativo di recepimentodella direttiva comunitaria sulla gestione dei rifiuti radioattivi e stanno per essere emanati i criteri per la localizzazione del deposito nazionale delle scorie. Si tratta di indirizzare e controllare operazioni costosissime, che spesso non vengono pubblicizzate, che sono coperte da accordi internazionali semisegreti, da trasporti scortati dai militari, da creazione di depositi temporanei fuori norma, ma comunque inaccessibili a controlli pubblici.

Perché queste gravissime incongruenze? Perché sopravvivono a più livelli molti residui di una passata impostazione filo-nucleare e perchè la vittoria nel referendum del 2011 (per l’annullamento del faraonico progetto nucleare di Scajola) è ancora tutta da portare a compimento su un impervio versante lungo il quale i gruppi di pressione evocati nel titolo di queste note rimangono in attesa di una impraticabile rivincita.

 

LO SHALE GAS CHE FRANCESCO NON AMA

Le nuove tecnologie di estrazione e di impiego dei fossili incontrano crescenti resistenze e sollevano obiezioni prima ancora del loro impiego massiccio. Vale per le perforazioni e per lo spappolamento delle rocce per otteneregas di scisto e per le ipotesi di sequestro della CO2 a valle della combustione del carbone. Essendo tuttora imprecisato l’impatto ambientale di siffatti processi ad alta entropia-  anche se è fuor di dubbio che l’analisi del ciclo di vita di filiere così complesse ne metta in discussione la praticabilità –  è un atteggiamento culturale e politico quello che fa propendere per la loro affermazione o il loro rifiuto. Così, nel caso dello shale gas, la prospettiva di una futura indipendenza energetica e la indebita tolleranza per l’esternalizzazione dei costi ambientali, fa assumere al governo americano, su pressione delle lobby che contano alla Casa Bianca, una posizione di assoluto sostegno, mentre porta la Commissione europea ad aprirsi per la prima volta sulle prospettive di fracking nel vecchio continente. Viene così messo in discussione quel principio di precauzione che porta a considerare preventivamente gli effetti della introduzione di nuove tecnologie sulla vita e l’ambiente e a non ridurre la discussione sui possibili vantaggi agli artifici finanziari e di dumping valutario che possono favorire un abbassamento dei prezzi sul mercato, a discapito della salute o della sopravvivenza stessa. E’ in atto un autentico assalto delle lobby americane, appoggiate in particolare dalla Polonia e, meno esplicitamente, dall’Inghilterra, per far entrare nell’agenda politica europea i combustibili fossili non convenzionali. Nonostante l’opposizione della cittadinanza, i media anche in Italia fanno balenare l’ipotesi di un vantaggio sulla bolletta elettrica, facendo intendere che, mentre le rinnovabili pesano sulle tariffe al consumatore finale, tutti beneficeranno della riduzione presunta del prezzo del gas comprato sulla piazza olandese e magari proveniente dal fracking continentale o di oltreatlantico .
In queste settimane ha fatto molto scalpore un documento di esperti tedeschi (v. http://www.euractiv.com/energy/shale-gas-debate-intensifies-ger-news-517900) che definiscono il fracking inutile e rischioso, dubitando che lo sviluppo di shale gas sia economicamente redditizio e utile per la transizione energetica del loro Paese, derivante dalla decisione di chiudere tutti i reattori nucleari entro il 2022. Gli stessi esperti hanno proposto una consultazione pubblica e l’applicazione del principio “chi inquina paga”. Ma sono stati rapidamente tacitati a Bruxelles, dove le aziende canadesi del fracking hanno tenuto seminari per i parlamentari al ritmo di due alla settimana.

Intanto è andata persa la notizia del NO al “fracking” di papa Francesco. Un monito autorevolissimo e fuori dell’ordinario, esplicitato in un incontro con Pino Solanas, il più noto manifestante anti shale gas dell’Argentina. Il papa è al corrente del fatto che il sottosuolo dove è nato custodisce riserve di shale gas seconde solo a quelle cinesi. E che, per accaparrarsele, è già in pista la Chevron. Ma non ha perso di vista un’idea di fondo sulla fine del dominio dell’uomo sulla natura che, assicurano, comparirà in una sua prossima enciclica. E nemmeno ha trascurato, al riguardo, l’impegno di molte diocesi europee e della stessa chiesa anglicana, mentre non ha certo tenuto in conto le lamentele dei manager delle nostre multinazionali dell’energia: “da noi non ci fanno trivellare un pozzo, perche’ dopo il no-tav ci sono i no-triv”.

Ma se l’impatto ambientale del fracking sarà troppo alto anche in rapporto al contributo alla sicurezza energetica che potrà dare, direste che è più saggio il papa no-triv o i manager delle grandi aziende energetiche nazionali?

 

I COSTI INSOSTENIBILI DELLE GRANDI DIGHE

L’idroelettrico costituisce la più estesa tecnologia di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili in tutto il mondo, con i suoi 1.000 GW installati,equivalenti alla potenza elettrica totale collocata in Europa. Negli ultimi cinque anni, circa 30 GW di energia idroelettrica sono stati installati annualmente, in particolare in Cina, Africa e America Latina. (v. Financial Times 23/Giugno/2014).

L’energia idroelettrica ha caratteristiche uniche, dato che – una volta progettato ragionevolmente un impianto – la fonte può essere “immagazzinata” nei bacini per il tempo che si vuole e la fornitura di elettricità alla rete è “istantaneamente” e continuamente disponibile per effetto della gravità. Si tratta di energia che, oltre ad appartenere alla categoria delle rinnovabili, non soffre della discontinuità o dell’inerzia alla ripartenza di altri sistemi In più, la sua efficienza è ormai tale che è possibile trasformare in energia elettrica fino al 95 per cento dell’energia potenziale dell’acqua.

L’Agenzia internazionale per l’energia prevede che l’idroelettrico raddoppi il suo contributo entro il 2050, evitando 3 miliardi di tonnellate di emissioni annue di anidride carbonica da fonti fossili.

Il maggior contributo arriverebbe dai grandi progetti nelle economie emergenti o nei paesi in via di sviluppo. Tra di essi è in stato avanzato quello di Grande Inga nella Repubblica Democratica del Congo, con la costruzione della più grande diga e della più grande centrale del mondo (40.000 MW, il doppio della potenza dell’impianto delle Tre Gole in Cina), dal costo previsto di 80 miliardi di euro.

Il guaio è che per la costruzione di grandi dighe i PVS devono spesso prendere in prestito soldi, importare beni e servizi, mettendo sotto pressione le loro finanze pubbliche. La diga di Itaipu, di oltre 11.000 MW, costruita al confine tra Brasile e Paraguay nel 1970, ha registrato per il suo allestimento un aumento effettivo dei costi del 240%. Un esborso che ha colpito le finanze del Brasile per almeno tre decenni e rende tutt’ora il Paraguay dipendente dalle condizioni poste dalla Banca Mondiale.

Questi progetti giganti sono sottoposti a dura critica e opposizione. Innanzitutto perchè turbano gli ecosistemi e richiedono che le popolazioni locali vengano sradicate. E poi, perchè hanno risultati deludenti in termini di costi e di tempo e impongono debiti insostenibili per i paesi dove sono localizzati. Non da ultimo, perché di fatto realizzano una gigantesca privatizzazione dell’acqua. Un recente rapporto della Saïd Business School della Oxford University (http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0301421513010926) indica in piccoli progetti più flessibili il futuro dell’idroelettrico. Nello studio costi/benefici della messa in opera di grandi dighe, vengono fornite prove schiaccianti che i bilanci ufficiali sono sistematicamente distorti in quanto sottostimano i costi effettivi, non contemplando il calcolo dell’inflazione, il pagamento a consuntivo del debito, i danni ambientali e gli effetti sociali sulle popolazioni.  La stima reale dei costi che il rapporto fornisce nei diversi casi è sempre almeno del 90% superiore ai conti diffusi dalle corporation che gestiscono le dighe, gli invasi e la produzione elettrica.

Lo studio della Oxford University sta provocando molto sconcerto negli ambienti abituati a prendere decisioni in sedi ristrette in base ad una miope razionalità economica. In particolare, sta dando fiato agli oppositori in casi come quelli dell’Amazzonia brasiliana o dell’India, dove si registrano da decenni lotte come quelle lungo i fiumi Xingu o Narmada.

A conclusione, gli studiosi invitano i politici, in particolare nei paesi in via di sviluppo, a preferire alternative energetiche agili, che possono essere costruite su orizzonti temporali più brevi riducendo il debito finanziario, ecologico e sociale.

Prevarranno queste osservazioni assolutamente rigorose o la convergenza delle multinazionali del cemento e dell’elettricità avrà ancora una volta successo?

Qualche novità è all’orizzonte e segnala una inversione di tendenza a sfavore di quest’ultime. In queste settimane si è registrata una straordinaria vittoria dell’opinione pubblica cilena e mondiale, nonché delle popolazioni della locali, contro il mega-progetto Hidroaysen di Endesa-ENEL, relativo alle cinque grandi dighe che sarebbero dovute sorgere sui fiumi Pascua e Baker in Patagonia, fornendo una potenza di 2.750 MW con un costo di 6,5 miliardi di Euro. 
Il nuovo esecutivo cileno, guidato da Michelle Bachelet, subentrato a quello di Sebastian Piñera che nel 2011 aveva dato un parziale nulla osta all’opera, ha cancellato il piano su cui ENEL era impegnata con una partecipazione al 51% , motivando la sua decisione sulla base di una serie di questioni di carattere ambientale non risolte, nonché di problematiche legate al reinsediamento delle popolazioni locali.

Democrazia e oligarchie economiche e politiche si giocano oggi una partita decisiva sul futuro dell’energia e non solo di essa. Se ne occuperà la sinistra in crisi?

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L’Expo a Milano? La fanno a New York!

“Energia per la vita” è lo slogan che, assieme a “Nutrire il pianeta”, accompagna l’Expo milanese del 2015. Molti di noi si aspettavano una metropoli in mostra per il raggiungimento dei target climatici più ambiziosi: una vetrina di come un Paese che si identifica con la bellezza della natura potesse trarre dalle fonti naturali anche il proprio futuro energetico. Niente di tutto questo: EXPO fa notizia come grande mostra estemporanea della filiera alimentare globale, come succulenta occasione per completamenti di autostrade e tangenziali pluricorsie, come cantiere incompiuto di cementificazioni talvolta sotto inchiesta, come testimonianza – in definitiva -di quell’era “tecnozoica” che, secondo Leonardo Boff, ( v. http://www.greenreport.it/_archivio2009/index.php?page=default&id=8966) dovrà necessariamente cedere il posto ad un’era “ecozoica”, in armonia con l’ambiente.

Mentre i milanesi si arrabattano intorno all’immutabilità della loro bolletta del gas, dall’altra parte dell’oceano fa clamore un progetto che sarebbe stato bene veder nascere nella città ambrosiana: New York – sì, l’area dei grattacieli, degli uffici sempre illuminati  e dei bagliori al neon di mille colori – ha deciso una massiccia quanto concreta diffusione e penetrazione della fonte solare.

Dopo l’uragano Sandy, il governatore dello stato Andrew Cuomo ha annunciato la nomina di Richard L. Kauffman – un esperto di economia verde – come plenipotenziario per una nuova politica energetica e finanziaria al fine di “solarizzare” lo stato di New York e scongiurare, con la diffusone di sistemi decentrati di accumulo, di risparmio e di cogenerazione i black out registrati nel corso delle recenti intemperie atmosferiche. L’iniziativa è stata elogiata e calorosamente condivisa dal nuovo sindaco metropolitano Bill De Blasio.

A sostegno di una autentica partecipazione, viene creata una “banca verde”, che offrirà prestiti e sovvenzioni per la produzione e distribuzione di energia pulita, per abbassare le barriere del mercato finanziario che attualmente impediscono il flusso di capitali privati ​​verso l’energia rinnovabile e per creare “i posti di lavoro di domani” (v.

http://www.greentechmedia.com/articles/read/new-york-offers-285-million-in-demand-reduction-incentives )

L’annuncio è accompagnato dai progetti operativi di ristrutturazione delle municipalizzate locali (altro che la corsa in borsa di A2A e compagnia…), di eliminazione dei picchi di carico, di riduzione di 125 MW attraverso la cogenerazione, di creazione di 2.500 stazioni di ricarica per veicoli elettrici. L’iniziativa è parte di un piano più ampio per aumentare la resilienza del sistema al cambiamento climatico, che prevede, tra l’altro, “il raffreddamento, la refrigerazione e la ventilazione, l’illuminazione ad alta efficienza, la costruzione di sistemi di gestione, di stoccaggio a batteria o accumulo termico”. 219 milioni di dollari andranno all’efficienza energetica e alla riduzione della domanda, mentre altri 66 sono stanziati per i sistemi di cogenerazione presso grandi siti commerciali.

L’aspetto comunque più clamoroso riguarda 1 miliardo di $ per il programma solare sostenuto dalla “banca verde” a cui lo stato contribuisce con 165 milioni. La finalità è quella di finanziare attraverso forme di partnerariato pubblico-privato i progetti approvati da una commissione pubblica ad hoc costituita.

( v. http://www.pv-magazine.com/news/details/beitrag/new-york-to-add-1-billion-to-state-solar-program_100013918/ )  Gli incentivi fotovoltaici statali erogati fino al 2023 consentiranno di  raggiungere 3 GW di potenza fotovoltaica, creare “Solar community” e fornire assistenza tecnica alle scuole interessate a ridurre i costi energetici e a diventare “hub dimostrativi.

Cuomo dichiara che “fornendo la certezza del finanziamento a lungo termine lo stato sta attirando investimenti del settore privato e creando nuove opportunità economiche e di sostegno allo sviluppo sostenibile, fino a trasformare l’industria solare di New York in un settore ambientale in espansione privo di sussidio. Questo nuovo approccio – conclude – contribuirà a preservare l’ambiente, ridurre le bollette e creare opportunità di crescita economica”.  (v. http://www.governor.ny.gov/press/04242014-solar-power)

Il nuovo impegno di finanziamento prevede anche 3,5 milioni di dollari per l’educazione dei consumatori sui vantaggi dei sistemi fotovoltaici, che, tra l’altro, si tradurranno in un risparmio di 116.000 tonnellate di emissioni di gas serra ogni anno.

 

Non ci sarebbe dispiaciuto un programma così ambizioso per il confuso 2015 dell’Expo di Milano e Lombardia e una stretta di mano Maroni-Pisapia calorosa come quella tra Cuomo e De Blasio. Ma, forse, ci toccherà volare oltre Atlantico con Etihad…

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Ma Renzi ne sa di energia?

di Mario Agostinelli

Il 6 maggio è toccato a Matteo Renzi, di fronte a Barack Obama e agli altri leader del G7 orfano di Putin, parlare soprattutto di gas e assai poco di energie rinnovabili, nonché del ripescaggio di una politica energetica un po’ vintage, che rilancerebbe rigassificatori piazzati sulle coste dell’Atlantico e del Mediterraneo, magari per ricevere lo shale gas di produzione americana.

La nostra stampa ha sottolineato la capacità di persuasione che il nostro premier prova ad esibire nei meeting internazionali, ma non ci ha comunicato i contenuti della relazione assegnata dai suoi partner all’Italia. Un rapporto che avrebbe dovuto tratteggiare il futuro orizzonte energetico delle potenze mondiali, ma che più che fornire un programma di respiro si è limitato a esibire un attestato filoamericano e anti Putin.

Poco dopo, il 28 maggio, l’Ue, con i commissari ormai in scadenza per le elezioni di nuovo mandato, ha emesso un documento sulla strategia per la sicurezza energetica  dei 27 Paesi dell’Unione. Al di là dei comunicati stampa, quali sono le linee di fondo degli impegni su energia e clima presi tra “sette amici al bar” o da funzionari ormai in libera uscita e sottoposti alle pressioni delle lobby che operano a Bruxelles?

Partiamo dal documento Ue, più facilmente documentabile, poiché le esternazioni di Renzi sono abitualmente rilanciate più sotto il profilo della provocazione che per la cogenza dei contenuti. “A mano a mano che l’energia è diventata parte vitale dell’economia europea e degli stili di vita moderni, è diventato naturale aspettarsi forniture energetiche sicure: accesso ininterrotto alle fonti di energia ad un prezzo accessibile.” Così inizia lo studio presentato dalla Commissione Europea. La crisi Russia-Ukraina ha riacceso i riflettori, anche della stampa non specializzata, sul tema della dipendenza europea dai fossili oltreconfine.

In Europa il consumo di carbone tra il 2006 e il 2013 è sceso dal 21% al 17%, quello del petrolio dal 37% al 24%; il gas invece è aumentato dal 20% al 23%, mentre costante rimane l’apporto del nucleare (13%). È raddoppiato quello delle rinnovabili, salito a 11% nel 2012 e oltre il 13% nel 2013. Negli ultimi vent’anni la dipendenza dall’estero è cresciuta perché i giacimenti europei di petrolio, gas e carbone hanno ridotto la loro produzione e continueranno a farlo. Nel 2012 i 27 Stati sono dipesi dall’estero per il 90% del petrolio, per il 66% del gas, per il 62% del carbone e per il 95% dell’uranio.

Per il gas i preconsuntivi del 2013 rivelano che il 39% del gas importato è giunto dalla Russia, il 34% dalla Norvegia e il 13% dall’Algeria: la spesa complessiva per queste importazioni è stata di 87 miliardi di euro.

La forte dipendenza da un numero esiguo di fornitori è legata anche alla tipologia di approvvigionamento, poiché se il gas arriva totalmente via tubo, l’import è vincolato al paese da cui ha origine l’infrastruttura. Più flessibilità offrirebbero invece i terminali di rigassificazione, poiché via nave il gas liquefatto potrebbe giungere da diversi Paesi, a seconda dei contratti di volta in volta stipulati.

Visti questi dati, il problema diventa allora quello di aumentare le fonti locali e qui sarebbe d’obbligo puntare sulle rinnovabili. Ma per preservare la struttura centralizzata e basata su grandi impianti e per aprire all’alleato oltre atlantico la partita dell’esportazione di shale gas, il documento UE invita a raddoppiare i rigassificatori lungo le coste e a sviluppare le fonti fossili ancora disponibili in Europa (Mare del Nord, Mediterraneo e Mar Nero).

Mentre si promette “il lancio di una rete scientifica e tecnologica europea sull’estrazione non convenzionale di idrocarburi”, per sole, vento, acqua, geotermia e biomasse, pur sottolineando che hanno fatto risparmiare almeno 30 miliardi di euro l’anno, la commissione si limita a raccomandare di “continuare lo sviluppo delle fonti rinnovabili per raggiungere il target al 2020 nell’ambito di un approccio orientato al mercato”. Sul nucleare l’unica raccomandazione della commissione è di non affidarsi ad imprese russe per la fornitura del combustibile dei reattori. Quindi, siamo di fronte ad una marcia indietro sempre più preoccupante dell’Europa delle corporation e delle lobby energetiche.

In riferimento a Renzi, la posizione da lui esposta al G7 è perfino più partigiana e a favore del mantenimento del sistema attuale, nonché a sostegno di un ruolo in definitiva marginale per le rinnovabili. Le premesse del suo intervento non lasciano tranquilli: c’è il “problema di costruire la coerenza necessaria tra le politiche della concorrenza e le politiche ambientali ed energetiche” ed “è necessario costruire un equilibrio tra l’ambiziosa politica climatica e le esigenze competitive dell’industria europea“. E poi c’è un inquietante accenno all’accordo commerciale ITTP a cui stanno lavorando da nove mesi Stati Uniti e Unione Europea. Infatti, con l’obbiettivo che l’Europa si smarchi dalla Russia, l’ITPP dovrebbe comprendere anche scambi privilegiati di produzioni energetiche tra le sponde dell’Atlantico. È chiarissimo il riferimento al gas da scisto americano e all’abolizione del divieto di estrarre shale gas in Europa.

Secondo la posizione espressa il 6 maggio dal nostro Premier, i Paesi del G7 dovrebbero simulare “piani di emergenza energetica” per il prossimo inverno, in uno scenario in cui il ruolo della Russia sarebbe contenuto da un maggiore coordinamento internazionale, mentre sarebbero sostenuti gli sforzi della Ue nell’identificare possibili punti di contatto fra le infrastrutture esistenti e gli impianti di rigassificazione, che diventerebbero i terminali continentali dello shale gas canadese e americano.

Domanda: oltre alle assicurazioni di sanzioni commerciali per la Russia e all’ossequio al presidente americano venuto ad assicurarsi subito la vendita di F35 e, in futuro, la struttura per accogliere il suo gas liquefatto, non sarebbe stato bene mettere in scena un dibattito meno prono e più responsabile? Ad esempio, non attribuendo un ruolo solo cosmetico alla connessione tra sicurezza energetica e gli obiettivi per il 2030 sul clima, di cui tutti i Paesi del globo dovranno urgentemente discutere prima a Parigi e poi a Lima nel 2015.

L’IPCC dice che clima, sicurezza e ambiente devono essere i riferimenti nel disegno di un nuovo sistema energetico. L’UE, il G7 e l’Italia invece sono fermi al mercato. Al nuovo Parlamento Europeo si chiede di giocare questa complessa e difficile sfida. Con quale ruolo per l’Italia è tutto da discutere, visto che il Premier, lasciato solo al comando e più attento alla geopolitica che alla biosfera, dimostra di saperne davvero poco.

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Sos ambientalisti: “Da Stati solo promesse, sussidi per fonti fossili altissimi”

Nessuna inversione di rotta. Continuano a essere elevati i sussidi degli Stati alle fonti fossili, nonostante la loro combustione sia la causa principale del cambiamento climatico. Nemmeno ilG20 di Londra del 2009 durante il quale gli Stati si erano impegnati a “razionalizzare e ridurre nel medio termine i sussidi ai combustibili fossili” ha spinto a cambiare atteggiamento i grandi del mondo: le fonti fossili beneficiano attualmente di circa 520 miliardi di dollari all’anno contro 88delle fonti rinnovabili. Non va meglio in Italia dove sono oltre 12 miliardi gli euro di sussidi, tra diretti e indiretti.

È in questo quadro concettuale e d’azione che hanno preso il via i lavori del Power Shift Italia, il primo meeting nazionale di ambientalisti organizzato a RoveretoNato sulla scia del Global Power Shift – evento internazionale del giugno 2013 a Istanbul e che ha riunito gli ambientalisti di 165 Paesi – l’incontro è stato voluto dall’Italian Climate Network, proprio con l’obiettivo di riunire sotto un’unica “bandiera” le varie associazioni e ong ambientaliste italiane: da Legambiente a Oxfam, dal Wwf all’International society doctors for the environment. Un appuntamento utile a conoscersi e a mettere nero su bianco obiettivi e strategie comuni, che di fatto ha dato vita a un primo movimento ambientalista italiano unitario.

Il primo filo conduttore è proprio la lotta ai combustibili fossili. “I sussidi alle fonti fossili non esistono nel dibattito pubblico e politico italiano – dice la responsabile del settore Energia e clima di Legambiente, Katiuscia Eroe – Addirittura nel documento di Strategia energetica nazionale approvata nel 2013, il tema dei sussidi alle fonti fossili, semplicemente, non compare”. Si tratta di 12 miliardi di sussidi divisi fra diretti (4,4 miliardi di euro) e indiretti, 7,7 miliardi tra finanziamenti per nuove strade, autostrade e “sconti” per le trivellazioni. La sola spesa nazionale per l’approvvigionamento di energia dall’estero nel 2012 è stata pari a 64,4 miliardi di euro – era di 62,7 miliardi nel 2011 e 52,9 nel 2010 – per carbone indonesiano e sudafricanopetrolio russo e dell’Arabia Saudita e gas da Algeria e Russia. “Eppure – commenta Eroe – negli ultimi due anni tutta l’attenzione mediatica e politica si è concentrata sul peso crescente della componente legata agli incentivi alle fonti rinnovabili”. Secondo un dossier del 2013 di Legambiente, per quanto riguarda i sussidi al trasporto – diretti al sostentamento del settore, sconti sui pedaggio autostradali, riduzioni sui premi Inail e Rca e via dicendo – tra il 2000 e il 2013 siano stati dati 5.324,7 milioni di euro. Ci sono poi gli sconti sull’acquisto di carburante per cui l’Italia nel 2011 ha sostenuto il settore energetico fossile con riduzioni ed esenzioni dall’accisa per oltre 2 miliardi di euro. A partire dal 2013, poi, ci sono state riduzioni di accise da 9,7 milioni di euro per le emulsioni di gasolio od olio combustibile in acqua impiegate come carburanti o combustibili. E ancora, la responsabile del clima di Legambiente ha citato i 160 milioni di euro di fondi pubblici Ets, che sarebbero dovuti servire a ridurre le emissioni di CO2, ma che andranno a finanziare invececentrali inquinanti. “La pressione delle lobby delle fonti fossili – spiega – e di Confindustria al momento della definizione del Piano nazionale di assegnazione delle quote di emissione nel 2008 e un successivo intervento del governo Berlusconi del 2010, hanno portato a far in modo che le imprese verranno ripagate per le quote di emissione comprate sul mercato con soldi presi dai proventi della vendita all’asta dei permessi ad emettere”. Altri 51 milioni di euro vanno alla centrale a carbone Enel di Civitavecchia.

E poi i sussidi alle trivellazioni: le royalties previste per trivellare in Italia sono state portate con il decreto Sviluppo del governo Monti al 10%-7% per il petrolio a mare, “estremamente vantaggiose – dice la Eroe – come si legge anche in alcuni report delle stesse compagnie straniere che vengono a svolgere la loro attività in Italia”. A questo si aggiungono le esenzioni sul pagamento delle aliquote allo Stato per le prime 20mila tonnellate di petrolio prodotte annualmente in terraferma, le prime 50 mila tonnellate di petrolio prodotte in mare, i primi 25 milioni di metri cubi standard di gas estratti in terra e i primi 80 milioni di metri cubi standard in mare.

I numeri non cambiano a livello globale. La ricercatrice di Enea, Maria Velardi, citando l’ultimo rapporto Iea – l’Agenzia internazionale dell’energia – ha fatto sapere che i sussidi ai combustibili fossili sono stati, nell’ultimo anno, circa 523 miliardi dollari, una cifra sette volte tanto quella che gli Stati investono in aiuti ai Paesi in via di sviluppo per combattere i cambiamenti climatici. Solo l’8% dei 409 miliardi spesi in sussidi ai combustibili fossili, poi, nel 2010 è andato al 20% più povero della popolazione. “I sussidi – ha commentato Laura Tagliabue, dell’Italian Climate Network – comportano un aumento dell’inquinamento atmosferico locale e delle emissioni di gas serra. I bassi prezzi dei combustibili fossili, infatti favoriscono lo spreco dell’energia, riducono l’interesse ad adottare misure di risparmio energetico e limitano gli investimenti in energie rinnovabili, infrastrutture e servizi energetici”.

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